24 Ottobre 2024

Neanche Dio vince il pregiudizio

Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

Cerco di formulare un pensiero che mi gira nella testa da qualche tempo.
A lungo mi sono trastullata nell’ingenua fiducia che sia possibile dissipare qualsiasi pregiudizio a patto di sforzarsi, di confutare in modo coerente, di spiegare, di mostrare, eccetera.

Adesso, purtroppo, tendo a pensare che il pregiudizio sia un vicolo cieco comunicativo da cui è impossibile uscire tramite spiegazioni, o un certo tipo di comportamento, insomma tramite le azioni di una parte sola. La formula: «prova a convincermi che lui (lei) non è così», è chiaramente un nonsense. Proprio perché dall’esterno non si riuscirà mai a convincere nessuno, qualunque cosa faccia l’oggetto del pregiudizio. Se A preferisce credere che «quelli lì (e qui si può mettere la parte che si vuole) sono tutti cattivi», e fa riferimento alla propria esperienza: l’ho visto coi miei stessi occhi, eccetera, mai nessuno dei numerosi sospettati riuscirà a convincerlo del contrario, fino a che lo stesso A non deciderà di convincersene. Anche se le azioni della moltitudine colpita dalla «presunzione di cattiveria» contraddicessero platealmente le opinioni di A, questi semplicemente non se ne accorgerebbe, anzi, continuerebbe a cercare nelle azioni che lo smentiscono la conferma dei propri pregiudizi. E la troverà, perché chi cerca trova.

Nel rapporto «io-tu» questa stessa regola si manifesta in modo ancora più evidente. Uno vede solo quello che preferisce vedere, ricorda solo quello che preferisce ricordare. La memoria selettiva ha la caratteristica di funzionare in modo confirmatorio. Se ho bisogno di confermare che il mio interlocutore è un mascalzone, ricorderò tutto ciò che ai miei occhi conferma più o meno la sua mascalzonaggine, mentre mi svaniranno dalla memoria il suo gesto generoso o i fiori che mi ha donato. Scolpirò la sua immagine partendo dal mio pregiudizio, senza assolutamente accorgermi dell’uomo vivo che in questo momento sta accanto a me.

Con la persona in carne e ossa mi sento a disagio; le sue spiegazioni mettono in crisi il mio pregiudizio, mi costringono a dubitare. Non riesco a vedere come riesce ad uscire dalle situazioni difficili, perché sono convinta che gente così non supera le situazioni difficili; non mi accorgo come affronta il dolore perché gli isterici non riescono a far fronte al dolore, e così via.

Così si crea uno stallo comunicativo che le azioni di una delle due parti non bastano a superare, per quanto coscienziose siano. Io posso convincere solo chi è già disposto a convincersi, ad affrontare il rischio di superare i limiti di un pregiudizio estremamente confortevole, chi è già disposto a vedere me nella mia autenticità e non attraverso il filtro di un malanimo che si fa passare per esperienza. Qui non si tratta di «sminuire» l’esperienza altrui, ma di capire se una persona è pronta a mettere in relazione questa sua esperienza con un’altra presente nella situazione, o se le viene più comodo restare attaccata all’esperienza che alimenta il pregiudizio.

È la famosa battuta «I cucchiaini li abbiamo ritrovati, ma il sospetto ci resta». Ed è così, spetta a ciascuno decidere se ricordare i cucchiaini ritrovati o il sospetto che nutrivamo, e questo determinerà la qualità del nostro ricordo (non solo riguardo ai cucchiaini).

In altre parole, il pregiudizio, come pure la «presunzione di cattiveria», si superano solo ed esclusivamente con quella stessa buona volontà di fronte alla quale, com’è noto, anche Dio è impotente, figurarsi l’uomo…
E fintanto che il pregiudizio permane, dobbiamo avere il coraggio di accettare d’essere sconfitti dalla prevenzione altrui, ma al tempo stesso dobbiamo mantenerci fedeli alla nostra vita.

Al pregiudizio non si oppone la dissuasione, si oppone l’autenticità.


(foto d’apertura: hans, pixabay.com)