16 Gennaio 2025
«La speranza è lì dove siamo». Messaggi natalizi dei credenti in Russia
Nelle fatiche che la Chiesa ortodossa russa sta soffrendo negli ultimi tre anni spuntano inattese due lettere natalizie, una scritta da sacerdoti e laici emigrati, l’altra da sacerdoti e laici in Russia. Due contesti diversi ma una fede e un cuore soli che si rivolgono a Cristo, unica speranza.
È trascorso il terzo Natale di guerra – una guerra che oltre a portare morte e distruzione in Ucraina e a creare profonde lacerazioni nel tessuto sociale di entrambi i popoli, mette duramente alla prova i cristiani della Russia, divisi tra la sequela a Cristo e al Vangelo e il pesante diktat ideologico da cui purtroppo non è esente la gerarchia ecclesiastica ortodossa. Le voci che all’interno della Chiesa ortodossa hanno tentato nell’arco di questi anni di richiamare alla pace e al perdono sono state in gran parte soffocate dalle stesse autorità ecclesiastiche, tanto da indurre molti a lasciare il paese; ma anche chi resta in patria – e sono la maggioranza – fatica sovente a riconoscersi nelle comunità di appartenenza.
In questo contesto sono usciti in occasione del Natale due messaggi di cristiani. Il primo viene da un gruppetto di sacerdoti e laici ortodossi attualmente nell’emigrazione (Sergej Čapnin, padre Andrej Kordočkin, padre Nikolaj Tichončuk, padre Aleksej Uminskij, padre Valerian Dunin-Barkovskij, padre Andrej Lorgus, il monaco Afanasij Bukin) che esortano i fedeli a far memoria dell’amore che «è entrato nel mondo attraverso la vulnerabilità e la fragilità del Bambino Gesù», il quale non ha temuto di «affidarsi agli uomini, pur conoscendo la loro debolezza e crudeltà» e ci chiede di diventare «a nostra volta in queste circostanze sorgenti di amore, speranza e cura gli uni per gli altri».
In questo messaggio si scorge la preoccupazione per il «gregge rimasto senza pastore», e il desiderio di aiutare i fedeli a vivere la dimensione della comunione con Cristo e fra di loro
anche nel momento in cui frequentare una determinata comunità può porre problemi di coscienza o diventare addirittura pericoloso. «La Chiesa non è tanto o soltanto fatta di riti e strutture – leggiamo – ma è in primo luogo una vita nello Spirito, in unità con Cristo e gli uni con gli altri». In nome di questa verità, laddove si percepisca l’impossibilità di «pregare in unità di spirito con quanti appoggiano apertamente la guerra e la violenza», gli autori del messaggio suggeriscono di «cercare altre forme di preghiera e di unità, in primo luogo con quanti vivono il nostro stesso spirito», riunendosi in famiglia o tra amici. «La liturgia – proseguono – non è solo la Santa Comunione. È tutta la nostra vita in Cristo, la vita secondo i Suoi precetti».

(«Russkoe Roždestvo», Telegram)
In queste indicazioni, che partono indubbiamente anche da situazioni concrete e sono dettate da reali preoccupazioni pastorali, si intravvede forse però anche il rischio – comune tra chi è emigrato – di guardare alla Chiesa in Russia senza alcuna aspettativa, considerandola in balia delle autorità «di questo mondo», laiche o ecclesiali che siano.In realtà, è difficile dire quali saranno a lungo termine le conseguenze della prova vissuta dai cristiani oggi in Russia, perché essa comporta certamente delle sofferenze, ma costringe anche a una maturazione, a una «personalizzazione» della fede, chiamata a giudicare le diverse circostanze della vita.
È un fatto che riconoscono, del resto, gli stessi autori del messaggio, parlando di «fedeli» e del «sacerdozio regale» dei credenti; della possibilità di aprire un dialogo con i non credenti; della necessità di trasfigurare l’intera vita attraverso la fede vissuta (la «liturgia oltre le pareti del tempio», di cui parlava con passione madre Marija Skobcova). Non può trattarsi, però, di creare una comunità alternativa – animata da concezioni più giuste – all’interno della Chiesa attuale, con tutti i suoi peccati, ma di vivere, sia pure con dolore, con interrogativi e ferite, l’unica dimensione della Chiesa di Cristo, di cui forse fino ad oggi molti cristiani non sono stati consapevoli.
Guardare in faccia gli errori
A dissipare questa sottile tentazione (se di tentazione si tratta), giunge proprio il secondo messaggio, i cui autori, chierici e laici in gran parte rimasti in Russia, lanciano un drammatico appello che, a partire dallo stupore dell’Incarnazione e dal rinnovato desiderio di seguire Cristo e il Vangelo, tenta di offrire un giudizio sulla situazione attuale della Chiesa e di indicare quale sia oggi la responsabilità dei credenti. Una responsabilità che nessuno scandalo o peccato della gerarchia può diminuire.
Gli autori hanno deciso di non firmare con il proprio nome – non per paura o prudenza, sottolineano, bensì nel desiderio che «chiunque approvi queste tesi e sia disposto a condividerle con altri, verbalmente o per scritto, pubblicamente o in privato, possa sentirsi partecipe di questa professione di fede».
E la professione di fede è questa: «Noi, ministri del culto e laici, figli della Chiesa ortodossa russa, compresi quanti di noi in questo momento sono dispersi in vari paesi e appartengono ad altre giurisdizioni, crediamo e professiamo che, indipendentemente dalle circostanze terrene e dalle pretese delle autorità terrene, siamo chiamati a testimoniare al mondo l’insegnamento di Cristo e a rifiutare ciò che è incompatibile con il Vangelo. Nessun fine o valore terreno può essere posto dai cristiani al di sopra o al posto della verità rivelata nell’insegnamento, nella vita e nella persona di Gesù Cristo». Sono parole antiche, risuonate con la medesima solennità sulla bocca degli apostoli davanti alle autorità laiche e religiose del loro tempo, che dovevano sembrare risibili alla maggioranza, anche se qualche saggio comprese che combattere uomini inermi poteva essere impossibile, se Dio era dalla loro parte: «Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!» (At 5,39).

(«Russkoe Roždestvo», Telegram)
Seguono poi otto enunciati, in cui si declina questo programma di vita.
Il primo titola: «A proposito di Dio e del comandamento “non pronunciare il nome del Signore Dio tuo invano”». «Colpisce la facilità con cui non solo politici e giornalisti, ma anche ministri ecclesiastici usano il nome di Dio nella propria retorica – fanno notare gli autori del messaggio – dichiarando e prescrivendo senza esitazioni al Creatore dell’universo da che parte stare nei conflitti terreni e quali signori terreni appoggiare».
Il testo prosegue poi ammonendo chi troppo facilmente dimentica che «Cristo delimita con chiarezza il potere terreno e il Regno di Dio, il rapporto del cristiano con le autorità terrene e con Dio: “Date a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio” (Mt 22,21)». Di conseguenza, «ogni confusione tra “ciò che è di Dio” e “ciò che è di Cesare”, tra poteri e compiti delle autorità terrene e l’autorità e il regno di Dio – leggiamo – è incompatibile con l’insegnamento di Cristo. Tanto più incompatibile con la fedeltà a Cristo è una situazione in cui la Chiesa venga trasformata in un istituto di supporto ideologico all’apparato statale, funzionale alle esigenze politiche di un determinato regime».
Una terza precisazione riguarda la «dignità della persona», a cui la Scrittura non sostituisce mai il gruppo – si tratti di una nazione, uno Stato o un partito. Anzi, come leggiamo nel Vangelo, «il sabato è per l’uomo, e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). Per questo, «trasformare l’uomo in uno strumento, in “bullone o ingranaggio”, in materiale usa e getta a disposizione dello Stato o di altre istituzioni terrene è incompatibile con l’insegnamento di Cristo».
«Nel Nuovo Testamento leggiamo che “non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti” (Col 3,10-11)», osservano ancora gli autori del messaggio. Per questo,
«ogni umiliazione inferta a un popolo per esaltarne un altro, ogni forma di messianesimo e autocelebrazione nazionale è incompatibile con l’insegnamento di Cristo, tanto più se all’insegna dello slogan “Dio è con noi!” attribuisce a un popolo il diritto di decidere le sorti di altri popoli».
Di qui il rifiuto dell’ideologia del «mondo russo», che attribuisce al popolo e allo Stato russo una particolare sacralità, «riducendo Dio a divinità nazionale, l’ortodossia a religione nazionale russa e a un aspetto dell’autocoscienza nazionale. Così facendo – sottolinea il messaggio – si nega «la natura universale della Chiesa e si induce alla rottura con le altre Chiese ortodosse locali. Ma la Chiesa di Cristo è più grande di ogni Chiesa locale, anche della Chiesa ortodossa russa».

(«Russkoe Roždestvo», Telegram)
In questo ambito gli autori del messaggio esprimono la propria denuncia in termini molto concreti: «Invece di unità della Chiesa ortodossa si parla di “unità della Chiesa russa”, e la definizione di “unitrinità del popolo russo” adottata in documenti di circoli vicini alla Chiesa, che modifica la terminologia dei Santi Padri secondo le necessità del discorso politico, conferisce a una concezione politica il falso aspetto di dottrina ecclesiale». Infine, «è un’espressione di superbia ed empietà spirituale chiamare il proprio popolo “Reggitore” universale, che protegge il mondo dal male» e «ultima roccaforte che preserva il mondo dalla venuta dell’Anticristo». Anche nella vita della nazione, infatti, come in quella della persona, bene e male si combattono e l’esito sarà segnato, oltre che dalla misericordia di Dio, anche dalla libertà della persona.
Il tema successivamente trattato nel messaggio è la differenza esistente tra i «precetti di Cristo» e la «battaglia per i valori tradizionali». «Siamo chiamati ad annunciare anche i più importanti valori morali del cristianesimo non con la forza, ma solo con l’esempio personale – affermano gli autori. – La feroce “battaglia” per imporre con la coercizione, procedimenti giudiziari, leggi repressive e denunce i “valori tradizionali”, non è altro che un tentativo di mascherare il venir meno nella vita interna della Chiesa stessa di valori morali autenticamente cristiani come la carità, la libertà, la compassione e la misericordia.
Non possiamo considerare cristiano un annuncio in cui valori “tradizionali” e “nazionali” sostituiscano e mettano in ombra la morale evangelica, i precetti di Cristo e Cristo stesso».
Un altro tema affrontato con disarmante semplicità e nettezza è la differenza che passa tra l’amore al prossimo, e addirittura ai propri nemici, insegnato da Cristo, e gli appelli alla «guerra santa» che echeggiano frequentemente dai pulpiti in Russia: «Qualunque predicazione che esalti la violenza, si tratti di violenza politica o sociale, pubblica o domestica, è incompatibile con l’insegnamento di Cristo. Il caso più spaventoso di violenza è la guerra», anche nel caso in cui uno Stato sia costretto a combattere per evitare violenze ed eccidi peggiori. «La violenza resta pur sempre violenza, e l’omicidio un peccato». Rifacendosi ai testi dei Padri e al Vangelo, gli autori del messaggio sottolineano che l’unico modo di «dare la vita per i propri amici» (Gv 15,12) – espressione oggi usata talvolta per giustificare chi va a combattere – è seguire Cristo, «che ha dato la vita non combattendo, uccidendo, ma sulla croce, morendo per i nostri peccati. Le parole del Vangelo non si riferiscono a chi uccide, ma a chi viene ucciso». Non è un caso che quanti parlano di «guerra santa» preferiscano «far riferimento all’Antico Testamento, e proprio agli aspetti che l’annuncio di Cristo relega ormai nel passato. Proclamare “santa” la guerra è incompatibile con l’insegnamento di Cristo, perfino se si tratta di una guerra difensiva. Tanto più, poi, se si tratta di una guerra di conquista».
L’attenzione dei cristiani va anche alla cosiddetta «verticale del potere» che contraddice il principio del servizio e della comunione su cui Cristo ha voluto edificare la sua Chiesa. Infine, si enuncia con forza il dovere dei «cristiani di dare al mondo circostante, con la propria vita e il proprio modo di rapportarsi, un esempio di perdono, riconciliazione e amore fraterno». È significativo che gli autori del messaggio citino, a questo proposito, alcuni passi del documento sui principi della dottrina sociale stilato dalla stessa Chiesa ortodossa russa nel 2000, in cui si parla della missione di riconciliazione tra i popoli che spetta alla Chiesa, e della «libertà dell’episcopato, del clero e dei laici di esprimere convinzioni politiche differenti, ad eccezione di quelle che conducano apertamente ad azioni in contrasto con la dottrina di fede ortodossa e le norme etiche della Tradizione ecclesiale». Proprio su questa missione di riconciliazione – prosegue il documento del 2000 – si fonda il principio dell’estraneità della Chiesa alla politica. Tanto più grave è, dunque, ogni iniziativa ecclesiale che «fomenti l’odio nei confronti di altri popoli e paesi, predichi l’unanimità politica invece della mediazione tra forze politiche, giustifichi ideologicamente la violenza nei confronti di chi la pensa diversamente invece di predicare la riconciliazione».

(«Russkoe Roždestvo», Telegram)
In esplicito riferimento alle preghiere per la vittoria, rese d’obbligo nel corso di ogni funzione, si dichiara: «Il tentativo di trasformare la preghiera in strumento di controllo della lealtà alle autorità terrene, la sospensione a divinis e la riduzione allo stato laicale per aver pregato per la pace e la riconciliazione, non sono altro che una persecuzione mossa ai cristiani per la loro fedeltà alla parola di Cristo».
Ciò che colpisce, in questo messaggio, è la limpidezza di giudizio ma anche la pacatezza con cui vengono affrontati temi tanto dolorosi, che non mettono in questione la vocazione e la missione di chi ha incontrato il Signore ed è stato chiamato a servirlo. Infatti, di fronte ai tradimenti e ipocrisie dei discepoli di Cristo – prove a cui oggi i fedeli sono ripetutamente sottoposti – l’ultima parola del messaggio è un grido di speranza: «“La Parola di Dio rimane in eterno” (Is 40,8), e noi professiamo la nostra fedeltà a questa Parola».
(Foto di apertura: «Russkoe Roždestvo», Telegram)