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16 Giugno 2024
La pace: cammino difficile ma non impossibile
La pace chiede verità e giustizia, per questo siamo tutti chiamati a fare ogni sforzo possibile per la pace, lì dove siamo.
In certi momenti sembra che non ci sia alternativa tra chi chiede la resa senza condizioni degli ucraini (nuovamente ribadita dalle recenti «proposte di pace» putiniane) e chi alza i toni dello scontro sino a prevedere l’impegno militare diretto dell’Occidente nel conflitto in corso. Sullo sfondo di questo vicolo cieco si finisce quasi sempre, da una parte e dall’altra, per incolpare le persone che sono le vere vittime di questa situazione, rimproverando gli ucraini perché continuano a combattere una guerra che sarebbe senza possibilità di vittoria, e i russi perché non insorgono.
È uno strano paradosso perché il criterio di queste opposte critiche è che si reggono entrambe sulla stessa logica: l’identificazione e la denuncia di un responsabile esterno che ci permette di non mettere mai in discussione le nostre responsabilità e di sottolineare anzi una nostra presunta maggiore umanità. Credendo di superare la logica manichea di Cappuccetto rosso, finiamo per perpetuarla noi stessi: caritatevoli partigiani della pace vediamo l’errore soltanto negli altri, russi o ucraini che siano, ma la realtà è un po’ più complessa dei nostri schemi.
In realtà gli ucraini non rischiano soltanto la, comunque inaccettabile, perdita di un pezzo della loro terra, ma il semplice annientamento; come diceva in un’intervista pubblicata il 31 maggio scorso su Vatican News monsignor Pavlo Hončaruk, vescovo latino di Charkiv-Zaporižžja: «cerchiamo di resistere (…) perché sappiamo che se alziamo le mani saremo distrutti».
D’altro canto, i russi non sono affatto unanimemente schierati a sostegno del loro governo; esiste da anni in Russia un’opposizione molto articolata, diffusa tanto nella società civile come in molti ambiti ecclesiali, dai dissidenti che finiscono in carcere e subiscono pene pesantissime (Orlov e Kara-Murza, Jašin e Skočilenko, ecc.) ai sacerdoti che non si appiattiscono sulle posizioni dei chierici di Stato e vengono per questo sospesi a divinis o addirittura ridotti allo stato laicale.
La realtà, dunque, ci dice molto di più che non le sbrigative argomentazioni di chi semplicemente non sa, e così rimprovera gli ucraini perché resisterebbero troppo e i russi perché non resisterebbero affatto.
Inoltre, la realtà ci dice che non solo è possibile superare le argomentazioni astratte di cui sopra, ma che esiste un «modo di stare nella vita» che ci apre addirittura lo spazio di una pace possibile persino in questa situazione drammatica, non sfuggendo o rinunciando alle proprie responsabilità, ma assumendole; è quanto ci ha dimostrato Dar’ja Kozyreva che, dopo due anni di guerra, solo dopo il primo arresto ha detto di sentirsi «in pace» e di aver capito, mentre è in attesa di una condanna che potrebbe tenerla in galera per qualche anno, che «la felicità è sicuramente davanti a noi!».
È dunque possibile parlare di pace e di felicità come qualcosa di reale, nonostante le condizioni tremende in cui vive un detenuto, liberi da una retorica che resta chiusa negli schemi astratti e non fa i conti con le esperienze reali.
Mi è parsa molto indicativa di questo ritorno alla realtà e all’esperienza la lectio magistralis tenuta all’università Lateranense dal cardinale Pizzaballa il 2 maggio scorso. L’esperienza da cui parte il suo discorso, quella del conflitto che sta tormentando la Terra Santa, è evidentemente molto diversa da quella di cui ci occupiamo noi e tuttavia alcuni criteri sono universalmente validi e meritano di essere ripresi sia pur sommariamente, come una sorta di invito a una riflessione che tutti noi dovremmo cercare di approfondire.
La pace, ha sottolineato all’inizio il cardinale, è un dono di Dio che va oltre le capacità dei nostri progetti ed è più solida sia di questi progetti come delle nostre debolezze; rassicurati dal fatto di affidare gli uni e le altre alla potenza di Dio, possiamo andare incontro alla realtà e, soprattutto, agli altri cercando di incontrarli per quello che sono.
Gli uomini, innanzitutto, cessano di essere le pedine di un gioco regolato da forze impersonali e indifferenti alla libertà degli uomini stessi e ci appaiono nella loro realtà ultima, come esseri portatori di una dignità irriducibile. Per capirlo ed elaborare un’azione corrispondente, sottolinea il cardinale, non bastano né un intimismo devozionale né un pur auspicabile servizio nella carità, occorre la ricerca della verità e di un giudizio sul mondo e sulle sue dinamiche, perché, se non si dice la verità, la menzogna non giudicata continuerà a seminare il male:
«Le ferite causate nel passato remoto e recente, come pure quelle attuali, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli»,
ha detto il cardinale durante la sua lezione e poi ha aggiunto, citando papa Francesco: «Il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta».
Cercare la verità, prendere posizione, ha poi precisato il cardinale Pizzaballa, significa sostenere chi soffre, sapendo però, contemporaneamente, che questo non significa prendere posizione contro qualcuno, ma preoccuparsi del bene comune di tutti.
Per chi si occupa di Russia e Ucraina, questo deve implicare certo la denuncia delle menzogne di chi continua a parlare di «guerra santa» contro l’Occidente, sapendo però contemporaneamente che non ci si può certo fermare alla sola denuncia: se non si può pensare di cancellare un torto facendo finta che non sia successo nulla, si deve piuttosto cercare di superarlo per un bene maggiore: non cercare il male minore, ma un bene maggiore.
Questo implica la ricerca e la testimonianza di una nuova cultura della legalità dove giustizia, diritti umani e pace siano di nuovo al centro e dove proprio la contemporanea presenza di tutti questi elementi consente ancora di parlare della realtà del perdono senza che questa si trasformi in una pretesa irrealizzabile o in un inaccettabile relativismo. Prospettiva che merita tutta l’attenzione e lo sforzo possibili, conoscendone la complessità, ma sapendo anche che forse è la sola possibile: «Parlare solo di perdono, disgiunto da verità e giustizia, in questo nostro preciso contesto, significa non tenere conto che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, significa ignorare la sua dignità di persona, con tutti i diritti legati a tale sua identità. Parlare di perdono, senza tenere conto del diritto della persona ad una vita giusta e dignitosa, è negare un diritto di Dio, e non costruisce la pace.
Verità e giustizia, disgiunte dal perdono, hanno la stessa limitazione. Affermare il bisogno di verità e di giustizia è attività sacrosanta, ma se queste sono disgiunte da un desiderio di perdono, cioè di superamento del male commesso, mettono il proprio avversario con le spalle al muro, senza vie di uscita. Lo lasciano sul banco degli imputati, mettendolo di fronte alle proprie responsabilità, ma senza superarle, senza offrire prospettive di uscita».
È un cammino difficile ma non impossibile perché nasce dalla pace dono di Dio, e ha bisogno della libertà e della ragionevolezza dell’uomo, cioè del lavoro di ciascuno di noi.
(foto d’apertura: I. Podgornyj, Govorit NeMoskva)
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
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