24 Febbraio 2024
Due anni di guerra: stanchi ma sempre decisi
Oleksandra Romancova, direttore esecutivo del Centro per le libertà civili di Kyiv, Nobel per la pace 2022, ci parla di diritti umani, del peso del passato sovietico, del pericoloso vicinato con la Russia, della collaborazione con l’UE, di questioni linguistiche e culturali. Ma soprattutto dell’urgenza di dare un giudizio chiaro su quanto sta accadendo. (Intervista di Marta Dell’Asta).
La guerra ha cambiato il profilo e gli obiettivi del vostro Centro per le libertà civili?
Prima del 2014, il nostro Centro si occupava di formazione sui diritti umani, in collaborazione con varie associazioni civiche del nostro paese; inoltre monitoravamo le violazioni dei diritti all’interno dell’Ucraina. Nel 2014, quando è incominciata la rivoluzione della dignità sul Majdan, abbiamo aperto la hot line EuromajdantataSOS e cominciato a documentare le violazioni dei diritti umani, e a dare sostegno legale a coloro che venivano arrestati. Poi, quando c’è stata l’annessione della Crimea e l’ingerenza nel Donbass, nel 2014, abbiamo cominciato a documentare i crimini di guerra e le violazioni dei diritti da parte dei russi sul fronte di una guerra che era già una realtà. Contemporaneamente abbiamo continuato a occuparci di questioni interne, delle leggi che potevano essere lesive dei diritti della persona, cercavamo di capire se c’erano politici che cercavano di bloccare i giornalisti o gli attivisti per i diritti.
Abbiamo continuato a documentare i crimini di guerra, collaborando strettamente con partner di varie organizzazioni internazionali come OSCE, ONU, Consiglio d’Europa, per spiegare ciò che stava accadendo nei territori occupati: le torture, la costruzione di prigioni, il fatto che migliaia di persone venivano rapite e detenute nei sotterranei di Doneck, che i tatari di Crimea venivano arrestati in gran numero. Spiegavamo che tutto questo esigeva una reazione internazionale e che di fatto erano atti di guerra.
Allora ci veniva detto che non erano problemi così gravi, ma noi abbiamo continuato a lavorare su questi episodi e abbiamo voluto che fossero esaminati dalla Corte Internazionale. Tutti sappiamo cosa è successo poi: alla fine è scoppiata proprio quella guerra che nessuno aveva voluto riconoscere.
Dal momento dell’invasione, il 24 febbraio 2022, abbiamo naturalmente intensificato il nostro lavoro di documentazione dei crimini di guerra e delle conseguenze dell’invasione su larga scala. È stato anzitutto un lavoro di ricerca, di documentazione da presentare in seguito al tribunale internazionale come reato penale e come aggressione in tutti i suoi aspetti. Abbiamo lavorato con la Corte penale internazionale e la nostra procura che sta svolgendo un’inchiesta.
Cosa ne fate poi della documentazione dei crimini?
Insieme al gruppo per la difesa dei diritti di Charkiv e all’associazione Helsinki ucraina abbiamo creato un progetto che chiamiamo «Tribunale Putin», il cui compito è di offrire una documentazione sistematica e di raccogliere testimonianze. I giuristi dei nostri gruppi hanno aperto dei dossier su questi casi, e stanno cercando in vari modi di ottenere una risoluzione a livello internazionale per creare un apposito tribunale, che condanni Putin e tutto il sistema che vige in Russia, e che ha portato alla guerra.
Ma ora siamo in guerra, questo non è un lavoro per il futuro?
Da sé non accadrà mai nulla, perciò se non iniziamo ora non succederà neanche dopo. Ci stiamo lavorando ora perché capiamo che ci vorranno forse dieci anni, ed è adesso che bisogna prendere queste decisioni, ora che ci sono i dati freschi, la documentazione necessaria perché si prendano delle risoluzioni politiche a sostegno dell’Ucraina e inizi, a varie tappe, questo processo.
Bisogna trovare il modo di stipulare accordi a livello internazionale, non solo perché un processo di questo genere non si è mai svolto prima – infatti la Russia in questi trent’anni ha partecipato a più di venti diverse campagne militari, e in tutte ci sono stati dei crimini di guerra – ma anche perché ci sono dei fattori ben precisi che impediscono il suo svolgimento, e bisogna considerarli tutti. Bisogna decidere come creare questo tribunale, e per farlo ci vogliono molti dati, bisogna mostrare che la gente sta soffrendo proprio per il fatto che un simile processo non si è mai svolto, e la Russia è governata da Putin e dalla sua squadra che perseguita gli attivisti per i diritti, l’opposizione, i giornalisti, chi dice di no alla guerra, come nel caso del processo contro Oleg Orlov. Per mostrare che questo è un problema reale e che ci vuole una nuova risoluzione politica a livello internazionale, servono i dati che raccogliamo e che poi utilizziamo intervenendo a vari livelli.
Il Consiglio d’Europa e i vostri partner europei vi danno udienza, sono interessati e disponibili ad aiutarvi?
È un’ottima domanda, perché da una parte si tratta di chiare violazioni dei diritti umani, del diritto umanitario internazionale, e loro non possono chiudere gli occhi su fatti così importanti. Abbiamo sufficienti fondamenti giuridici ufficiali perché loro dicano di sì, che questa risoluzione va presa. D’altra parte, anche la Russia ha una lunga esperienza nel campo del diritto internazionale, e quindi continua a usare l’architettura vigente dell’ONU, dell’OSCE e del Consiglio d’Europa per fermare possibili decisioni di questo tipo.
Perciò ci rendiamo conto che tutta questa architettura, questa struttura non è effettivamente pronta ad affrontare le nuove sfide, e ciò non solo influisce sulla reazione ai crimini che la Russia sta perpetrando a danno dell’Ucraina, ma rivela in sostanza l’inadeguatezza del sistema oggi in vigore, la sua incapacità di rispondere alle sfide che le guerre contemporanee le stanno lanciando. Non si tratta solo del conflitto e della difesa dell’Ucraina dall’aggressione russa, ma c’è anche da chiedersi se questo sistema sia in grado di fare da diga alla violenza, e come debba essere cambiato, integrato, perché funzioni.
Da parte nostra, naturalmente, mettiamo quotidianamente sul tavolo questi problemi nel modo più efficace possibile, perché siano all’ordine del giorno, perché queste decisioni vengano prese. Infatti, molti politici in Europa e nel cosiddetto mondo occidentale non vogliono essere gli autori di questi cambiamenti rischiosi, e ciò frena molto il processo: ci mettono molto tempo a mettersi d’accordo, a decidere di compiere certi passi. Invece bisogna farlo subito, anzi, si sarebbe dovuto farlo otto anni fa, nel 2014, quando è avvenuta l’annessione della Crimea, un evento assolutamente senza precedenti in Europa dopo la Seconda guerra mondiale.
Lei ha parlato anche di un secondo filone della vostra attività, quello interno, il vostro lavoro su ciò che fa il governo ucraino. State proseguendo su questa strada, o nella situazione attuale ritenete meglio soprassedere?
No, abbiamo deciso da tempo che avremmo monitorato i diritti in Ucraina. Se il nostro paese come struttura statale, li violasse, ovviamente dovremmo reagire. Sollecitiamo le riforme di cui l’Ucraina ha bisogno. Fra l’altro, c’è il capitolo importante delle riforme che si dovranno introdurre per entrare nell’Unione Europea, all’interno di queste, dobbiamo far sì che i diritti umani siano rispettati secondo gli standard richiesti.
Ad esempio, riguardo alle riforme del sistema giudiziario o dell’istruzione, ci sono dei punti che riguardano specificamente i diritti della persona, là dove si parla dell’accesso ai tribunali per le persone che hanno la residenza nei territori occupati, o il diritto all’insegnamento in un’altra lingua, ecc. Ci sono tantissime sfumature che nel nostro contesto bisogna tenere presenti. Questo è uno dei filoni principali su cui lavoreremo ancora per anni. Inoltre, continuiamo ad occuparci dell’educazione ai diritti umani, coinvolgendo i rappresentanti delle varie strutture statali e delle amministrazioni locali, che partecipano ai percorsi di formazione.
Notate delle resistenze alla vostra attività da parte del governo?
Spesso il governo tende a lasciare certe questioni in sospeso, affermando che adesso c’è la guerra e non è il momento di affrontarle, ma non ci ostacola in modo programmatico e sistematico, magari tende a tirare per le lunghe le questioni più complesse che richiedono attenzione. A volte il dialogo può scaldarsi, ad esempio l’ufficio migrazioni ha un altro modo di vedere le cose rispetto a noi, ma bisogna anche considerare che l’Ucraina è pur sempre un paese in guerra, dove il 60% del bilancio è fornito dagli alleati, che lo Stato in questo momento ha risorse molto limitate e non può garantire lo stesso livello di garanzie sociali che c’è in Finlandia, o in Svizzera.
Bisogna tenere anche presente che scarseggiano le risorse umane, oggi un terzo della popolazione in varie forme lavora per l’esercito, compresi gli amministratori che erano responsabili di queste cose. Perciò obiettivamente direi che c’è un equilibrio accettabile fra le circostanze attuali e gli impegni nel campo dei diritti umani che l’Ucraina è tenuta a mantenere. Periodicamente discutiamo su come monitorare il lavoro degli organi statali in tempo di guerra. È naturale che certi dati siano segretati, perché riguardano la sicurezza militare, ma ci sono altri dati che sono stati chiusi (ad esempio alcune sentenze dei tribunali) pur non avendo a che fare con la sicurezza, e noi abbiamo ottenuto che venissero riaperti.
Insomma, cerchiamo di mantenere un equilibrio: ci sono delle limitazioni dovute alla guerra, ma in primo luogo devono essere limitazioni ragionevoli, proporzionate alla situazione, e d’altra parte non bisogna limitare tutto, perché la guerra non giustifica la sospensione di qualsiasi diritto. Col governo c’è un bel dialogo, a volte anche duro, ma c’è. Posso dire con sicurezza che né in Bielorussia né in Russia è possibile un dialogo del genere. In Ucraina la distanza con le istituzioni è breve e i dialoghi sono vivaci. Nessuno può dire «adesso di questo tema non si discute», noi discutiamo assolutamente di tutto, la libertà di parola si esprime magari in modo scortese, perché qui tutti siamo traumatizzati, ma questa è un aspetto sano della nostra democrazia.
L’assegnazione del Nobel ha accresciuto la vostra notorietà, o tutto è rimasto come prima?
Naturalmente ha contribuito a farci conoscere di più, ha aumentato il nostro peso nell’arena internazionale come esponenti della società civile ucraina; perciò, quando c’è la possibilità di intervenire accanto alla diplomazia ucraina, è chiaro che anche le nostre parole trovano posto nella posizione ufficiale. D’altra parte, bisogna capire che in Ucraina adesso non c’è spazio per vivere sugli allori: due giorni fa, vicino a casa mia sono esplosi due missili, e il fatto di aver ricevuto il Nobel non impedisce che io possa morire nel bombardamento, così come anche tutta la nostra organizzazione può restare senza luce e quindi non riuscire a lavorare normalmente, pur avendo preso il Nobel.
Voi siete presenti solo a Kyiv o anche in altre città? Quanta gente lavora con voi?
I collaboratori fissi sono 26, a cui si aggiunge un numero variabile di volontari che si aggira intorno ai 30. Qualcuno ci aiuta da casa, facendo le traduzioni, e abbiamo uno stagista…
I nostri volontari sono presenti in varie città, anche per monitorare i rifugi antiaerei, ci siamo assunti questo servizio che di per sé è lo Stato a fornire. Noi monitoriamo il lavoro della polizia, cui è affidato il controllo dei rifugi antiaerei. Ci sono 150 persone in tutto il paese che svolgono controlli in varie città e ci mandano informazioni.
È una struttura molto attiva e vivace, forse noi non siamo l’organizzazione più grande in questo campo, il gruppo Helsinki ucraino è più numeroso, ha uno sportello per i diritti umani in varie regioni. Noi siamo più presenti a Kyiv, perché uno dei nostri scopi è sempre stato quello di portare dei cambiamenti nel sistema, ma quest’anno vorremmo riprendere i contatti con le altre organizzazioni regionali per mobilitarci assieme, anche sugli adeguamenti europei, poiché le riforme che l’UE porterà forse saranno scomode e la gente potrà opporsi, o potranno essere manipolate facilmente, e quindi bisogna parlarne.
Mi sembra di capire che secondo lei c’è una grande differenza fra i russi come persone e lo Stato russo, è così?
Sì, per me c’è una grande differenza fra le persone e le istituzioni. Noi siamo in rapporto soprattutto con i russi che lavorano per difendere i diritti, collaboriamo con chi vuole aiutare le varie categorie colpite dalla guerra: gli ucraini che sono stati costretti a rifugiarsi sul territorio della Federazione russa, i bambini che sono stati rapiti, i prigionieri politici, i civili che l’esercito russo ha rapito e sono detenuti nelle prigioni russe insieme ai prigionieri di guerra.
Noi senza i nostri colleghi, senza i giuristi e gli attivisti russi che ci aiutano non potremmo né cercare informazioni, né rintracciare queste persone, e nemmeno tentare di metterci in contatto con loro.
In Russia ovviamente non c’è un sistema giudiziario che possa tutelare i prigionieri e rifugiati, ma almeno un avvocato può capire se sono vivi, di cosa hanno bisogno, tenere i rapporti con loro, il che è molto importante. Perciò collaboriamo con tutti i russi che cercano di opporsi a questa guerra, con chiunque cerchi di contrastare la distruzione sistematica dei diritti umani in Russia.
Più in generale, mi par di vedere che i cittadini della Federazione russa hanno un problema a livello etnico, e ce lo ritroviamo anche qui in Ucraina perché molti hanno parenti in Russia. Qui da noi capiamo molto bene che l’Ucraina è una nazione politica e non etnica: si può essere di etnie diverse ed essere ucraini. In Russia invece predomina purtroppo un modello xenofobo, che in molti casi porta a violare i dritti umani, ad esempio a danno dei migranti dall’Asia centrale, delle persone di colore, ecc. Proprio a causa di questo atteggiamento molti cercano di nascondere la loro appartenenza a gruppi etnici diversi. Qui in Ucraina da questo punto di vista la situazione è tranquilla, non c’è una così grande varietà etnica, ma contro i non slavi non ci sono mai state aggressioni di nessun tipo.
Ha parlato di chi difende i diritti umani, ma cosa ne pensa della massa dei russi?
Secondo me c’è un problema generalizzato, che dipende dal livello di informazione occulta e dalla propaganda che creano un mondo virtuale da cui è molto difficile svincolarsi. Puoi intuire, ad esempio, che ciò che mostra la televisione russa è falso, ma questo non ti dice ancora qual è la verità, perché la menzogna può avere mille varianti, ma per sapere qual è la situazione reale devi avere delle informazioni. Perciò la gente che vive negli angoli più sperduti della Russia arriva magari a sospettare che qualcosa non va, ma non riesce ad orientarsi nella situazione reale.
Del resto, per capire come si sta svolgendo realmente la guerra in Ucraina bisogna anche voler sapere, cercare, verificare. Ma questo richiede coraggio, perché poi bisogna fare i conti con l’aggressività della società, convinta che tutto ciò che è russo sia il meglio in assoluto, e che tutti aggrediscano la Russia e vogliano impadronirsi delle sue risorse.
Inoltre, non esiste un pensiero critico, che oggi è proibito nelle università, dove dicono che è un concetto occidentale. Un pensiero critico che aiuti almeno a rendersi conto che le condizioni materiali dei cittadini in gran parte della Federazione sono terribili, ben diverse da quelle di San Pietroburgo o Mosca. Non ci sono risorse, il livello economico spesso non permette neanche di mantenere la famiglia, per questo moltissimi entrano nell’esercito non per mandare il figlio in una scuola d’élite o per comprare una casa più grande, ma per saldare i debiti nel pagamento delle bollette, capisce? Per pagare le bollette in un paese dove ci sono gas, acqua e petrolio in abbondanza.
Resta comunque, tra voi e i russi, un legame inevitabile?
In Ucraina capiamo benissimo cosa succede nella società russa e bielorussa, abbiamo molti problemi in comune perché abbiamo in comune un pesante fardello culturale. Inoltre, capiamo bene le lingue gli uni degli altri.
Sì, è terribile non poter sfuggire al proprio vicino. Adesso i russi ci stanno bombardando, ma anche se noi ci fermassimo e loro smettessero di lanciare i missili su di noi e se ne andassero dal nostro territorio, resterebbero comunque dei vicini con cui abbiamo in comune un terzo dei nostri confini e che, chissà perché, vivono sempre nell’idea di dover conquistare qualcuno.
È una questione importante, non si tratta solo di vincere la guerra, ma di far sì che i russi la smettano di aggredire i propri vicini – noi, i georgiani, gli armeni, i lettoni, – e si occupino della propria vita, che è palesemente disagiata, ingiusta, non è certo quella di un paese progredito.
Secondo lei oggi in Ucraina è cresciuto l’odio verso i russi? Ho sentito dire spesso che i russi sono sempre gli stessi, sono sempre stati degli aggressori…
Guardi, mia mamma è nata nella regione degli Urali ma non vuol essere chiamata russa, non perché abbia paura ma perché le ripugna quello che oggi il governo russo sta facendo in nome di tutta la società. Qui comunque bisogna distinguere: noi ci siamo identificati molto con la società russa per i numerosi aspetti che abbiamo in comune, ma riguardo ai nostri sentimenti verso i russi dobbiamo tenere presenti tre punti.
Primo: il nostro atteggiamento verso i russi si configura come una reazione a quanto è accaduto in passato, innanzitutto ai tempi dell’URSS, quando in nome della comune cultura sovietica di fatto sono stati imposti molti elementi russi e si è soffocato ciò che russo non era. Del resto, quando si parla di «cultura russa» si intende qualcosa che per metà non è stata fatta da russi. Certo, dire che «i russi non sono mai cambiati» deriva non solo dall’esperienza sovietica ma già da prima, dai tempi dell’impero russo. Oggi da noi c’è una reazione a tutto quello che ci è stato inculcato troppo a lungo.
L’Ucraina è veramente un paese a sé, una società a sé, la lingua russa qui è stata seminata molto a lungo, e per 62 volte dei decreti hanno cercato di proibire la lingua ucraina. Se l’ucraino è una lingua che non esiste, perché l’hanno vietata per ben 62 volte, da 300 anni a questa parte?
Secondo: c’è la reazione emotiva delle persone bombardate dai missili russi. Oltretutto, noi possiamo accedere molto facilmente alle informazioni in russo e leggere quello che i russi scrivono di noi. Noi sappiamo che non è vero, ma i russi ci credono, e questo li autorizza a non opporsi a ciò che commette il loro esercito e persino ad arruolarsi. La nostra è una reazione emotiva comprensibile, ma nessuno di noi ha voglia di aggredire direttamente qualcuno. Piuttosto in questo periodo la gente sta facendo delle scelte, ad esempio non vuole più parlare russo, soprattutto con i propri figli, perché il russo è diventato un segnale di aggressione.
Terzo: è chiaro che in Ucraina l’uso del russo non sarà mai proibito. Molti lo usano ancora, ma ciò non significa che capiscano solo quello. Tutte le persone in Ucraina capiscono l’ucraino. Parlare in russo e capire il russo sono due cose diverse, qui tutti senza eccezione capiscono l’ucraino e il russo. Cosa che non succede con le persone che arrivano dalla Russia. Questo dipende dal fatto che il nostro è uno spazio bilingue. Molti ci accusano di non voler guardare la TV russa, i film russi, ecc., però c’è chi continua a farlo e nessuno lo punirà per questo. Anche se di sicuro, dire che ami un cantante russo non è una cosa «popolare».
Incorre nella disapprovazione sociale, diciamo.
Sì. Io ho i miei film sovietici preferiti che continuerò a guardare, ma se una volta potevo citare qualche battuta di quei film ora non lo faccio più. Tutti preferiamo vedere altre cose di altri paesi, così la gente riempie lo spazio lasciato dalla cultura russa di nuove informazioni, di una nuova cultura, di nuove cose e pensieri.
Ci sono, sì, persone che hanno una posizione radicalmente antirussa, soprattutto chi ha dei parenti che vanno a morire al fronte, oppure chi è arrivato da Mariupol’. Sono molto aggressive contro tutto ciò che è russo e contro le posizioni della politica russa. Questo non è e non sarà mai un atteggiamento giustificabile, non è la normalità, ma è molto comprensibile a livello emotivo.
C’è stanchezza nel paese?
Certamente, non si possono fare programmi, gli uomini non possono viaggiare… è il retaggio di un sistema sostanzialmente patriarcale, nessuno ha mai preparato le donne a combattere, noi non siamo come Israele dove uomini e donne possono essere impiegati attivamente nel sistema di difesa. Perciò gli uomini portano il peso maggiore, però anche le donne che svolgono professioni mediche non possono lasciare il paese. Questo significa che non si può andare in vacanza, staccare un po’ emotivamente.
Inoltre, è sempre più forte lo stato di allarme. Ieri, ad esempio, ho dovuto lavorare da casa perché ogni due ore suonava l’allarme antiaereo. E qui siamo a Kyiv, dove comunque la difesa antiaerea più o meno funziona, ma a Cherson, Odessa, Charkiv, la gente non sa se domani avrà ancora una casa o se la casa avrà ancora i vetri alle finestre: tutto ciò è molto estenuante dal punto di vista emotivo.
Come vi immaginate la pace?
È un’ottima domanda, perché quando la gente dice che vuole la pace, si immagina che l’Ucraina smetta di sparare. Ma se l’Ucraina si dichiarasse sconfitta, so per certo che la Russia imporrà un regime d’occupazione, non ci sarà una convivenza pacifica. Lo so per esperienza, dal 2017 mi è vietato entrare nella Federazione russa e in Bielorussia: l’ultima volta che sono stata a San Pietroburgo, nel 2016, ho tenuto un incontro di formazione sui diritti umani e da allora mi hanno proibito di andarci. Eppure, non avevo fatto niente di male, non ero scesa in piazza con i manifesti.
Per noi pace significa innanzitutto persone liberate, perché, oltre alle centinaia di migliaia di bambini rapiti, che stiamo cercando di rintracciare, ci sono migliaia di civili e di militari che si trovano in prigione in Russia, milioni di persone che vivono nei territori occupati, nei villaggi e nelle città. Prima di tutto bisogna liberare tutte queste persone, che devono essere messe al sicuro, devono potersi riunire alle proprie famiglie e non essere continuamente esposte ai bombardamenti e al rischio costante che le loro case vengano distrutte. In questo consiste l’idea della liberazione dell’Ucraina dall’esercito russo:
non si tratta solo di liberare il territorio, ma innanzitutto di liberare le persone,
perché là dove la gente subisce un’occupazione è come essere tutti i giorni a Buča, ogni giorno ci sono delitti, rapimenti, torture, maltrattamenti, prevaricazioni, violenze, stupri. Non sono episodi successi solo a Buča, sono cose di tutti giorni quando un territorio è occupato.
In Crimea non hanno solo cambiato la bandiera, lì tutti i giorni avvengono dei crimini. Perciò liberare il nostro paese dall’occupazione significa innanzitutto liberare le persone, restituire tutti i prigionieri di tutte le prigioni. Dopodiché, si tornerà a un normale rapporto di vicinato alla pari. Infatti, bisogna tener conto che il problema della Russia è che vuole continuamente imporre i suoi interessi e le sue decisioni. Lo slogan: «Siamo popoli fratelli», vale solo nel senso che tu, popolo fratello, devi fare quello che dico io. È semplicemente un rapporto di prevaricazione. Non siamo popoli fratelli, siamo, possiamo essere due partner alla pari. Se voi rispettate i nostri interessi, anche noi rispetteremo i vostri, ma invece no, questa clausola non c’è.
Spero tanto che, dopo lo smantellamento del sistema putiniano, sia noi che, soprattutto, i vertici della Federazione russa e la società russa in generale, smetteremo di aspettare uno zar che risolva tutto, e la gente tornerà a pensare che ognuno è responsabile della propria vita e del proprio Stato, come accade oggi in Ucraina.
Quindi, l’unica vera condizione è che il sistema politico in Russia crolli?
Non solo che crolli ma che venga giudicato. Perché non basta rallegrarsi che Putin muoia, o che tutti i responsabili vengano fucilati. Penso a quello che è successo ai fascisti in Italia, dove Mussolini e i suoi gerarchi sono stati condannati e fucilati: questo da noi non deve succedere. Io personalmente non credo che Putin uscirà vivo dalla Russia – lui che ha creato la cultura della violenza, il culto della violenza santa, per cui chi non agisce secondo quello che ritieni giusto deve morire o essere messo in carcere; lui che ha creato un culto della violenza unico nel suo genere – ma in ogni caso,
anche se non vedremo Putin vivo all’Aia, bisognerà giudicare tutto quello che ha fatto, le decisioni che ha preso, l’intero vertice dell’FSB, perché hanno commesso dei crimini, e la storia deve affermare a chiare lettere che agire in questo modo è un crimine.
Perciò vogliamo svolgere il nostro lavoro indipendentemente dal fatto che Putin sopravviva o meno. Come Memorial, che oggi lavora perché venga condannato lo stalinismo. Perché è importante non solo riabilitare le vittime, ma anche riconoscere che chi ha preso queste decisioni e chi le ha eseguite ha commesso dei crimini che non si devono più ripetere, che non possono essere la norma. Non a caso, lo stalinismo non è stato condannato e oggi Putin lo addita come un esempio realizzato da un ottimo manager. No, non si è trattato di un buon manager né di un buon sistema, ma di una tragedia per milioni di persone, ucraini, finlandesi, lettoni, russi. A Sandarmoch possiamo leggere i nomi di tutte le nazionalità internate e fucilate insieme dall’NKVD.
Oleksandra Romancova
Ucraina, laureata in Relazioni internazionali, è direttrice esecutiva del Centro per le libertà civili di Kyiv, associazione insignita del Nobel per la pace 2022 insieme all’associazione russa Memorial e al Centro bielorusso per i diritti umani «Vjasna».
LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI