30 Marzo 2017
«Parenti»: dalla voce alla presenza. Un documentario ucraino
Un documentario può offrire un’asettica informazione, oppure può essere «lo sguardo di un uomo su una concreta situazione umana». Il regista Vitalij Manskij è un maestro in questo genere. Ha raccontato i suoi parenti, specchio dell’Ucraina di oggi.
Quando una situazione è confusa… cerca di capire. Può suonare lapalissiano e tuttavia, nella nostra epoca di crisi, è importante cogliere il senso che sta oltre le cose evidenti. Infatti capire non è lo stesso che conoscere. Quando una persona si lamenta di non essere capita, desidera che la sentano e non che la analizzino. Per cui capire vuol dire saper cogliere le voci umane al di là dell’intrecciarsi dei fattori sociali, storici, biografici. È questo il lavoro che fa il cinema documentaristico. Non la produzione scientifico-divulgativa della BBC, ma lo sguardo dell’uomo su una concreta situazione umana trasposto nella forma di una narrazione filmica. Questo tipo di cinema lo si può vedere a Firenze al «Festival dei popoli», e a Mosca all’«Artdocfest». Quest’ultimo è stato fondato da Vitalij Manskij, lui stesso regista documentarista.
In 21 anni Manskij ha raccontato lo spirito di sacrificio della campagna russa (Grazia, 1996), la tournée scandalo del duo-pop russo in America (Anatomia di t.A.T.u, 2003), la vita quotidiana nella Corea del nord (Sotto i raggi del sole, 2015). Ma in tutto questo, gli si adattano le parole del grande Aleksej German senior: «Non posso fare un film se dentro non c’è mio padre». Tutto quello che l’artista fa parla di lui come del punto personale in cui l’uomo e il mondo s’incontrano. Nei documentari di Manskij questo è spesso testimoniato dalla voce fuoricampo del regista.
L’ultimo suo film si intitola Parenti (2016), ed è la risposta alla crisi politica e alla guerra in Ucraina; questi eventi hanno colto i parenti di Manskij a Odessa, L’vov, Sevastopol’, Doneck. Come dire nei quattro angoli geograficamente e politicamente più distanti dell’Ucraina: il sud pragmatico, l’ovest patriottico, la Crimea e il Donbass. Questi cinquantenni, sessantenni, formatisi sotto il regime sovietico, dopo la «rivoluzione della dignità» del 2014 per la prima volta sono stati costretti a rendersi conto della propria collocazione geografica. E sotto l’influsso del televisore, che si vede spesso acceso sullo sfondo delle inquadrature, questa coscienza diventa «posizione politica». Il regista finisce per essere l’unico personaggio del film che si sente a disagio nel suo contesto, tanto che la sua voce fuoricampo passa alla lingua ucraina, senza vergogna dei molti strafalcioni.
Il film è girato col rigoroso equilibrio tipico di Manskij, unito a una voce estremamente personale. Guardare e non giudicare è la prima regola di chi vuole vedere. Non nascondersi dietro ai fatti è la prima regola del narratore onesto. Questo stile permette allo spettatore di capire la posizione dell’autore e allo stesso tempo di formulare un giudizio autonomo su quanto ha visto. Il breve episodio della tavolata dove cantano le canzoncine dei cartoni animati sovietici per qualcuno può essere un segno di squallore, per altri può essere un tenero ricordo. Ciascuno vede il suo film, e solo così può diventare spettatore a pieno titolo.
Ci sono varie possibilità di visione. Secondo una di esse, il dramma si concentra nel fatto che i personaggi sono totalmente immersi nel mondo circostante. La città dove abiti detta il canale su cui sintonizzare la tivù. Il canale detta chi bisogna lodare e chi ingiuriare. Non c’è stato un riesame critico dell’esperienza sovietica e dell’indipendenza ucraina. C’è stata solamente un’inversione ideologica, uno scambio di appartenenza. In questo senso i parenti di Manskij possono tranquillamente rappresentare la maggioranza della popolazione dell’ex URSS. Non è questo il luogo per predicare il pensiero critico. Per questo il regista propone la «vecchia verità» della parentela in parallelo alle realtà politiche.
In una scena delle più commoventi, la zia del regista che sta a Sevastopol’ (Crimea) chiama su Skype la sorella che sta a L’vov. Dalla Russia all’Ucraina, come direbbe lei. Si lamenta che l’altra non risponde da mesi. «Voglio solo sapere come stai. Mi interessa com’è il tempo a L’vov». Si mettono d’accordo di non parlare di politica, ma un secondo dopo sono già finite lì e cominciano a litigare. A L’vov, accanto alla sorella che parla, siede un’altra parente, che per tutto il tempo della chiamata non dice una parola. Sembra che tutta la chiacchierata su Skype non abbia rotto questo silenzio: in cinque minuti di colloquio non si sono dette né come stavano, né com’era il tempo. Ma nonostante tutto erano insieme. Basta essere lì, anche quando non sei capace di ascoltare. Capita così tra parenti.
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Pëtr Zacharov
Nato a Odessa. Diplomato all’Istituto cinematografico Karpenko-Karij di Kiev, laureato in filosofia e culturologia presso l’Accademia Mohiliana.
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