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7 Aprile 2025
«Sono un’isola di speranza in un mare di sconforto»
Nell’anno giubilare che ci esorta alla speranza ricordiamo il poeta Valentin Sokolov: una vita trascorsa in lager senza cedere alla disperazione. I suoi versi testimoniano una fiamma di vita che ardeva anche in mezzo alle tenebre.
Se tu sapessi quanto è terribile,
quando non doni più te stesso.
«Sono entrato nel verbale e non ne sono più uscito»: così, Valentin Sokolov (1927-1982), quindici anni prima della sua morte, riassunse profeticamente la propria esistenza, trascorsa quasi interamente in lager.
Queste parole sono incise oggi sul monumento a lui dedicato, eretto nel 2013 dopo aver superato le resistenze dell’amministrazione locale, nel centro di Novošachtinsk, dove si trovava l’istituto psichiatrico in cui fu rinchiuso negli ultimi anni. Appena sotto, una frase altrettanto breve spiega il motivo della sua reclusione, che durò 35 anni, con brevi interruzioni:
«incarcerato per la poesia, morì per la poesia».

Sokolov negli anni Sessanta. (wikipedia)
Nonostante il suo nome sia oggi poco conosciuto, al tempo Valentin ZeKa (ossia detenuto, questo il suo pseudonimo) era noto nei circoli clandestini per essere il miglior poeta del GULag: le sue poesie si diffondevano di nascosto, fino ad essere in parte pubblicate all’estero alla fine degli anni ‘70.
La prima condanna a 10 anni per le sue composizioni e per essersi rifiutato di partecipare alle elezioni lo raggiunse a soli 21 anni, e Sokolov fu deportato nel lager di Vorkuta. Dopo un solo anno di libertà, nel 1958 fu nuovamente internato in Mordovia per «attività antisovietica», e anche il rientro nel 1970 fu breve: dopo soli due anni lo costrinsero ad ulteriori 5 anni di libertà vigilata per «teppismo». Poco prima del suo rilascio, la sua dichiarazione di rinuncia alla cittadinanza sovietica e la richiesta di essere trasferito in un qualsiasi altro paese libero, gli valsero l’accusa definitiva per cui fu rinchiuso nell’ospedale psichiatrico «speciale» per criminali, dove morì di infarto nel 1982.
Machmet Kulmagambetov, dissidente kazako, lo conobbe tra il 1963-64, quando Sokolov aveva già scontato una decina di anni di prigionia e ne aveva altrettanti davanti a sé, e rimase colpito dalla sua chiara consapevolezza dell’inevitabile destino che lo attendeva e, soprattutto, dal modo in cui sembrava essersi inspiegabilmente riconciliato con questa realtà senza perdersi d’animo.
È vero, c’erano molti muri
ma non mi hanno impedito
di vedere il cielo. (da «Ja dovolen tem, čto videl…»)
Come ricordano i suoi compagni di prigionia, nel campo Sokolov si distingueva per la magnanimità, la gentilezza nei gesti e nell’intonazione della voce e l’umiltà dimostrata anche di fronte all’ammirazione degli altri detenuti, che spesso gli chiedevano di condividere i versi composti di nascosto, chinandosi pensierosamente sulla cuccetta più appartata. Lui generosamente li recitava, quasi sempre a memoria, riportando così un po’ di bellezza in quella disumanità:
«Sono un’isola di speranza in un mare di sconforto» dice il verso iniziale di una sua poesia.
Di natura romantica, come emerge dalla raffinatezza, il lirismo e le immagini variopinte delle sue poesie, Sokolov aveva un animo impetuoso e si definiva «un incrocio tra vento e fuoco». Uomo integro e impavido, la sua fermezza straordinaria rimase impressa anche nei ricordi dei medici che lo conobbero negli ultimi anni all’ospedale psichiatrico. Non scese mai a compromessi con il potere, avendo intuito sin da giovane che il sistema comunista mirava a calpestare l’essere umano. Sapeva distinguere con lucidità l’URSS dalla Russia, la sua vera patria per la quale nutrì tutta la vita un profondo amore: «Nazione russa, dove sei? Non v’è più traccia di te…». Denunciò sempre la disumanizzazione e la violenza della dittatura sovietica, in modo a volte estremo, pur consapevole che in questo modo si sarebbe procurato non pochi nemici e sarebbe rimasto solo.
Devo raggiungere le sorgenti
da cui zampilla l’azzurro.
Fra tanti solitari
sono inesorabilmente solo. (da «Mne dojti do tech istokov…», 1962).

Foto segnaletica di Sokolov. (bessmertnybarak.ru)
Secolo!
Dov’è la mia bellezza in fiore,
secolo?
La vita passa, i giorni sono sempre meno,
il corpo appassisce.
Il cuore chiede carezze, donne,
perfido e audace…
Ricordo che, uscito in libertà,
nel mio camminare sbocciò una danza –
ecco: nel passato il regno del dolore,
nel passato il morto suono di inferriate.
Pensavo: vedrai che zampillerà la gioia
e mi inonderà di raggi.
Speravo in una vita tranquilla
senza preoccupazioni e senza tristezza.
Una vita dorata mi aspettavo.
Ma guardai… e d’un tratto vacillai,
il mio sguardo ardente si raffreddò,
si posò come una coltre grigia
la polvere, che nella fretta avevo smosso.
Eccolo, questo profilo grigio
è il gruppo della furiosa quadriglia:
il fischio feroce della guardia,
sopra gli strati di polvere morta;
nel grigiore figure torbide,
la bandiera rossa aleggia su di loro,
le tastiere dei giorni grigi
che l’uomo non osa far saltare.
È forse un uomo questo?
Questo con la palpebra tremolante
con il naso affilato che fruga.
Con la bocca che mastica
e vomita
È forse un uomo? un mago?
Direi di no. Non è vero?
(da Grottesco, 1959)
La politica però – afferma Kulmagambetov – occupa solo una minima parte nell’opera di Sokolov, che è principalmente «poesia pura» nella quale si intrecciano riflessioni filosofiche sull’amore, la solitudine, la ricerca della verità. Il suo valore sta nel riuscire ad esprimere domande esistenziali che superano la condizione della prigionia e il contesto storico del lager, e che contengono una verità universale raggiunta non astraendosi dal contesto, bensì calandosi profondamente nella realtà concreta. «Si può dire che siano opere autentiche della “Musa del GULag” – scriveva nel 1979 Aleksandr Gidoni, che fu per un periodo suo compagno di detenzione, – che contengono quella lacerazione (…) e quel radicale amore per la libertà che solo i prigionieri conoscono».
I suoi versi riflettono la strenua lotta contro il male per difendere l’essenziale dignità dell’uomo e per riuscire ad intravedere anche in mezzo alle tenebre la luce del Cielo, che ha per il poeta un’evidente connotazione sacra.
Tutto quanto ho scritto è un tentativo,
un tentativo di alzarsi dalla tomba.
Un tentativo di capirti, cielo.
Per chi è venuto da un sentiero lontano
è difficile con le gambe stanche
strapparsi dalla folla.
È dura, camminando sul filo
del giorno che inclina all’indietro,
prendere sonno.
E intorno a te
è cresciuto
un bosco
di volti assonnati
e tu
sei incastrato
in questo
vuoto scivolare d’anni.
Tutto quanto ho scritto è un tentativo,
e solo dall’alto della croce
posso capirti, cielo,
come il pane
quotidiano
alla bocca.
(da «Vse, čto napisano – proba…»).
Una fede viva e autentica in Dio fu il solido fondamento di tutta la sua vita e Sokolov lo testimoniò nelle parole e nei gesti: ricorda di aver sempre portato al collo senza vergogna una croce, anche nei periodi di maggiore repressione.
Non sono il primo che ha ascoltato
le Tue idee
e si è ritrovato
nel Tuo destino.
Come Tu fosti crocifisso dagli ebrei
così io oggi dall’MGB…
(da «Ja ne pervyj vnjal…», 1953)

Una raccolta di risposte dei lettori alle poesie di V. Sokolov e un articolo dedicato agli amici del poeta, alla sua eredità letteraria e alla raccolta fondi per un monumento in suo onore, pubblicati sul giornale «Znamja šachtëra» dell’8 settembre 1990. (arch2.iofe.center).
Tramortito come da una clava
dai giorni trascorsi nel vuoto.
Colui che viveva nelle altezze
non ha chiesto uno sconto al cielo
incontro a voi mostri
ha alzato gli occhi per vedere
prima di morire
ha tirato il collo alla morte.
E in questo c’era la ragione
di tante azioni luminose
l’uomo non è stato dentro invano
dieci, vent’anni.
Sono apparse sulla strada
macchie di sangue, sul sangue
cresceranno i fiori dell’amore
e della buona novella.
(«Oglušili kak dubinoj…», 1962)
In questo suo riconoscere nella propria persecuzione la croce di Cristo e intravedere anche nella sofferenza un significato e una speranza di rinascita dalla morte, si percepisce ancora oggi la grazia che investiva Sokolov. Ed è solo in questa luce che si può comprendere l’umiltà con cui chiedeva preghiere per sé e misericordia per tutti, anche per i propri aguzzini.
Prega per me, prega….
Sto di guardia alla notte
porto il silenzio per la città
con le mani azzurre di felicità.
Sulla terra vivo solo per metà.
Oh, grandiosa, celeste felicità –
perdere la propria ombra nei cieli…
Prega per me, prega.
Noi non siamo certo dei giganti
da poter andare in quelle terre celesti,
senza ricordare la forza della croce…
Per i miei occhi, pieni di dolore,
mi ha amato l’Altissimo.
Prega per me, prega…
Io ho paura di sfiorare questo mistero,
Ho paura di apparire puro ai tuoi occhi,
quando il Cielo è mio testimone e custode.
Se tu sapessi quanto è terribile,
quando non doni più te stesso.
Prega per me, prega…
(«Pomolis’ za menja, pomolis’…»)

Trafiletto di un articolo dedicato a Sokolov apparso sulla rivista «Novoe Russkoe Slovo» il 26 marzo 1991. La fotografia sulla destra venne scattata due mesi prima della morte. (arch2.iofe.center).
Tiriamo ora le fila:
eccomi arrivare in una toga nera,
e grido;
e rifiuto
un mondo, per molti accettabile;
con canzoni cupe e severe
denuncio.
Con quanta passione odio.
E amo, amo senza misura.
E vedo approssimarsi la tua fine,
il fischio feroce della guardia!
Da lontano vedo coloro, che sono più puri…
Il mio cuore batte in fretta, più in fretta!
Pace a tutti, ai poveri in spirito,
a chi porta il lutto su questa terra;
Pace a tutti, agli afflitti in prigione,
La pace sia con voi!
Nelle soffici nuvole rosee,
La pace sia con voi…
Così strappato dai giorni fumosi,
di nuovo a te sono tornato
in quella dimensione, in cui non dici
alla gente in tumulto: “Fratelli, pace a voi!”.
Ma entri e in silenzio ti stendi
sul nudo pancaccio
Come cibo negli incubi violenti.
(…)
E di nuovo al risuonare delle sinfonie
sul palmo della mia mano
accolgo i vostri destini,
comprendo
e con il fiato le vostre dita
riscaldo…
Più piano, che un delicato singhiozzo
presto l’alba
presto l’alba irromperà
nel vostro dolore
e scioglierà il vostro dolore
sì, lo scioglierà! –
che si innalza fino al cielo
sì, lo scioglierà!
Presto, l’alba irromperà in abbondanza,
l’alba!
L’alba!
(Da Grottesco, 1959)
(Immagine d’apertura: fotografia di un campo di lavoro a Vorkuta. Fonte: wikipedia).
Miriam Zanoletti
Nata nel 1999, ha studiato all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Albert-Ludwig di Friburgo, conseguendo la laurea magistrale in Lingue e Letterature tedesca e russa.
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