5 Aprile 2022
«Mio nonno uccideva, chiedo perdono»
Il momento attuale, così bisognoso di misericordia e di perdono, può trovare un esempio e un’ispirazione in tempi non molto lontani, che hanno visto prevalere obbrobrio e disumanità. Ancora oggi i nipoti delle vittime di Stalin e dei carnefici si incontrano, e devono decidere come porsi dinnanzi al male compiuto.
«Cara Anna Georgievna,
Mi chiamo Ol’ga Rykova, sono la nipote di Ivan Vital’evič Vyžlecov. Qualche tempo fa mio fratello ha trovato per caso un post sul suo profilo facebook in cui si parla di nostro nonno. Il post dice che negli anni ’30 mio nonno ha firmato la maggior parte delle sentenze di morte nella regione di Komi. Questa notizia mi ha sconvolto, per un po’ di tempo non sono riuscita né a pensare, né a pregare per questa cosa.
Le scrivo in primo luogo per chiederle perdono per le azioni infami compiute da mio nonno, per le quali hanno sofferto anche i suoi familiari e molte altre persone di cui lei studia la storia.
Le sarei grata se mi desse una risposta.
Ol’ga Rykova»
Così scrive Ol’ga Rykova, nipote di un funzionario dell’NKVD (il famigerato Commissariato del popolo per gli affari interni), ad Anna Georgievna Malychina, discendente di alcune persone fucilate per ordine del nonno di Ol’ga e studiosa delle vittime delle repressioni nella regione di Komi, nella Russia settentrionale.
Queste parole sono il frutto di un lungo percorso, non semplice, da quando Ol’ga ha scoperto le vicende legate alla vita di suo nonno e al suo servizio nell’NKVD, e ha intuito di avere in qualche modo una responsabilità per le azioni commesse da lui, tanto da dover chiedere perdono.
Tutto è iniziato nel 2011, quando Ol’ga si è avvicinata alla Chiesa ortodossa e, in particolare, alla fraternità della Trasfigurazione, una comunità di fedeli ortodossi diffusa in diverse città, che si propongono di vivere la fede nel mondo contemporaneo. Insieme al suo gruppo di catecumeni ha partecipato a un viaggio a Mednoe, una cittadina a duecento chilometri da Mosca, nei dintorni di Tver’, per visitare l’omonimo complesso memoriale sulle fosse comuni dove i «nemici del popolo» venivano fucilati dagli organi repressivi sovietici.
Nel sentir raccontare della ferocia e della bestialità del trattamento riservato alle vittime dagli organi, Ol’ga si è ricordata del nonno Ivan, che chiamava affettuosamente Vanja, e che aveva lavorato nell’NKVD. Com’era possibile che il nonno Vanja, protagonista degli avvincenti racconti del padre che tanto entusiasmavano lei e il fratello quando erano piccoli, e di cui tutta la sua famiglia aveva un caro ricordo, fosse coinvolto in prima persona nei processi sommari, nelle fucilazioni di massa e in tutte le vicende terribili degli anni Trenta?
Con il passare del tempo, l’interesse per la vita del nonno Vanja si è approfondito, tanto che dopo la sua Prima Confessione, quella in cui ci si pente di tutta la propria vita passata, ha sentito il bisogno di pentirsi anche per la vita del nonno. E con il sostegno della sua comunità ha iniziato a cercare notizie su di lui.
Questo sostegno è stato essenziale nell’esperienza di Ol’ga, anche perché il suo interesse per la vita del nonno e per il ruolo da lui avuto nell’NKVD non è mai stato appoggiato o compreso dai membri della sua famiglia. Nessuno dei familiari aveva di lui un brutto ricordo, e il solo mettere in dubbio la sua onestà è stato visto come uno scandalo.
Ol’ga ha iniziato a collaborare al sito del progetto Carta della memoria, un progetto della Fraternità della Trasfigurazione che propone uno sguardo cristiano con cui affrontare la memoria del XX secolo, organizzando pellegrinaggi sui luoghi di repressione del regime sovietico e raccogliendo nel sito informazioni sulle vittime, sui carnefici, interviste di testimoni di quell’epoca. E piano piano, un po’ attraverso i ricordi dei familiari, un po’ attraverso gli archivi del progetto Carta della memoria e di Memorial, la storia del nonno si è ricomposta.
Ivan Vyžlecov apparteneva a una famiglia contadina piuttosto agiata, di stampo patriarcale. Probabilmente, secondo la ricostruzione della stessa Ol’ga, la decisione che il giovane Vanja entrasse nei ranghi della polizia sovietica fu presa dai genitori del nonno per mettersi in salvo dalle repressioni (infatti nessun membro della famiglia del nonno compare nelle liste delle persone arrestate). Il nonno era quindi entrato nell’NKVD e aveva prestato servizio in diversi luoghi, facendo una brillante carriera. Confrontando le informazioni che mano a mano venivano alla luce, Ol’ga si è resa conto che i luoghi in cui il nonno aveva prestato servizio coincidevano con luoghi tristemente noti per i processi sommari e le fucilazioni. Si poteva intuire che il nonno Vanja non era stato un semplice impiegato dell’NKVD.
Nel gennaio 2021, poi, suo fratello ha visto su facebook un post di Anna Malychina in cui si diceva che Ivan Vital’evič Vyžlecov, negli anni dal 1934 al 1939 aveva firmato la maggior parte delle condanne a morte nella regione di Komi, e l’intuizione è diventata certezza.
Per alcuni giorni Ol’ga è rimasta senza parole e piena di vergogna. Con il sostegno di un amico che aveva avuto una storia simile, dopo un mese di esitazione Ol’ga ha deciso di scrivere la lettera di richiesta di perdono riportata all’inizio.
La risposta, quasi insperata, di Anna Malychina è arrivata già la mattina seguente.
«È la prima volta che ricevo una lettera in cui una nipote chiede perdono per le azioni commesse dal nonno. Non sta a me giudicare, c’è un tribunale più alto».
La lettera poi continuava con un brevissimo resoconto di quanto Malychina aveva scoperto sulle vittime della regione di Komi e con la richiesta di avere più informazioni su Ivan Vyžlecov. Una risposta che mostrava tutta la difficoltà di un dialogo tra vittime e carnefici, ma che apriva una prospettiva.
In un periodo in cui spesso si preferisce dimenticare o nascondere la memoria di un passato di errori e delitti, considerandola come un tradimento della storia propria e della propria famiglia, Ol’ga ha avuto il coraggio di andare a fondo delle vicende del nonno, pur intuendo la verità tremenda che avrebbe potuto scoprire.
Ma non si tratta solo del passato. La grandezza di Ol’ga e degli amici che l’accompagnano in questo percorso sta nel testimoniare che è possibile uno sguardo umano che non si preoccupa di censurare la contraddizione tra gli affetti naturali e le tremende scoperte a cui si può andare incontro scavando nel proprio passato familiare, ma che se ne fa carico fino ad assumersene la responsabilità, fino a domandare perdono per gli orrori commessi dai propri congiunti, dai propri cari. Si sarebbe potuto giustificare il nonno, come del resto hanno fatto i parenti di Ol’ga, limitandosi a dire che «erano tempi difficili», e «lui pensava di fare bene». Oppure si sarebbe potuto condannare la memoria del nonno senza pietà, e prendere le distanze dalle sue azioni terribili.
Invece Ol’ga ha scelto una terza via: non ha mai cercato di giustificare le azioni del nonno, ma non ha mai nemmeno tentato di cancellare il legame con lui.
Per esempio, nel 2018 ha partecipato a una manifestazione di preghiera e di lettura dei nomi delle vittime delle repressioni sovietiche e, oltre al nome di un suo antenato da parte di madre che era finito in lager, ha voluto anche pregare per Ivan – impiegato dell’NKVD, provocando, anche qui, un certo sconcerto e addirittura proteste tra i presenti.
Questa terza via ha portato il frutto più grande quando ha chiesto perdono per le azioni del nonno. Lei stessa ha ammesso che scrivere quella lettera è stato un passo difficile, ma è stato anche liberante, ha portato un’aria nuova, un cambiamento significativo in un’atmosfera soffocante.
Una donna che abbia il coraggio e la serietà di riconoscere come responsabilità propria le azioni del nonno e chiederne perdono è una donna libera.
(fonte: S-t-o-l.com)
Mariateresa Fumagalli
Nata a Monza nel 1997, è attualmente studentessa all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano alla facoltà di Lingue e letterature straniere.
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