Nella mia vita la Russia «assente e presente»

13 Settembre 2025

Nella mia vita la Russia «assente e presente»

Georges Nivat

Decano e maestro degli slavisti europei, il professor Nivat il 25 agosto scorso ha tenuto un memorabile discorso davanti all’assemblea plenaria del XVII Congresso mondiale degli slavisti, a Parigi. Per condividere il suo amore sofferto per la Russia e le nuove scoperte.

Signore, signori, cari colleghi, scusate ma vorrei dare alla mia allocuzione un taglio personale. Il luogo stesso, questa assemblea, la mia età lo esigono.

I miei primi contatti con la Russia e la lingua russa sono avvenuti grazie a degli emigrati.

Il primo era tedesco, rifugiato da Tilsit [in Prussia orientale, occupata dai sovietici nel 1945 – ndr]. Ci conoscemmo nel 1950 a Francoforte sul Meno, dove trascorsi alcuni mesi. Mi lesse l’ultimo racconto del terzo Tolstoj [Aleksej Tolstoj, 1883-1945 – ndr], Il carattere russo. Così imparai subito che nei russi il patetico prevale sulla verità.

Il secondo emigrato viveva a Clermont-Ferrand, la mia città natale. Georgij Nikitin era stato arruolato da Denikin, aveva vissuto una terribile ritirata, si era ritrovato senza un soldo a Istanbul, come tanti rifugiati descritti da Michail Bulgakov. Riuscì a farsi assumere come fuochista su una nave mercantile diretta a Marsiglia. E si ritrovò a Clermont-Ferrand.

La Russia degli emigrati è quindi fondamentale per me, ho conosciuto la prima ondata: Vladimir Vejdle, Georgij Ivanov, Boris Zajcev. Della seconda, che seguì la sconfitta tedesca, incontrai alcuni relitti. La terza mi ha portato molti amici: Andrej Amal’rik, Vladimir Maksimov, Viktor Nekrasov, Natalija Gorbanevskaja, Ernst Neizvestnyj, solo per citarne alcuni. E ora la quarta, di cui abbiamo appena ascoltato l’eminente e magnifico narratore Boris Akunin.

Naturalmente ho anche vissuto nella Russia sovietica, due anni come studente durante i quali ho conosciuto da vicino Boris Pasternak, e poi sono stato espulso nell’agosto 1960 alla vigilia del mio matrimonio. E mi ci sono voluti dodici anni per tornarci, ma poi ho provato la gioia di una Russia liberata, quella di Boris El’cin, la gioia di viaggiare a mio piacimento da Pskov a Vladivostok.

Nella mia vita la Russia «assente e presente»

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Oggi ho l’impressione di tornare alla Russia degli emigrati, ovvero alla «Russia assente e presente», per usare la straordinaria espressione di Vladimir Vejdle. Qui è assente in corpore, ma presente attraverso scrittori e ricercatori. Presente attraverso la sua lingua, la sua musica, la sua poesia, senza la quale non potrei vivere.

Assente a causa della guerra fratricida che ha scatenato contro l’Ucraina, vietando nel suo linguaggio distorto di chiamarla guerra. Da tre anni l’Ucraina subisce un’aggressione insensata. Personalmente non ne vedo la fine, con buona pace del presidente Trump, affascinato dal potere dei tiranni. Questa guerra è condotta contro una nazione sorella che per tre secoli ha fatto parte dell’impero russo, ne è stata provincializzata, colonizzata, pur rivestendo un grande ruolo culturale.

Per comprendere questa situazione, ho riletto Thomas Mann, che nel 1933 fu costretto a lasciare la Germania nazista. Stranamente, Mann impiegò tre anni prima di decidere di rompere definitivamente con il suo paese, nonostante suo figlio Klaus lo spingesse a farlo. Rompere con la propria patria non è facile. E poi, nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale, scrisse un breve testo intitolato in tedesco Das Gesetz (La legge). Mann ci dice che con un certo Mosè salito sul Sinai che riceve dal Dio invisibile le Tavole della Legge, è nata un’epoca dell’umanità durata circa tre millenni, in cui poco a poco la legge si è imposta. Ma la Legge ostacola il forte che vuole stabilire una parvenza di legge, che non è altro che il suo potere discrezionale. Questa lunga epoca sta volgendo al termine, scrive Mann in questo libro di una lucidità spaventosa. Perché Mann aveva visto terribilmente giusto.

A suo modo [ha visto giusto – ndr] anche Lev Tolstoj, quando nel 1908 pubblicò il pamphlet intitolato Non posso tacere. Tolstoj ha dato alla Russia la forza della dissidenza, Solženicyn, Sacharov e Grigorenko hanno seguito le sue orme. Ci sono momenti in cui la legge, quella di Mosè, esige di non tacere. Ma su questo, ognuno resta giudice di sé stesso.

«E mio ​​fratello non abbia da me condanna», dice Puškin in una delle sue poesie più commoventi [Padri romiti e spose immacolate, 1836 – ndr].

Dai tempi di Stalin la Russia è abituata alle sparizioni. Sparizioni di leader, foto ritoccate, sparizioni di vicini, colleghi, figli adolescenti. Il diario di Ol’ga Berggol’c è straordinario sotto questo aspetto. Fino alla vigilia del suo arresto nel 1937, trasuda ammirazione per Stalin, le sparizioni dei suoi colleghi della casa editrice per bambini «DetGiz» sono dovute, secondo lei, al fatto che lei ignora le perfide astuzie del nemico. Fu salvata dalla scomparsa di Ežov, poi dalla guerra, che la rese l’incontrastato cantore patetico dell’assedio di Leningrado.

Un altro esempio, tra mille, è Sergej Tret’jakov, talentuoso poeta, fotografo, regista, drammaturgo, amico di Majakovskij, Brecht, Mejerchol’d, strappato dal suo letto d’ospedale per essere fucilato nel 1937.

L’anno 1937, che vede un emigrato tornato in patria, Sergej Prokof’ev, comporre la cantata «Urrà per Stalin», dove il coro canta magnificamente: «Mai più gioiosa / è stata per noi la vita. / Il sole è più splendente. / Perché è passato / da Stalin al Cremlino».

Stalin amava sbalordire con indulgenze inaspettate. Fu il caso di Pasternak, Bulgakov, Achmatova, Zoščenko. Normalmente avrebbero dovuto finire nel tritacarne, come Mejerchol’d, Babel’, Mandel’štam e tanti altri martiri, scrittori, storici, attori, «spie del Giappone», «agenti stranieri»…

Nella mia vita la Russia «assente e presente»

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Ma a quale prezzo, come ci ha rivelato Šostakovič nelle sue straordinarie Memorie. Il suicidio lo ossessionava: «La paura mi terrorizzava, non vedevo altra via d’uscita. Non ero più padrone della mia vita». Il’f e Petrov avevano definito la nuova regola: «Non basta amare il regime sovietico, bisogna anche che lui ti ami». Šostakovič odiava il regime. E il regime lo schiavizzava.

Nella sua poesia L’estate, Pasternak, che aveva trascorso l’estate a Irpin’, una località di villeggiatura vicino a Kyiv, ha cantato la felicità: «Irpin’ è l’estate che torna alla memoria, / La gente e l’aria aperta e le catene spezzate».

Per Julija Berezko-Kaminskaja, poetessa e giornalista ucraina sopravvissuta a Buča e accolta a Cracovia, Irpin’ significa massacro: «I carri armati avanzano su Irpin’ e Buča, / Tutti con la scritta “Veniamo a liberarti”».

Perché oggi anche la felicità è finita nel tritacarne. Il grande poeta Rilke, russofilo quasi mistico, amico del pittore Leonid Pasternak, che tenne il piccolo Boris sulle ginocchia, faticò a capire che la Russia era cambiata dopo l’ottobre 1917, che non era più «santa» e che praticava una crudeltà inaudita. Quanti contemporanei hanno anch’essi difficoltà a capire che i tempi sono cambiati radicalmente, che il massacro avanza come la marea alla fine del film di Sokurov L’arca russa.

Certo, comprendere i cambiamenti epocali è sempre difficile: lo sperimentiamo tutti, ovunque ci troviamo. Ognuno deve prendere posizione rispetto alla nuova era, un’era di aggressioni, massacri di civili, fine delle Tavole della Legge date a Mosè sul Monte Sinai.

Per quanto mi riguarda, dopo l’occupazione del Donbass ho iniziato a imparare l’ucraino. Avevo finalmente capito che i miei studi di russo alla Sorbona o a Oxford avevano implicitamente sposato l’imperialismo russo. Avevo finalmente letto il «Libro della Genesi del popolo ucraino degli undici cospiratori della Confraternita Cirillo e Metodio» [di N. Kostomarov 1817-1885, etnografo e storico ucraino – ndr], avevo finalmente capito che Alessandro II, lo zar liberatore, non solo aveva represso nel sangue i polacchi ma aveva anche vietato la lingua ucraina con la Circolare Valuev [1863 – ndr]. Divieto rinnovato da Stalin, che arrestò e liquidò i poeti del Rinascimento degli anni ’20. Ancora una volta, la lingua e la cultura ucraine sono state completamente negate dal presidente Putin nel suo discorso del 2021, che tracciava la strada della futura invasione.

Dovevo giudicare in prima persona: l’ucraino è una lingua, come il russo o il polacco, le due lingue slave che avevo studiato alla Sorbona, o un semplice dialetto? La risposta è sì, è una bella lingua, infinitamente diversa dal russo nonostante le somiglianze lessicali. Le differenze mi affascinano, come del resto quelle di tutte le lingue del mondo.

E ho iniziato a tradurre il poeta Vasyl Stus, il secondo poeta nazionale ucraino. Mi ha ipnotizzato. Ho pubblicato a Kyiv un’edizione bilingue con il mio studio su Stus. Siamo alla seconda edizione. Le sue due raccolte Palinsesti sono un capolavoro europeo. Rilke, Goethe e Pasternak sono i suoi idoli. (Come potete vedere, nel suo pantheon c’è anche un poeta russo). La sua traduzione delle Elegie duinesi di Rilke fu gettata nel fuoco dai suoi carcerieri. Quella delle Lettere a Orfeo è sopravvissuta. Traduceva mentalmente quando era in cella di rigore, nel «Šizo», cosa che gli capitava spesso. Vi morì nel 1985 dopo uno sciopero della fame portato sino alla fine. I suoi paesaggi della Kolyma, dove fu deportato, sono magnifici e, paradossalmente, fu lì che scoprì l’Assoluto: il Dio di Mosè gli fece visita nell’inferno bianco.

A tutti i negazionisti passati, presenti e futuri dell’Ucraina opponeva il suo non possumus, convinto che lui solo, a migliaia di verste dalla sua Ucraina natale, incarnava l’Ucraina. O meglio, che lui ERA l’Ucraina. Vorrei quindi concludere con sei versi di Vasyl Stus.

Popolo mio, tornerò di nuovo a te,
come nella morte tornerò in vita
con il mio volto sofferente e benevolo.
come un figlio mi inchinerò fino a terra
e onestamente guarderò nei tuoi occhi onesti
e nella morte mi ricongiungerò con la mia terra natale.


(Immagine d’apertura: fotoload).

Georges Nivat

Accademico, slavista e traduttore francese. Dopo l’École normale supérieure, ha conseguito la laurea in russo alla Sorbona. È stato professore in varie università e dal 1990 è membro dell’Academia Europaea di Cambridge. Ha al suo attivo una produzione scientifica sterminata, nella quale si segnala tra l’altro la cura (insieme a E. Etkind, I. Serman e V. Strada) di una monumentale  Histoire de la littérature russe, parzialmente tradotta in italiano da Einaudi.

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