
7 Luglio 2025
Bielorussia: le «larve» del potere e le «rose» del dissenso
A giugno dalle carceri bielorusse sono stati rilasciati 14 detenuti politici, grazie soprattutto all’iniziativa dell’amministrazione Trump. Restano ancora in carcere 1160 persone. Presentiamo alcuni momenti della conferenza stampa di Sergej Tichanovskij dopo la liberazione.
Il 21 giugno Sergej Tichanovskij, imprenditore e politico bielorusso condannato a 19 anni e mezzo di reclusione, è stato rilasciato insieme ad altri 13 detenuti politici, tra cui l’uomo d’affari Sergej Šeleg (condanna di 8 anni e 6 mesi), Igor’ Karnej (giornalista di Radio Free Europe, 3 anni e 10 mesi), l’ex italianista dell’Università statale di Mosca Natal’ja Dulina (3 anni e mezzo), il ventenne Kirill Balachonov (3 anni e mezzo), nonché diversi cittadini stranieri.
Dal punto di vista diplomatico, la loro liberazione è avvenuta in seguito all’incontro a Minsk tra Aleksandr Lukašenko e Kit Kellogg, inviato speciale del presidente americano. I prigionieri liberati sono stati portati senza preavviso in Lituania, dove hanno ricevuto la prima assistenza. Questi rilasci sono considerati un successo di Trump, il quale avrebbe un peso enorme su Lukašenko che dal rapporto col presidente americano spera di ottenere un’attenuazione delle sanzioni e del suo isolamento internazionale, servendosi dei prigionieri politici che considera una semplice merce di scambio.
Dopo le repressioni dell’agosto 2020, infatti, quando il regime era intervenuto violentemente contro le proteste pacifiche seguite alle elezioni presidenziali, gli Stati Uniti hanno risposto con sanzioni che continuano a colpire persone (Lukašenko e la sua cerchia), economia (settori chiave e beni di lusso), e istituzioni (compagnie aeree, industrie metallurgiche). Il quadro si è ampliato con l’invasione russa in Ucraina, dato che la Bielorussia sostiene la Russia. In sostanza, gli Stati Uniti stanno usando la pressione economica per isolare questo regime autoritario, nella speranza che prima o poi si arrivi a dei cambiamenti.
Ma cosa determina il «prezzo» di un dissidente? Il prestigio internazionale, per cui un Nobel lo si tiene come asso nella manica per «alzare la posta», nonostante sia anziano e malato? E quanto «valgono» le altre centinaia di detenuti politici «meno famosi»?… Il rilascio di Tichanovskij porta con sé una considerazione amara: delle vite sono state liberate, ma da un sistema in cui la libertà non è più un diritto inalienabile, bensì una concessione ottenuta attraverso rapporti di geopolitica. È la logica di mercato applicata ai diritti umani.

L’incontro tra le due delegazioni. (J.K. Kellogg, X)
La conferenza stampa
Il giorno dopo la liberazione, Tichanovskij ha tenuto una conferenza stampa nella capitale lituana cui hanno partecipato la moglie Svetlana, gli ex detenuti Karnej, Dulina e Balachonov. L’evento in sé ha suscitato impressioni contrastanti: alcuni l’hanno ritenuta prematura, ritenendo che l’oppositore, visibilmente dimagrito dopo oltre cinque anni trascorsi in prigione, gran parte dei quali in isolamento, non fosse pronto emotivamente. Alle domande sul carcere, la liberazione, il ricongiungimento familiare ha risposto infatti con una certa concitazione non riuscendo a frenare le lacrime. Secondo il regista Nikolaj Chalezin, tuttavia, la puntualità di un discorso ben strutturato ha lasciato spazio alla spontaneità di una persona capace di trasmettere le proprie emozioni in maniera autentica, in netto contrasto con la fredda burocrazia che l’ha voluto isolare dal mondo.
«Il nostro compagno di detenzione Vladislav Beloded – ha ricordato l’imprenditore Šeleg, – amava dire che è importante impedire che la prigione entri in te, e che se in qualche modo ti ha penetrato, bisogna espellerla il più velocemente possibile».
La conferenza stampa è stata anche l’occasione per denunciare le condizioni disumane nelle prigioni bielorusse: Tichanovskij per oltre due anni e mezzo non ha potuto ricevere lettere, chiamate, visite, pacchi e cure mediche: «Ecco – ha raccontato – nella cella accanto c’erano dei maniaci assassini che guardavano la tv, mentre a me non era permessa nemmeno una lettera dai parenti». Benché non abbia subito violenze fisiche – tranne «una volta nel 2020, a Volodarka, quando mi hanno preso a calci», – ha sofferto molto stress psicologico («morirai qui!» – gli ripetevano), ha patito il freddo e la fame, da ortodosso praticante non ha potuto né confessarsi né ricevere la Comunione, e ha aggiunto che le condizioni sono leggermente migliorate solo dopo la morte di Naval’nyj in Russia, ipotizzando che dall’alto sia venuto l’ordine di tenerlo in vita.

Un momento di commozione di Tichanovskij, durante la conferenza stampa. (facebook)
Sergej Tichanovskij è diventato una figura popolare grazie al suo canale YouTube Un paese per la vita, fondato nel 2019. Desiderava candidarsi alle elezioni presidenziali del 2020, ma è stato arrestato prima che si potesse registrare, e a quel punto la moglie Svetlana, che fino ad allora non si era mai esposta pubblicamente, ha preso il suo posto come candidata elettorale. Il 29 maggio 2020 Tichanovskij è stato nuovamente arrestato durante un incontro elettorale a Grodno, su ordine diretto di Lukašenko che lo accusava di voler organizzare un «majdan» bielorusso.
Nel dicembre 2021 è stato condannato a 18 anni di colonia a regime rafforzato con l’accusa di aver fomentato disordini di massa, incitato all’odio sociale, ostacolato il lavoro della Commissione elettorale e per altre presunte violazioni dell’ordine pubblico. Nel giugno 2022 il suo nome è stato inserito addirittura nella lista dei terroristi, mentre nel febbraio 2023 gli è stato aggiunto un altro anno e mezzo di carcere per aver disobbedito al regolamento penitenziario. Dal marzo dello stesso anno è stato poi tenuto in completo isolamento dal mondo esterno.
I suoi progetti nell’immediato futuro riguardano l’apertura di nuovi canali di comunicazione con la gente, mentre ha sottolineato di non voler interferire con l’impegno politico della moglie, indicandola come la vera leader dell’opposizione bielorussa.
Interessante anche la testimonianza della Dulina, che ha distinto fra tortura – inflitta per estorcere qualcosa alla vittima – e trattamento disumano, privo invece di obiettivi concreti e perpetrato unicamente «per vendetta, noia o semplicemente perché è la prassi». La professoressa ha descritto la propria esperienza in isolamento, un ambiente squallido «con le brande ribaltabili di legno verniciato, che il calore del corpo non riesce a riscaldare». Il regime è rigoroso: nel suo caso le sono stati confiscati gli occhiali («per prevenire l’autolesionismo», creandole al contempo un disagio notevole), tutti gli indumenti eccetto la biancheria intima, sostituiti con una divisa standard composta da gonna e giacca.
Nelle colonie femminili si è sviluppata una strategia di sopravvivenza: nell’eventualità di comparire davanti alla commissione disciplinare, la detenuta affida alle compagne una «valigia di emergenza» con l’essenziale (carta igienica, spazzolino, asciugamano), pregandole di fargliela avere in caso la mandassero in isolamento. Il riscaldamento, seppur presente, risulta inefficace, e senza indumenti pesanti il sonno diventa impossibile. Esistono celle più o meno calde, dipende tutto dall’«assegnazione», anche se le condizioni di base rimangono disumane: «Che sia violenza fisica o psicologica, probabilmente è una cosa molto relativa, perché il disagio fisico influisce naturalmente anche sullo stato psichico».

Da sin.: K. Balachonov, S. Šeleg, N. Dulina e I. Karnej durante la conferenza stampa. (Youtube)
Alla domanda se il rilascio ha comportato per loro la firma della domanda di grazia, gli oppositori hanno ribadito che la procedura di rilascio è stata rapida e del tutto inattesa, senza nessuna firma o altro impegno. Dulina ha aggiunto che – per quanto riguarda la sua esperienza nel carcere femminile – già dal luglio 2024 avevano iniziato a rilasciare alcune detenute, in concomitanza con l’amnistia per gli 80 anni «della liberazione della Bielorussia dagli invasori nazisti».
«La particolarità è che rilasciavano principalmente persone a cui mancava pochissimo al termine della pena. (…) Convocavano detenute specifiche per una conversazione esplorativa. Se ritenevano che fosse il caso giusto, proponevano la domanda di grazia» in cui le candidate dovevano confermare il proprio pentimento e il proposito di non ripetere azioni ostili. Inoltre, almeno inizialmente, veniva proposta un’intervista sui media statali. «Sarebbero uscite prima del termine, ma innanzitutto, calpestando la propria coscienza, dovevano scrivere: “Riconosco la mia colpa, mi pento”. Poi potevano anche rifiutare l’intervista, ma la richiesta di grazia doveva contenere l’idea di pentimento».
Un aforisma apparentemente bizzarro creato da Tichanovskij e memorizzato durante la permanenza in isolamento, sintetizza la situazione socio-politica bielorussa: «Le larve nate nel letame ignorano la natura del loro ambiente, e credono di stare nel luogo più adatto. Non sentono i miasmi che provengono dalle loro leggi, né il puzzo del letame natio. Per loro il cattivo odore è quello dei boccioli di rosa che fioriscono lì accanto. Le larve disdegnano i fiori, disprezzano il loro anelito verso il cielo, vivono nel letame e ci muoiono, in quella che è una vita senza scopo».
Tichanovskij non ha spiegato se anche il «letame» (i palazzi del potere) in cui prosperano le «larve» (Lukašenko, raffigurato come uno scarafaggio nella tornata elettorale del ’20) è necessario alle «rose» (tutti coloro che aspirano alla «fioritura», alla giustizia), sorta di fertilizzante della consapevolezza politica, capace di creare le condizioni per la resistenza, per la presa di coscienza e la mobilitazione popolare. In fondo ogni rivoluzione antitotalitaria all’Est affondava le radici in una «composta» di ingiustizie precedenti, e le «rose» – quando fiorite – sono emerse non nonostante il «letame» ma trapassandolo.

I coniugi Tichanovskij a Vilnius, a una manifestazione in favore dei detenuti politici bielorussi. La moglie Svetlana regge la foto di A. Bjaljacki. (telegram)
Così anche l’opposizione bielorussa dovrà fare i conti in futuro con l’humus preesistente, ma intanto può contare su persone che hanno saputo sacrificare anni della loro vita per la libertà della nazione, senza dimenticare le centinaia ancora detenute: nonostante queste liberazioni, infatti, restano in carcere 1160 prigionieri politici, e le ultime condanne – come quella di Maksim Urbanovič a un anno e mezzo per aver partecipato alle manifestazioni del ‘20, – risalgono a pochi giorni dopo le 14 liberazioni.
«Dobbiamo capire che solo la solidarietà, solo la pressione e gli sforzi diplomatici ci aiuteranno a liberare tutte le persone» – ha dichiarato Svetlana Tichanovskaja.
(immagine d’apertura creata con IA)
Angelo Bonaguro
È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.
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