18 Febbraio 2025
Guardando Naval’nyj negli occhi
Siamo stati ciechi e sordi, ma ancora oggi la scelta di Naval’nyj continua a interrogarci: perché ha sacrificato la vita? Saremmo disposti a fare altrettanto?
Il tuo sparo fu come un’Etna
In un pianoro di codardi e di codarde
(Pasternak, In morte di Majakovskij)
La Storia o si vive personalmente o non esiste. C’è un test per sapere se un determinato fatto ha impattato sulle nostre esistenze: ricordare dove eravamo quando l’abbiamo saputo. Nel caso della morte di Aleksej Naval’nyj la mia risposta è facile: ero in casa editrice a chiudere il mio libro La Guerra tra Russia e Ucraina: le origini, le battaglie, la posta in gioco” (ed. ARES) e la morte di Naval’nyj fu l’ultimo dato che riuscii ad aggiungere al testo. Un atto doveroso ma che non cancellava la vergogna che avvertii e che avverto ancora oggi quando mi confronto con la figura di questo eroe disarmato.
Perché vergogna? Perché nonostante tutto quello che avevo avuto dalla Russia e dall’Est europeo non solo non avevo mosso un dito per impedire quanto accaduto in Russia negli ultimi venticinque anni ma mi ero anche dato, per decenni, giustificazioni atte a mantenermi immoto e passivo davanti a quello che accadeva.
Una breve premessa: negli anni Ottanta del secolo scorso, quando il confronto tra Est e Ovest, tra Patto di Varsavia e NATO sembrava giunto al momento dello scontro finale, le scelte erano chiare. Noi europei tutti potevamo essere più o meno amanti della pace ma era chiaro che il comunismo sovietico non poteva essere accettato dalla stragrande maggioranza: un atteggiamento collettivo che, oggi, non esiste più.
Iniziai a scrivere cartoline ai prigionieri di coscienza in Unione Sovietica e imparai a conoscere le loro storie e i loro volti: Sandr Riga, Alfonsas Svarinskas, Irina Ratušinskaja, Igor’ Ogurcov e tanti altri. Ero ragionevolmente certo che, con ogni probabilità, non avrei mai visto in faccia, vivi e liberi, quegli eroi disarmati. E invece il miracolo accadde.
Irina Ratušinskaja mi regalò una biglia di vetro, Sandr Riga un crocifisso di finto legno, Igor’ Ogurcov un libro d’arte come dono di nozze. Sembra difficile da spiegare ma, quando volete bene a una persona che sapete in pericolo di vita e questa, un giorno, vi appare, vi sorride, vi abbraccia e vi ringrazia, si tratta di un momento solenne nella vostra vita, incancellabile, che «intender non la può chi non la prova».
Dopo di che si è dissolta l’Unione Sovietica, la Russia è entrata in una crisi profondissima ed è arrivato Vladimir Vladimirovič Putin. E qui cominciano i problemi perché Putin poteva anche apparire simpatico: duro, spietato ma, in fondo era alleato dell’Europa. E sulla base di questo fascino torbido per l’uomo forte (perché è questa la vera radice del fascismo, in ogni epoca e latitudine) si potevano anche tollerare gli omicidi di Anna Politkovskaja, di Litvinenko e di tanti altri giornalisti e oppositori.
Le nostre coscienze hanno tollerato che le libertà civili e politiche in Russia fossero progressivamente erose e cancellate purché fossimo lasciati tranquilli. Ed è qui che arriva Aleksej Naval’nyj sul quale, da subito, vennero poste obiezioni del tipo «È un nazionalista come gli altri», «È un razzista». Il tutto a causa di affermazioni discutibili risalenti al 2007 che egli stesso disconoscerà salvo poi aggiungere che, se questo era tutto quello che gli si poteva imputare, voleva dire che nei quindici anni successivi «non aveva detto o fatto molte altre stupidaggini».

Migliaia di persone a Mosca hanno reso omaggio a Naval’nyj ad un anno dalla scomparsa. (bereg.io)
Passavano gli anni e si arrivò agli attentati col Novičok a Sergej Skripal’ nel 2018 e allo stesso Naval’nyj nel 2020. Eppure, nonostante ciò, gran parte degli europei, compreso il sottoscritto dormiva «tranquillo e asciutto» come i neonati della pubblicità dei pannolini fino al momento in cui, il 17 gennaio 2021, Naval’nyj atterrò all’aeroporto di Mosca e si fece arrestare.
Un gesto di coraggio inaudito che svegliò una parte dell’Occidente dal coma etilico in cui si trovava. Gran parte degli occidentali ha continuato a dormire saporitamente ma tutti gli altri, gli «scossi» (secondo la definizione di Jan Patočka) si sono chiesti il perché di una scelta così suicida.
La risposta è stata data da Naval’nyj stesso in una intervista a «Time» del 19 gennaio 2022. «Questa gente – disse Naval’nyj – è abbastanza delirante da spalmare il veleno sulla maniglia della nostra porta, un domani. E se a toccarla non fossi io ma i miei figli tornando da scuola? Un conto è rischiare sé stessi, un altro è prendere questa decisione per un altro, anche se è tuo figlio. Costringerli a condividere con noi rischi ormai più che reali non sarebbe stato onesto nei loro confronti»1.
È giunto quindi il momento di chiedere a tutti coloro che sono rimasti indifferenti davanti al suo martirio e alla sua morte e a tutti quei «maîtres à penser» che elargiscono pareri al pubblico per aiutarlo a non pensare: avete capito perché un uomo come Naval’nyj ha sacrificato la propria vita? Sareste disposti a fare altrettanto?
E da questa domanda ne nasce un’altra: sareste disposti a leggere quello che scriveva dal carcere, a confrontarvi con lui oppure continuate a distogliere lo sguardo e a «guardare il tavolo» come facevano i giudici al momento della prima condanna del dicembre 2014?2. Siete disposti o no a guardare negli occhi un uomo che muore davanti ai vostri occhi e che vi chiede solo il tempo di un viaggio in treno per leggere la sua testimonianza?
Chi continua a guardare il tavolo dovrà, esistenzialmente, pagarne il prezzo. «Prima di rendercene conto saremo tutti stesi in un letto, con i parenti intorno che pensano: “Purché schiatti in fretta e ci liberi la stanza”. Ad un certo punto capiremo che nulla di ciò che abbiamo fatto per cui abbiamo fissato il tavolo e siamo rimasti in silenzio, ha avuto significato. Gli unici momenti della nostra vita che hanno un senso sono quelli in cui facciamo qualcosa di giusto. Quando non guardiamo il tavolo ma alziamo lo sguardo e ci guardiamo negli occhi. Tutto il resto non ha senso» 3.
Diceva Václav Havel che «se non si ha un motivo per rischiare fino a morire non si avrà un motivo per vivere una vita degna di questo nome». E, andando ancora più indietro, è Shakespeare che ci ammonisce: «Cos’è un uomo se tutto ciò che cava dal suo tempo non è che dormire e nutrirsi? Una bestia, nient’altro. Certo colui che ci fece con una mente così vasta, e capace di guardare indietro e in avanti, non ci dette questa virtù, questa ragione divina perché ammuffisse inusata».
Oppure, andando ancora più indietro nel tempo, ripetere con Giovenale, «Propter vitam vivendi perdere causas», per preservare la vita si perdono le ragioni del vivere.
Ma bisogna prendere atto che costringere qualcuno a guardare negli occhi Naval’nyj è sempre più difficile perché l’essere umano si è progressivamente imbarbarito fino a cercare di sopravvivere ad ogni costo. Havel, Shakespeare, Giovenale e, oggi Naval’nyj, in fondo sono solo poeti.
Se alzi gli occhi dal tavolo e guardi Naval’nyj, invece, il rischio c’è ed è quello di non essere più gli stessi, di non poter tornare indietro, di essere deciso a resistere ad ogni minaccia, ad ogni ricatto, fosse anche quello nucleare. Non era un caso se Tat’jana Goričeva, fondatrice dei Club femminista Maria in Unione Sovietica ed espulsa dal proprio paese alla fine degli anni Settanta, diceva a noi giovani di allora «Vi dicono “meglio rossi che morti” ma io vi dico “meglio morti che rossi”».
Tutto questo a costo di passare per guerrafondai mentre, più semplicemente, non si è disposti ad arrendersi alla violenza e alla sopraffazione. È la logica di magistrati come Falcone, Borsellino, Livatino e tanti altri. Conoscere la vita di questi eroi ci fa capire che non possiamo delegare loro una responsabilità che è anche nostra.
Questo nostro tempo è spietato e ci dà questa alternativa: continuare a dormire o esserci, contribuendo poco o tanto a salvare noi stessi e, di conseguenza il mondo intero.
Non è un caso che, mentre Putin e Trump si vogliono accordare per una «pace» che è, in realtà, una spartizione di zone di influenza tra «grandi» mentre i «piccoli» possono solo accettare le decisioni dei potenti, l’Italia sia anestetizzata dal festival di Sanremo. L’incontro con Naval’nyj, tuttavia, ci insegna a non avere paura e a resistere a tutto questo come ci insegnava, nella nostra Resistenza, Giuseppe Fenoglio. Immaginando che un giorno avrebbe ricevuto la notizia della morte dei suoi amici e compagni, Fenoglio rifletté che «forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sull’ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno». Quell’uno è ciascuno di noi.
(foto d’apertura: Memorial, telegram)
Alberto Leoni
Nato nel 1957, laureato in giurisprudenza. Storico e saggista, è esperto di storia militare e geopolitica. Per l’editrice Ares ha tradotto la storia del Risorgimento italiano di O’Clery e ha pubblicato diversi volumi tra i quali L’Europa prima delle Crociate (2010), Il Paradiso devastato. Storia militare della campagna d’Italia, Storia delle guerre di religione. Dai catari ai totalitarismi e Addio mia bella addio: battaglie ed eroi (sconfitti) del Risorgimento italiano.
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