9 Gennaio 2025

Il dolore a vita o le mani di un padre?

Adriano Dell’Asta

La storia della propria famiglia indissolubilmente legata a quella di un’epoca e di un paese, la Russia. Ma per la storica Irina Ščerbakova la Russia non è destinata a un eterno dolore, le persone vive sono il pegno di un futuro buono.

Il dolore a vita o le mani di un padre?

I. Scherbakova, Le mani di mio padre, Mimesis 2024.

Le mani di mio padre. Una storia di famiglia russa di Irina Ščerbakova (Mimesis, 2024) è più di un’autobiografia o di un libro di memorie familiari: è l’occasione per riprendere la storia di un secolo e per cercare di trarne quello che nessuno più osa cercare, per lo scetticismo di chi non crede che ci sia più nulla che valga la pena di essere trasmesso, o per la paura di chi crede che ci siano soltanto ragioni poco confessabili (come il risentimento per i tanti mali subiti, o l’odio che sa vedere soltanto nemici).

E invece l’autrice, una delle fondatrici di Memorial, ci offre proprio quello che oggi sembra più lontano da molta mentalità corrente: in queste pagine non abbiamo né scetticismo, né risentimento, né odio, ma il senso di una vita che non è andata perduta e non ha perso il suo significato pur in mezzo alle tragedie che la Russia e l’Europa hanno vissuto negli ultimi cento anni. Due guerre mondiali, il crollo di quattro imperi, una rivoluzione che «sconvolse il mondo» e la successiva guerra civile, tre genocidi, il crollo dell’Unione Sovietica e la guerra scatenata dalla Russia attuale davvero hanno «sconvolto» il mondo, ma non hanno impedito che la vita si trasmettesse, dai padri ai figli, dai nonni ai nipoti. Non che nella vita di questa famiglia non vi siano stati errori, responsabilità o anche colpe (un nonno di Irina era stato elemento non secondario del Komintern), ma la domanda di umanità e di libertà era sempre rimasta forte nei suoi membri, vuoi che passasse attraverso il disagio e la tensione che certe fotografie mostrano, vuoi che passasse attraverso i libri vietati nascosti in un armadio che la giovanissima Irina, a tredici anni, poteva aprire per leggere quello che voleva, vuoi che passasse attraverso l’ospitalità data a uno sconosciuto male in arnese che passava letteralmente giornate intere a leggere e copiare poesie di un poeta proibito e pericoloso come Mandel’štam.

In questo secolo, dunque, si sono vissuti sconvolgimenti epocali, è cambiato tutto, eppure questo libro ci parla di qualcosa che è rimasto e che val la pena trasmettere di mano in mano, di padre in figlio.
Sono cambiati persino l’alfabeto (grafia e ortografia pre e post-rivoluzionaria) e i nomi; in qualche caso sono cambiati per nascondere l’origine ebraica (Jakov, Miriam, Lazar’, ecc.) di fronte a un antisemitismo continuamente risorgente, in qualche altro caso per rendere omaggio al nuovo potere, inventando per esempio un «Marlen» che non richiamava affatto la famosa attrice e cantante tedesca Marlene Dietrich, ma era il nome (maschile o femminile) ricavato dalla fusione di Marx e Lenin. In questi cambiamenti vecchie ricchezze sono scomparse e quelli che un tempo potevano essere i proprietari di un intero stabile, o di un suo piano, diventavano gli inquilini di una misera stanzetta in un appartamento in coabitazione dello stesso stabile ormai fatiscente; e nel frattempo nascevano quelle nuove ricchezze, che si sono poi mantenute in forme diverse sino ai nostri giorni e che recentemente sono state denunciate da Aleksej Naval’nyj e dalla sua Fondazione per la lotta alla corruzione. E sarebbe ancora poco se si fosse trattato solo di ricchezze che sparivano o cambiavano di proprietario, ma spesso sparivano gli uomini stessi che le avevano possedute; e poi, presi in un vortice inarrestabile, i carnefici di un tempo diventavano vittime, o le stesse persone si trovavano a utilizzare gli stessi mobili che avevano utilizzato in posizioni sociali assolutamente diverse; eppure qualcosa d’altro restava stabile nonostante tutto.

Così Irina Ščerbakova ci narra, lungo tutto il libro, la storia impressionante dell’hotel Lux, residenza tristemente famosa di tanti attivisti e responsabili dei partiti comunisti esteri, andati in Unione Sovietica per partecipare alla rivoluzione mondiale e costruire un mondo nuovo, e poi fatti a pezzi e scomparsi senza lasciare traccia nel tritacarne del Grande Terrore, passando proprio attraverso le stanze di quell’albergo. Ma non si tratta soltanto della grande storia del movimento comunista internazionale: nell’hotel Lux abitò anche la famiglia del nonno di Irina dal 1924 al 1945; lei stessa ricorda di avervi rilasciato un’intervista sul Gulag quando era ormai diventata una nota esponente di Memorial, narra infine dei mobili che da quelle stanze erano passati alla sua famiglia ed erano diventati un pezzo importante della sua vita: «io dunque facevo i compiti sulla scrivania di mio nonno, e i miei libri di testo e i quaderni erano in uno di quei cassetti che avevano svuotato per me. Tutti gli altri cassetti erano ancora pieni delle cose meravigliose che mi ricordavano lui. […] Per molto tempo quella scrivania dell’hotel Lux è stata per me una sorta di ponte di collegamento, un legame con mio nonno. Oggi mi dispiace molto che lui non abbia potuto raccontarmi di più delle cose che, crescendo, mi interessavano sempre di più: gli anni ’30, le persone che aveva conosciuto e quel che pensava a quei tempi».

Il dolore a vita o le mani di un padre?

L’hotel Lux in una cartolina di inizio ‘900. (Pastvu.com)

Macrostoria e piccola storia

In questo modo, dunque, con una caratteristica che attraversa tutto il libro e ne dà uno dei toni principali, gli oggetti, le storie narrate e i giudizi pronunciati cessano di essere delle categorie mentali, un discorso astratto o un ricordo lontano e diventano una traccia delle persone che stanno dietro le cose e il cui valore resta e cresce, indipendentemente da qualsiasi circostanza esteriore, perché la persona, in quanto tale e nella sua nudità, è un assoluto. I cambiamenti del tempo e dello spazio, delle situazioni e dei ruoli sociali e politici diventano lo sfondo su cui permane e risalta l’essenziale: la persona, vera protagonista della storia, che la storia stessa sembrerebbe travolgere e cancellare, magari momentaneamente e apparentemente riuscendovi, senza riuscire però ad annullare qualcosa di fondamentale. In tutto questo turbinio resta infatti la memoria (da quella storica, la cui conservazione è il compito assunto da un’istituzione come Memorial, a quella intima qui narrata) e, soprattutto, resta quello che costituisce il suo soggetto, la persona, con la sua capacità di resistere a ogni riduzione e attacco del potere e di farlo in una comunione, in una continua creazione e conservazione di legami, che è l’esatto contrario di quella frammentazione di cui ogni potere totalitario ha un bisogno essenziale per instaurarsi e mantenersi forte e stabile.

In contrapposizione a questa solidità esteriore di una società senza legami, Irina Ščerbakova ci narra allora le varie forme di resistenza al regime, da quelle meno evidenti o addirittura ignorate, durante i suoi momenti più duri, quando la repressione era troppo forte ed estesa perché si potesse conservare qualcosa di più della memoria, a quelle di fronte alle quali il sistema cominciò a sgretolarsi, come la nascita del dissenso, quando nelle città del socialismo reale,

«dopo tanti anni di silenzio e di conversazioni solo sussurrate», tornarono le voci e i colori; e bisogna aver sentito e visto il silenzio e il grigiore di queste città, un tempo così chiassose e colorate, per capire di cosa si parli qui.

Magari tra queste voci e questi colori non c’era ancora la filosofia e forse non ci sarebbe mai stata la politica, ma c’erano quelle altre eterne pietre di inciampo per ogni potere che sono l’arte e la letteratura, che avrebbero segnato da ultimo la fine del sistema: pensiamo a cosa volle dire in questo senso la pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovič prima o dell’Arcipelago Gulag più tardi, e pensiamo a cosa vogliono dire le continue citazioni di poeti e scrittori che segnano queste pagine.

Ma al di là di questi avvenimenti della macrostoria, colpiscono in questo libro gli episodi della piccola storia, quelli che pochissimi o solo i diretti protagonisti conoscono, ma che poi hanno di fatto creato quel clima in cui la distruzione e il disfacimento morale della società sovietica avrebbero trovato un sia pur parziale rimedio; abbiamo allora le storie delle governanti e delle tate «che, dopo l’arresto dei loro padroni, si prendevano cura dei bambini rimasti senza genitori, salvandoli così dall’essere mandati in un istituto». Storie di poco conto, si dirà, ma bisogna aver conosciuto queste storie, aver seguito cosa voleva dire per una famiglia perdere i propri figli o i propri genitori, aver saputo cosa si rischiava, prendendosi cura di uno di questi sventurati «traditori della patria» e diventando con ciò stesso «nemici oggettivi» (si veda in questo senso la mostra Uomini nonostante tutto. Testimonianze da Memorial, presentata al Meeting di Rimini nel 2022), per capire che con questi gesti apparentemente insignificanti si cambiavano destini precisi e si cambiava, appunto, il mondo.

Noi oggi facciamo fatica a immaginare cosa richiedesse questa assunzione di responsabilità, e Irina Ščerbakova ce lo fa intendere ricostruendo puntualmente l’atmosfera di quegli anni, con i sacrifici e la paura che segnavano ogni istante: si fosse al tempo delle Grandi Purghe (quando nascevano addirittura lager appositi per le «mogli dei traditori della patria») o si fosse al tempo della seconda guerra mondiale, quando i soldati venivano mandati letteralmente al macello, senza che vi fosse «nulla di patetico o di eroico», quando il paese subiva «una sconfitta dopo l’altra» e la gente non riceveva nulla in cambio, anzi non solo non aveva alcun riconoscimento reale e vedeva disconosciuti i propri sacrifici, ma percepiva il senso di una inutilità ed estraneità ultime.

È quanto Ščerbakova ci ricorda citando Boris Sluckij (1919-1986), un famoso poeta di quegli anni (e amico di suo padre, a testimonianza di quanto contino in questo libro e nelle sue storie i legami personali); aveva detto dunque Sluckij: «Quando siamo tornati dalla guerra / compresi che nessuno aveva bisogno di noi. / Soffocando per la nostalgia di casa, / per il senso di colpa inappagato / mi resi conto che gli altri, / non erano affatto come noi». E quelli che non erano «come noi», con una ingratitudine impensabile nei confronti di chi aveva dato tanto per la patria, andavano accuratamente ignorati, nascosti, allontanati dalla vista, come Ščerbakova ricorda riferendo le voci (forse eccessive, ma certo non meno significative) di molti che parlavano di mutilati «trasportati su isole difficilmente raggiungibili. In altre parole, mandati in esilio» perché la loro vista non disturbasse troppo il benessere che si voleva ricostruire dopo la fine di una guerra che era costata troppo.

Il dolore a vita o le mani di un padre?

I nonni di Irina, Jakov e Mira Roskin nel 1919. (Facebook)

E su tutta questa insensata estraneità (che contrasta clamorosamente con le amicizie e i legami che caratterizzavano la vita della famiglia di Irina) regnava appunto la paura, una paura che non sarebbe mai venuta meno e avrebbe costantemente ostacolato qualsiasi forma di comunicazione sincera e senza filtri, creando un’atmosfera del tutto speciale che si è mantenuta sino ai giorni nostri: «Da adulta, in seguito – commenta Irina – ho riflettuto a lungo su cosa significhi per un bambino dover sapere, e fin dalla più tenera età, di cosa si può parlare e di cosa no. Nella storia del nostro paese sono tante le generazioni che hanno dovuto assimilare questo tipo di sapere», cosa che, ovviamente ha prodotto effetti non secondari se non addirittura patologici, come ricorda sempre Ščerbakova, parlando di una zia per la quale, «nelle ultime settimane prima della morte, quando aveva già novant’anni, queste paure a lungo represse si fecero improvvisamente sentire di nuovo. Si era convinta che intorno a lei non c’erano medici e infermieri, ma agenti dell’NKVD che erano venuti ad arrestarla».

La parentela con lo stalinismo e le persone «diverse»

Anche questa paura, come il coraggio che era necessario per farle fronte, è oggi difficile da immaginare; così come è difficile da immaginare il culto di Stalin, culminato nell’ecatombe che segnò i suoi funerali, con centinaia e forse migliaia di morti; così com’è difficile pensare al risorgere di questo culto, che già nel 2004 (2004!) il padre di Irina denunciava come inaccettabile: «Quante volte abbiamo sentito e sentiamo ancora oggi dire: con Stalin abbiamo vinto la guerra; sotto Stalin c’era ordine e i prezzi erano più bassi; gli ebrei erano tenuti sotto controllo e per i mercati di Mosca non si vedevano persone di nazionalità caucasica. Era un’epoca buona, grande e bella sotto Stalin». Eppure questo culto, ammesso che fosse mai veramente scomparso del tutto, oggi è rinato, quasi nelle stesse forme e con le stesse motivazioni (la Russia era grande e aveva vinto la guerra, c’era ordine e non c’erano né ebrei, né caucasici). E così è rinato anche l’antisemitismo, anch’esso in realtà mai morto e presente già a metà degli anni ‘60 sotto la forma più o meno evidente del numero chiuso per l’accesso alle università, presente, ancora, nelle esternazioni di Chruščëv, che, censurando le effettive caratteristiche antisemite dell’eccidio nazista di Babij Jar, negava l’esistenza di una «questione ebraica» in Unione Sovietica. Mentre oggi non solo l’antisemitismo è presente in Russia (nella Russia che vorrebbe denazificare il resto del mondo), ma è diventato anche qualcosa di peggio, perché «oggi tali posizioni non sono più marginali: nazionalismo, tradizionalismo, xenofobia e, naturalmente, antisemitismo sono anzi aumentati. Mentre allora si trattava ancora di fenomeni sporadici».

Irina Ščerbakova non fa evidentemente sconti al regime di Putin che ha ripreso tutti gli stili di un tempo (e a parte tutto il resto ha messo fuori legge proprio Memorial), eppure non c’è da credere che ci offra uno sguardo privo di speranza: innanzitutto sa che le contraddizioni che descrive si erano già presentate al tempo della destalinizzazione, con Chruščëv che denunciava i «crimini di Stalin» ma soffocava nel sangue la rivoluzione ungherese, permetteva la costruzione del muro di Berlino e reprimeva (con almeno una ventina di morti) la rivolta popolare di Novočerkassk e poi, a dispetto della vulgata che ne faceva un bonaccione disposto al dialogo, aveva lottato «a muso duro contro la Chiesa e la religione», e aveva definito gli artisti liberi dei «degenerati» e dei «pederasti». E sa ancora perfettamente, l’autrice, che queste contraddizioni erano addirittura aumentate in seguito, estendendosi con l’invasione di Praga a tutta la società: «Ricordo che stavamo sedute [lei e la madre] prima sul treno regionale e poi in metropolitana, e quasi non riuscivo a credere a quanta indifferenza vedevo nei volti della gente. Non ne sapevano ancora nulla? O nessuno di loro si rendeva conto della portata di ciò che stava accadendo?».

Attivisti di Memorial durante una manifestazione del 1989 . Sullo striscione: “Il monopolio sulla verità è lo stalinismo dei nostri giorni!”. (D. Borko, Memorial.ru)

Tutte queste cose sono ben note a Irina Ščerbakova, come le è ben noto che la Russia non ha avuto personaggi sul tipo di Havel che, dalla prigione dove era finito come dissidente, «salì al potere», e non ha avuto neppure una Chiesa come quella polacca che potesse fungere da centro catalizzatore di una coscienza libera per tutta la nazione: «guardavamo con invidia – dice a questo proposito – alla Polonia e al movimento Solidarność, e constatavamo con rammarico che una cosa del genere per noi sarebbe rimasta allo stato di utopia, visto che in URSS non c’era né un movimento operaio né una Chiesa all’opposizione e con una tale importanza come quella in Polonia». Ma pur conoscendo bene tutti questi limiti personali e istituzionali, Irina sa anche che nonostante tutto la Russia ha avuto persone diverse, come lo stesso Gorbačëv, che aveva legalizzato Memorial oggi così ingiustamente repressa, o come quel «meraviglioso sacerdote di Pskov, appartenente alla cerchia dei dissidenti della Chiesa», che aveva conosciuto a casa di Nadežda Mandel’štam e che l’aveva colpita per il modo in cui lo aveva visto dedicarsi «con altre due donne» alle pulizie in casa della moglie del poeta: «Rimasi stupita dalla velocità, dall’accuratezza e, soprattutto, dall’allegria con cui stavano riordinando quel suo piccolo e disordinato appartamento. Praticamente per loro ero solo di disturbo e non sono riuscita in nessun modo ad aiutarli. E allora ho cominciato a importunare Nadežda Jakovlevna con le mie domande, lei infatti mi interessava non solo in quanto vedova di un grande poeta, ma come persona».

E così, ancora una volta, quello che si impone al di là di tutti i discorsi, sulla poesia come sulla politica, è la persona, la persona che, vincendo tutte le paure, aveva sempre saputo trovare le forze per resistere, pur senza eroismi particolari o azioni clamorose, o addirittura con comportamenti quasi ridicoli, come la volta in cui la stessa Irina aveva preparato una valigia di samizdat da nascondere a casa di un anziano parente per evitare la sorpresa di qualche perquisizione del KGB e, mentre si apprestava al trasferimento, era stata preceduta dalla sorella che le chiedeva di nascondere… una valigia di samizdat religioso. E però,

a dispetto di tutte le ingenuità, questo stesso mondo aveva saputo creare quei piccoli nuclei di ripartenza che ci avevano fatto tanto sperare al crollo del Muro.

Certo oggi tutto sembra essere stato spazzato nuovamente via: Memorial è stata messa fuori legge, i media liberi non esistono semplicemente più, i preti che non pregano per la vittoria ma per la pace sono ridotti allo stato laicale e rischiano la galera, tanta gente in quelle galere scompare e Irina vive ormai all’estero, senza sapere se mai potrà ritornare in patria, ma anche senza aver perso ogni speranza di poterlo fare, tant’è che, come dice alla fine del suo libro, «il nostro appartamento a Mosca, in ogni caso, l’abbiamo semplicemente chiuso a chiave».

Che è come dire che, alla fine di tutto, e nonostante tutto, la Russia non è condannata a un «dolore a vita», a patto che non commetta lo stesso errore già commesso subito dopo la perestrojka: allora «la nuova classe di politici salita al potere negli anni ’90 riteneva infatti che le riforme economiche fossero quelle più importanti, e che tutto il resto si sarebbe in qualche modo accomodato da sé. Non vedevano insomma alcuna utilità pratica in un confronto serrato con il passato»; errore che in fondo, potremmo aggiungere noi, non fu molto diverso da quello commesso dall’Occidente quando credette che allora la storia fosse finita e che la libertà potesse mantenersi automaticamente, senza l’impegno di ogni singola persona.


(Foto d’apertura: Pastvu.com)

Adriano Dell’Asta

È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.

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