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6 Giugno 2023
La responsabilità del bene
Se nessuno è riuscito a impedire la guerra con la sua rovina, possiamo sempre seguire la via della com-passione e della solidarietà.
Capita sempre più spesso che gente di una certa età trovi somiglianze tra quanto succedeva in Unione Sovietica e nell’Est Europa negli anni ’60-80 e quanto sta avvenendo oggi in Russia e Bielorussia. È vero, le somiglianze sono molte, a partire dalla lunga lista di «prigionieri di coscienza» che in quei paesi stanno pagando le proprie scelte civili non violente.
Ciò che è diverso è che ai tempi del dissenso c’era una solidarietà sicuramente più diffusa verso i dissidenti, la nostra coscienza nei loro confronti era un po’ meno «distanziata», nutrivamo una stima indiscussa per il loro coraggio civile e c’era anche un certo sostegno alle vittime attraverso un’ampia rete di solidarietà, così come permettevano la distanza e le barriere politiche: con invio di libri, di pacchi, di lettere ai prigionieri e alle loro famiglie; dov’era possibile con visite e contatti personali.
E non era un atteggiamento dovuto soltanto a scelte politiche o alla convinzione che quello che si faceva in Occidente potesse avere risultati immediati; a strapparci dall’inerzia dei semplici spettatori non era la reattività politica o il sogno di una facile vittoria: se non ci lasciavamo abbattere dall’impressione di non poter fare assolutamente nulla era perché eravamo determinati da qualcosa di più profondo della lotta contro chi era evidentemente un malvagio, qualcosa di più profondo della sua necessaria condanna. Come padre Scalfi scriveva nel lontano 1974, quando non era neppure pensabile il crollo del regime,
non si trattava di «svergognare i colpevoli, già condannati dalla storia, ma di far ricordare il germe che ha fecondato e può ancora fecondare la terra russa».
Quella della memoria del bene, che non censura il male ma non si limita a condannarlo, era ed è una sfida lanciata a ogni singola persona, che non spera nelle sue sole forze ma è messa di fronte alla responsabilità per il bene, che è «frutto della potenza dello Spirito che gratuitamente visita l’uomo, è contemporaneamente frutto dei giusti che dallo Spirito si sono lasciati guidare» (Scalfi).
Era ed è una sfida radicale non solo per la Russia e l’Est ma anche per noi e per il nostro paese. Perché la minaccia rappresentata dal nuovo totalitarismo in Europa interroga anche il nostro modo di vivere e «subire» la politica, il nostro disamore per le forme della vita democratica, la nostra irresponsabilità civile. Siamo realmente implicati per il nostro futuro, a un livello che non è solamente geopolitico ma arriva alle ragioni prime della politica, quelle di cui ci sembra superfluo e retorico parlare ma che toccano la natura stessa della democrazia; per lo meno nella misura in cui la vita politica è un fatto (e non un’idea) che interessa noi uomini.
Innanzitutto si può partire dai fatti: in Russia ad oggi ci sono 20.000 persone (dati forniti da Memorial) attualmente perseguite per le proteste civili o contro la guerra. In Bielorussia i detenuti di coscienza registrati sono 1507 (62 in più solo nell’ultimo mese, il che vuol dire che le repressioni continuano, anche se non se ne parla più sui giornali). Nel 1985 l’Associazione Internazionale per i diritti dell’uomo aveva pubblicato un libro-documento che si intitolava I mille prigionieri di Gorbačev, e allora questo numero pareva uno scandalo ma oggi è aumentato di 20 volte.
Questo numero impressionante può essere brandito semplicemente come l’ennesima accusa contro i regimi altrui, oppure (come si era fatto allora) si può condividere la responsabilità della sorte di queste persone, perché sono il meglio delle nostre società civili e incarnano la più autentica fede nella democrazia. I capifila sono noti: Naval’nyj, Kara-Murza che sono rientrati in patria pur sapendo cosa li attendeva; o Oleg Orlov presidente di Memorial, che vuole restare per difendere il buon nome dei russi, pur avendo a carico un’accusa pesante… ma ce ne sono tanti altri meno noti e non meno degni. Stimarli non vuol dire che li riteniamo perfetti e impeccabili, ma che crediamo ancora nella differenza tra bene e male, nel fatto che la verità esiste, come la giustizia; e che, in quanto cristiani, crediamo anche che nella fragilità della condivisione è racchiusa un’arma potente.
Accettare di guardarli in volto è come dire a noi stessi, e all’oppositore politico, che i nostri valori non li abbiamo svenduti ma ci crediamo veramente e che anzi, possono essere quell’imprevisto capace di spiazzare le forze globali che comandano l’economia e gli armamenti.
È un quid di cui i nuovi potenti non sospettano la forza, tutto sta a vedere se noi stessi non ne ignoriamo la forza, tocca a noi riscoprirlo, e crederci.
Il primo passo, per non fermarsi ai numeri (20.000, 1.500) è seguire l’intuizione che era stata del dissenso, e cioè quella di avere a cuore i singoli destini, e che Memorial ha incarnato in versione più moderna con il suo data base, consultabile anche dall’Italia.
Darsi la pena di prendere in considerazione le singole persone, di andare a vedere sui data base online che faccia hanno, è già un gesto, piccolo quanto si vuole ma che può rinnovare il clima, creare una mentalità che rinnega l’indifferenza, il cinico «tanto non serve a niente» ma crede invece nel valore intrinseco della persona, della verità. Difenderle è già un passo oltre lo schieramento puramente politico.
Recentemente Elena Žemkova, direttore esecutivo di Memorial, raccontava come erano arrivati a concepire l’azione annuale della «lettura dei nomi» per il giorno della memoria in Russia: non volendo che la commemorazione naufragasse nella routine e nella retorica, avevano fatto in modo che la partecipazione al gesto richiedesse ogni volta un piccolo passo personale: farsi avanti, chiedere il foglio, attendere (anche a lungo), andare al microfono, esporsi pubblicamente leggendo un nome, immedesimandosi con una vittima. È stato così che un gesto infinitesimale e inerme come la lettura dei nomi dei fucilati staliniani è diventato un momento di grande forza simbolica, di grande richiamo per migliaia e migliaia di russi. Non a caso il governo russo lo ha vietato.
Tutto questo non ha impedito la guerra, non ha impedito gli arresti né i processi iniqui, e in questo senso è andata distrutta molta nostra presunzione di essere a posto, molte illusioni che le cose vadano avanti positivamente senza che ce ne occupiamo; però gli sforzi fatti per tenere viva la coscienza collettiva hanno consolidato la presenza di un’opposizione popolare che altrimenti si sarebbe del tutto dispersa.
La verità non funziona magicamente, chiede sacrificio e il tempo perché il sacrificio dia frutto, è sempre lì lì per essere subissata ma è anche pronta a riemergere ogni volta con forza straripante.
Come aveva intuito un grande poeta della Russia in esilio, Vladislav Chodasevič:
«Così l’anima mia segue la via del grano: / Scende nel buio, muore – e rinasce pian piano. / E anche tu mia terra, anche tu, sua nazione, / Muori e rinasci sommersa in questa stagione, / Poiché una saggezza sola conosciamo: / Tutto ciò che vive segue la via del grano».
Possiamo fare un passo anche noi verso la vita, verso questa vita che non ci offre facili soluzioni ma ci rende degni del nome di uomini, chiediamoci perché non ci sentiamo di farlo.
Tante volte ci sembra sufficiente schierarci moralmente dalla parte dei deboli, magari insultare i colpevoli e rallegrarci dei loro rovesci. Ma tutto questo non cambia la situazione, anzi, come ha osservato Svetlana Panič, lascia che «il male produca il male, che produce altro male, e così all’infinito». La solidarietà, l’attenzione gratuita per le vittime spezza la catena, è una cosa che il potere di questo mondo sottovaluta perché non ci crede.
Non deve succedere che non ci crediamo neppure noi…
(foto d’apertura: pastvu.com)
Marta Dell'Asta
Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».
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