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14 Settembre 2021
Kolesnikova, l’orfano e la vedova…
Di fronte alle innumerevoli crisi, alzare le difese o lasciarsi ferire?
Viviamo tempi di inquietudine e di paura. Tutto concorre ad alimentare questo stato d’animo: la cronaca quotidiana con il Covid, l’autoritarismo rinascente in certi paesi, la crisi delle democrazie, la tragedia dell’Afghanistan; ma anche anniversari come quello, tremendo, delle due torri.
Ognuno, poi, ha anche motivi più specifici di malessere, legati a cose cui è più sensibile per storia e per carattere: può essere l’obbligo del Green pass o viceversa i no-vax, la presenza dei migranti, l’ideologia gender, l’intolleranza… preoccupazioni diverse e spesso contrastanti, che concorrono a generare uno sguardo sulla realtà monocorde, preoccupato ma anche reattivo e – ultimamente – incapace di cogliere qualcosa di nuovo e promettente.
A noi della «Nuova Europa» stanno a cuore particolarmente la Russia e i paesi dell’Est, che ultimamente sono fonte di grande preoccupazione. Solo per fare un esempio di questi giorni, un tribunale bielorusso ha condannato Marija Kolesnikova a 11 anni di prigione, e Maksim Znak a 10. La loro unica colpa era quella di aver fatto parte dello staff elettorale del candidato presidenziale indipendente Viktor Babariko. La Kolesnikova un anno fa si era ribellata alla polizia che la stava letteralmente buttando fuori dal paese, stracciando il proprio passaporto e tornando volutamente indietro, dritta verso la prigione. Oltre a loro nelle prigioni bielorusse sono attualmente in attesa di processo 4600 imputati di estremismo, oltre al migliaio già condannati.
Ma c’è una cosa che in genere fa da sfondo a queste nostre preoccupazioni, e che come una radiazione maligna introduce un malessere diffuso, indeterminato e pernicioso: l’indignazione (quando questa non si trasforma in rabbia e rancore), la ricerca di un colpevole che sia «altro» da noi. E così restiamo chiusi nel circolo vizioso delle accuse, delle condanne (perlopiù virtuali), seguite da nuove accuse, e così via.
E anche i tentativi di «prendere posizione» in modo forte alla fine lasciano il sospetto di essere poco più che uno sterile sfogo.
Anche 50 anni fa, ai tempi del dissenso in URSS e nell’Est Europa, i motivi di paura erano tanti, e la gente di norma reagiva come si fa oggi: malediceva il regime, prendeva le distanze e viveva sprezzante nella terra di nessuno. C’era però una minoranza che non ha fatto così.
Rileggendo le testimonianze di alcuni dissidenti cechi dei primi anni ‘70 – ricordiamo che c’erano appena stati il naufragio della Primavera di Praga e l’occupazione sovietica – troviamo lo stesso sconforto di fronte alla grande politica, lo stesso senso di impotenza e di inutilità intriso di disperazione o anche cinismo. Si presentava come una «lotta di nani contro i giganti», si sentivano schiacciati.
Riconosciamo in queste reazioni il nostro stato d’animo.
E tuttavia, spinti dalla voglia-necessità di sopravvivere («per fortuna il mondo attorno a noi è reale – scriveva uno di loro – i bambini si alzano, si vestono e fanno colazione…), questi quattro gatti di dissidenti avevano formulato e cercato di praticare quella che avevano chiamato polis parallela, cioè delle forme minimali e autonome di organizzazione civile – potremmo chiamarla solidarietà – capaci di umanizzare e di supplire almeno in piccola parte all’inadeguatezza delle istituzioni ufficiali che erano inefficaci, ingiuste, lontane dai bisogni della gente. Questa forma di autoorganizzazione di base svolgeva una funzione importantissima, quella di sposare l’ideale del vero e della giustizia con l’opacità della dura vita quotidiana. Senza progettare nulla a tavolino, avevano preso iniziativa seguendo le esigenze della vita di ogni giorno. Per difendere o sostenere degli amici, e gli amici degli amici. Non innanzitutto per abbattere il regime che li soffocava. Come abbiamo ricordato tante volte, avevano fatto una cosa semplice e geniale a un tempo; per dirla con un dissidente russo, «in un paese non libero avevano iniziato a comportarsi da uomini liberi»: geniale e tremendamente efficace, perché dipendeva esclusivamente da loro e la libertà non era rimandata a un futuro solo sognato.
Perché lo facevano, è una domanda cruciale. Innanzitutto, spiegava Václav Havel, «non si diventa “dissidenti” perché un bel giorno si decide di intraprendere questa stravagante carriera» (ed effettivamente, chi si sentirebbe di mettersi nei guai per un’idea?) «ma perché – continuava Havel – la responsabilità interiore si combina con tutto il complesso delle circostanze esterne».
Responsabilità interiore e circostanze esterne, non più viste come nemiche, ma come un dato dal quale non si può prescindere anche se non ti piace, e che ti permette di iniziare a intravedere qualcosa oltre la cappa di piombo dello sconforto e del cinismo.
Sentire la «responsabilità interiore» non è da tutti, confessiamolo, ma è nelle corde del nostro cuore perciò è sempre possibile. Occorre abbassare le difese, lasciarsi ferire personalmente dalle «circostanze esterne», che non è la stessa cosa che elucubrarci sopra. I dissidenti cecoslovacchi avevano creato quella cosa straordinaria che fu Charta 77, che segnò la rinascita della resistenza civile, ma poi si accorsero che la loro posizione «etica», così nobile e generosa, era in fondo astratta e non portava da nessuna parte, perché «era priva di un contenuto positivo e di una direzione d’azione» (Václav Benda). Per questo avevano pensato la polis parallela. E avevano scoperto di non essere semplicemente una forma di opposizione, né di voler proporre soprattutto programmi politici alternativi.
Vivere nel socialismo era solo una contingenza, perché la questione non era il sistema politico, ma l’essersi lasciati ferire, scuotere dalla crisi dell’umano che colpiva tutti.
E così erano usciti dal circolo vizioso della paura e delle accuse, di cui si diceva. Lasciarsi ferire, essere aperti e vulnerabili esclude che siamo l’un contro l’altro armati, che diamo innanzitutto la caccia al nemico. Sembra un particolare trascurabile, invece cambia del tutto la prospettiva, ci restituisce creatività, perché non si tratta sempre di condannare e vituperare (un regime, un paese, un partito) ma ogni volta di trovare un modo che difenda la vita, gli altri, le conquiste positive.
«Siamo dei folli (…) sarà uno scontro lungo, estenuante e secondo le misure umane privo di speranza – scriveva Benda – eppure abbiamo il comandamento di difendere l’orfano e la vedova dai violenti! E gridando “il re è nudo” si può arrivare a conseguenze incontrollabili e inaspettate, e a cambiare alle sue fondamenta il corso delle cose: sono convinto che essere folli o bambini rappresenti non solo la via verso il Regno dei cieli, ma allo stato attuale delle cose anche l’unica nostra possibilità di fare politica».
Ritrovare la realtà è una cosa che ci impegna tutti. Oggi per noi, forse, c’è una difficoltà in più, una illusione in più da sconfiggere: quella che l’iniziativa personale possa consistere soprattutto di azioni intraprese nel mondo virtuale dei social media, già così popolati da «leoni da tastiera» o di «utopisti da Instagram». Non è questo che significa esercitare la responsabilità e avere il coraggio di dire «io»: per una simile mossa è sempre indispensabile l’uscita nella realtà concreta, il mettersi nelle condizioni di vivere incontri reali, umani.
Quando ciò avviene, ricominciamo a vedere qualcosa di nuovo.
Questa linea di pensiero che fu dei dissidenti non è andata perduta. Lo scorso 8 settembre 40 direttori di testate russe si sono uniti per lanciare una dichiarazione semplice e chiara, dopo la chiusura di canali e testate con l’accusa di essere servi di nemici esterni: «Nessun agente straniero, solo giornalisti».
Marta Dell'Asta
Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».
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