17 Dicembre 2020
Bielorussia, a che punto è la notte?
La gente scende in piazza da quattro mesi, la repressione brutale non è riuscita a fermarla. «Che c’è di nuovo?», hanno chiesto al poeta Dmitrij Strocev. «Il popolo», ha risposto.
Passano le settimane e la protesta bielorussa non si ferma. Non è cessata per l’arrivo dell’inverno con la pioggia e la neve; non è cessata con il crescere del Covid; né dopo gli arresti di massa di ottobre e novembre (fino a 1200 al giorno), né dopo i pestaggi e neppure dopo alcune morti violente: l’11 novembre la morte del 31enne Roman Bondarenko arrestato nel cortile di casa e pestato dalla polizia fino al trauma cranico irreversibile; e il 4 dicembre, a Brest, la morte improvvisa dell’attivista Roman Rešeckij, 42 anni, appena uscito di prigione. Davanti a questo crescendo – non dimentichiamo neppure i licenziamenti degli operai e dei minatori in sciopero – tra la gente cresce la paura fisica (come del resto il regime voleva che fosse) ma cresce anche la resilienza.
La sfida, dopo quattro mesi, è continuare senza sapere come andrà a finire ma con la volontà che non finisca tutto nel nulla; cercando anche di evitare che qualcuno ceda a reazioni disperate e violente. Certo il gioco è molto duro: in 120 giorni di proteste ci sono stati oltre 30.000 arresti e fermi, 900 denunce penali contro gli oppositori, ma neanche una contro gli agenti della polizia.
In questo scontro durissimo c’è chi vede un’inutile lotta, destinata a fallire per la disparità delle forze; e chi invece vede – a prescindere dall’esito politico – un irreversibile processo di crescita della coscienza civica bielorussa. Di sicuro è stato sfatato il mito che il popolo bielorusso sarebbe inerte e disposto a sopportare all’infinito; dice Dima Strocev che in realtà le proteste in Bielorussia ci sono state quasi ininterrottamente da 26 anni a questa parte, cioè dal momento in cui Lukašenko è salito al potere e sono incominciate le violenze.
Sin dall’inizio il presidente ha impostato la politica interna sull’intimidazione e l’uso della forza (in Bielorussia esistono ancora il KGB e la pena di morte), e questa formula ha tenuto a lungo. Ci sono stati momenti caldi, come nel 2006 e nel 2010 quando la resistenza è stata molto forte, ma poi le proteste sono state soffocate nel sangue, gli oppositori politici fatti sparire nel nulla. Tutto è avvenuto in sordina, lontano dai riflettori. Probabilmente è stata soprattutto la mancanza d’informazione a far nascere l’idea del popolo bielorusso immerso in un sonno profondo. Questa volta invece l’informazione c’è stata, alimentata quotidianamente dai mille rivoli della rete e dall’agenzia indipendente Tut.by.
Ma un’altra differenza essenziale sta nel fatto che ora la protesta non è più dei soli gruppi d’opposizione ma è veramente popolare. Fin qui il regime aveva sempre detto che combatteva organizzazioni terroristiche pagate dall’estero; ma stavolta l’abituale retorica non ha funzionato perché, come sostiene Strocev, in questi 26 anni il paese è cambiato. E lo si tocca con mano, mentre prima neppure gli stessi bielorussi se ne rendevano conto; è come se in tutti questi anni la società civile avesse cercato un suo modo di esprimere la protesta che non fosse puramente politico (come faceva l’opposizione), ma fondato sulla dignità e la solidarietà.
Il popolo bielorusso sta nascendo adesso, dicono in molti, in questo senso sta accadendo una vera rivoluzione che scalza le radici del vecchio sistema – lo statalismo, la fiducia nella forza, la latitanza della persona, la mancanza di responsabilità – mettendone a nudo l’anima totalitaria, e mettendo in luce, al contrario, l’origine e l’anima della resistenza: la persona.
È per questo, e non solo per le dimensioni, che le proteste degli ultimi mesi si distinguono da quelle del passato.
Un duello diseguale e significativo
Dalla cronaca sommaria delle proteste emergono i momenti del duello in corso tra resistenza civile e potere, da cui si capisce la natura dei due contendenti. In questo duello si sono viste molte azioni e reazioni, dove l’iniziativa è stata presa generalmente dalla società, come ha sottolineato la giornalista Natallia Vasilevič.
Primo atto: Lukašenko mette fuori gioco tutti i concorrenti alle presidenziali del 2020, come ha fatto in passato in modo anche più cruento. Ma parte l’iniziativa civile: inaspettatamente tre donne, Svetlana Tichanovskaja, Marija Kolesnikova e Veronika Cepkalo, si candidano al posto dei tre leader dell’opposizione arrestati. Dopo avere in un primo momento sottovalutato la cosa, all’indomani delle votazioni il regime (evidentemente preoccupato dal plebiscito per Tichanovskaja) reagisce espellendo Cepkalo e Tichanovskaja, costrette con minacce a riparare all’estero, mentre il coro della stampa le accusa di fuggire vigliaccamente. Tuttavia una nuova presa di posizione scompagina le carte: con Kolesnikova la tecnica non funziona. Prelevata a forza nel centro di Minsk il 7 settembre, impedisce che la facciano espatriare verso l’Ucraina stracciando il proprio passaporto. E passa così dalla condizione di «rapita» a quella di «arrestata». Le agenzie ufficiali rivedono frettolosamente le loro veline, e comunicano che Kolesnikova è stata presa mentre cercava di scappare all’estero. Da allora, e sono più di due mesi, si trova in cella d’isolamento, senza neppure la possibilità di parlare col suo avvocato. Ma ha una rivincita: quando il 10 ottobre, con una mossa che vorrebbe dividere il fronte degli oppositori, Lukašenko si reca in prigione per dialogare con i leader arrestati, Kolesnikova si rifiuta di partecipare.
Secondo atto: nel suo genere, il presidente è un politico esperto ed ha capito molto presto che questa volta i brogli elettorali avrebbero suscitato reazioni più forti, per questo ha scatenato da subito una repressione durissima e sproporzionata, contando su due possibili esiti: 1) di bloccare sul nascere le manifestazioni; o, alla peggio 2) di provocare uno scontro aperto, e quindi poter gridare alla congiura terroristica manovrata dall’estero. Invece è successo qualcosa cui non era preparato: le manifestazioni sono cresciute fino a essere di massa, ma sono rimaste pacifiche e costanti nel tempo.
Davanti a questa terza variante non prevista il regime ha semplicemente incrementato la forza bruta, magari alternando al bastone la classica carota: pestaggi e torture contro i dimostranti inermi da una parte, e gesti «liberali» per accattivarsi le simpatie di determinati ambienti dall’altra. Un ambiente che sta molto a cuore al governo è quello della Chiesa ortodossa, alla quale Lukašenko, come osserva il deputato Oleg Gajdukevič, ha munificamente e inaspettatamente offerto di inserire nella Costituzione i «valori ortodossi tradizionali della famiglia»: «fate le vostre proposte e noi le prenderemo in esame», ha detto.
Tuttavia, anche tra i credenti ci sono dei soggetti che non piacciono affatto al presidente – siano essi ortodossi o cattolici – perché non si accontentano di pregare in chiesa come vorrebbe lui, ma osano esprimere pubblicamente le loro critiche. Così, dopo il primate della Chiesa cattolica, monsignor Kondrusiewicz (al quale viene impedito di fare ritorno in patria) e il metropolita ortodosso Pavel (trasferito frettolosamente ad altra sede), sono entrati nella lista nera altri due esponenti religiosi: padre Sergij Lepin, addetto stampa della Chiesa ortodossa bielorussa, e monsignor Jurij Kosobuckij, vicario episcopale della diocesi cattolica di Minsk-Mogilev; nei loro confronti la Procura generale ha emesso un monito ufficiale dopo che i due prelati avevano deplorato il gesto della polizia che aveva distrutto il memoriale popolare a Roman Bondarenko.
In ogni caso, il paese ormai non ha più alcuna fiducia nel presidente qualsiasi cosa possa dire o promettere. La posizione dei dimostranti è stata chiara:
il tempo dei confronti ideologici e culturali tra sostenitori di posizioni tradizionali o laiche verrà a suo tempo, quando ci sarà un clima democratico di dialogo nel rispetto reciproco, e ogni fazione – religiosa, politica, nazionale – avrà la possibilità di esprimersi senza il timore di subire violenza. Oggi la società tutta unita è impegnata non a difendere interessi e privilegi di parte, ma ad ottenere trasparenza, elezioni regolari, fine delle violenze.
Dall’estero Tichanovskaja ha ribadito pubblicamente questa posizione; la sua idea è semplice quanto radicale:
non sosteniamo un pacchetto di valori e programmi politici, ma chiediamo regole del gioco giuste, chiare ed efficaci, il dialogo, l’uguaglianza e il rispetto dell’opinione altrui. Non siamo innanzitutto contro Lukašenko e la sua politica – ha proseguito – ma contro il sistema della menzogna totale, della manipolazione e della repressione.
E mentre sull’arena pubblica vengono affermati questi principi, il governo continua a inscenare un teatrino dell’«ordine costituito» talmente patetico da apparire un vero autogol: sul sito del Ministero degli Interni hanno pubblicato le foto degli OMON premiati per i «successi nel mantenimento dell’ordine pubblico» e una lettera collettiva degli atleti a sostegno di Lukašenko, ma nella foto dei premiati non si vedono i volti e nella lettera non compaiono le firme.
Resistenza partigiana
Terzo atto: com’è stato rilevato più volte, i cittadini bielorussi che protestano cambiano tattica di giorno in giorno, avendo capito da tempo che le «prove di forza» delle prime settimane sono controproducenti; per questo la resistenza ha preso via via forme diverse, che vanno dall’assistenza logistica al sostegno legale, dai flash mob alle manifestazioni di categoria e agli scioperi. Tutte forme che spiazzano le forze dell’ordine, costringendole a un carosello di interventi spesso inefficaci. Il che non toglie, naturalmente, che gli arresti ci siano e le brutalità pure; e non passano certo inosservate, ma impressionanti sono anche la creatività e la costanza con le quali si risponde e si supera la paura.
Uno dei primi servizi nati a lato delle manifestazioni è stata l’assistenza agli arrestati e alle loro famiglie; ci ha pensato un gruppo di volontari assieme al giovane sacerdote ortodosso Aleksandr Kuchta, che solo quattro giorni dopo le elezioni presidenziali, quando già erano iniziati gli arresti, hanno creato davanti alla prigione di via Okrestina (a Minsk) una postazione che offriva varie forme di sostegno:
1) aiutava i parenti degli arrestati a individuare dov’era internato il proprio caro (i primi giorni gli arrestati erano così numerosi che venivano spartiti in varie prigioni, anche in altre città);
2) pubblicava in internet gli elenchi degli arrestati che la polizia si limitava ad appendere fuori dalle prigioni;
3) aiutava i parenti ad avere notizie e a confezionare in modo corretto i pacchi, in modo che non contenessero niente di proibito e che questo non fornisse il pretesto per non consegnare i pacchi;
4) prestava soccorso ai prigionieri rilasciati (quasi sempre in piena notte) i quali erano spesso in stato confusionale e con pesanti ferite e fratture. Il primo soccorso era fornito da medici volontari che stazionavano su ambulanze in attesa fuori dalle prigioni.
Nel frattempo si affinava la tattica delle marce dei piccoli gruppi (da 500 a un massimo di 2000 persone) nei rioni periferici; ci sono stati anche una decina di questi eventi in contemporanea. Con questi flash mob si cerca di rendere la protesta sicura, mobile e imprevedibile. C’è poi chi si occupa di esporre ovunque i colori bianco-rosso-bianco della protesta: su balconi, cavi elettrici, alberi, edifici pubblici, negozi, cassette della posta. Strocev chiama tutto questo «arte della protesta», che ha un’anima intuitiva e vive del presente, del giorno o anche dell’attimo, e crea simboli in tutto ciò che fa: «Tutto ciò che non passa attraverso la cruna dell’ago della protesta rimane roba da museo».
Una forma di protesta particolare è quella dei medici, che sono testimoni diretti sia delle violenze della polizia, sia delle menzogne del governo sulla situazione Covid-19; sul loro canale social «Camici bianchi» pubblicano le cifre autentiche dell’epidemia in Bielorussia, e denunciano i casi di torture che constatano direttamente sui pazienti. I medici che più si sono esposti sono stati immediatamente denunciati e arrestati, e sono già in corso i processi. I loro colleghi ogni mattina prima di iniziare il lavoro formano una catena di solidarietà negli ospedali, in segno di protesta. Ora la polizia ha cominciato ad arrestare i medici direttamente in ospedale. La situazione si è fatta incandescente soprattutto dopo che il 19 novembre sono stati arrestati i due medici che hanno divulgato l’informazione «segreta» che nel sangue di Roman Bondarenko, accusato di ubriachezza e pestato a morte dalla polizia, non si è trovata traccia d’alcol, come invece avevano dichiarato le autorità. Per questo motivo i loro colleghi manifestano ogni mattina alzando dei cartelli con scritto 0‰ (la quantità di alcool trovata nel sangue della vittima).
La manifestazione dei medici (Tut.by).
Le conseguenze civili
In un paese dove tutto sembra bloccato e il regime vorrebbe esattamente congelare tutto, la società civile continua a dare segnali di vita e cambiamento.
Secondo Dmitrij Strocev «oggi è in corso un incredibile processo di alfabetizzazione» in una società abituata ad essere oggetto passivo dello Stato.
Ad esempio si vanno formando i comitati di sciopero in un paese dove lo sciopero non è mai esistito, e dove pertanto mancano persino i rudimenti di come si faccia a scioperare e anche solo di cosa sia un sindacato. Lo stesso nel campo della solidarietà concreta: si diffondono i volontari che operano in tutti gli ospedali, i taxisti che portano gratis la gente che va alle prigioni…
Un capitolo a parte, del tutto inatteso e sorprendente, è costituito dalle forze dell’ordine; fra tutte quelle presenti in Bielorussia, le più numerose come organico sono quelle del Ministero degli Interni, che costituiscono la spina dorsale del regime. Secondo dati non ufficiali contano da sole almeno 130.000 uomini (su una popolazione di 9 milioni e mezzo; in Italia, invece, che pure ha una delle cifre più alte d’Europa, abbiamo in totale, tra tutte le forze di polizia, circa 300.000 agenti su 60 milioni di abitanti). L’eccezionalità dei fatti che stanno avvenendo ha scosso le coscienze anche tra i tutori dell’ordine, non tutti, evidentemente, sono sadici e violenti. Si è avviato così un processo di abbandono da parte degli agenti, che si è rafforzato col passare dei mesi.
Secondo dati non ufficiali si registrano numerose dimissioni volontarie dalle forze del Ministero degli Interni, del KGB e del Ministero della Protezione civile, ma anche dal Comitato Investigativo, dalla Procura, dalla magistratura, dalle forze armate. Già alla fine di agosto presso l’Ufficio quadri del Ministero degli Interni erano state depositate oltre 300 richieste di dimissioni; Igor’ Loban ha fornito i dati che riguardano i temibili OMON: solo a Minsk 16 dimissioni in agosto, 25 in settembre, oltre 30 in ottobre e altrettante in novembre. Ha anche aggiunto che tra gli OMON c’è fermento. A novembre il Commissariato centrale di polizia di Minsk registrava un deficit di quadri del 28,9%. Oltre a questo, gli stessi vertici delle forze dell’ordine hanno dato il via a una specie di purga interna, eliminando tutti gli agenti che hanno dato segni di simpatizzare con le proteste; soltanto all’interno del Comitato Investigativo ci sono stati 40 licenziati, e circa 700 nell’organico del Ministero degli Interni.
Gli abbandoni, è stato sottolineato, potrebbero essere ancora più massicci se non ci fossero alcuni fattori economici a frenarli: molti agenti hanno firmato dei contratti di lavoro che non si possono rescindere unilateralmente; altri hanno in corso dei mutui bancari; inoltre quasi nessuno ha una specializzazione professionale utilizzabile in campo civile e c’è lo spettro della disoccupazione, tanto più con l’economia in caduta libera. Proprio per questo sono nate negli ultimi tempi delle associazioni di soccorso e sostegno morale agli agenti licenziati come il «Fondo di solidarietà dei poliziotti», o il «Gruppo d’iniziativa degli ex agenti» By_pol che sulla sua pagina pubblica vari dati interessanti sulle repressioni. Per esempio che tra il 9 e il 26 agosto a Minsk sono state soccorse dalle ambulanze 1141 persone raccolte per strada o negli uffici di polizia con un vasto spettro di traumi: 64 con lesioni da scoppio, 45 con ferite da arma da fuoco, 9 con shock da taser, 9 con ferite da taglio, 203 con fratture di varia entità, tra cui 9 dell’arco mandibolare e della base del cranio, e 37 lesioni della colonna vertebrale. I volontari della Croce rossa hanno testimoniato anche dei danni psichici e delle crisi di panico di molti rilasciati.
Il 1° dicembre il Comitato di coordinamento presieduto dalla Tichanovskaja e By_pol hanno lanciato il progetto del «Registro unico dei crimini delle forze dell’ordine», una specie di memoria civile in previsione di un futuro processo ai responsabili. Tichanovskaja sta raccogliendo prove materiali da trasmettere alla Corte internazionale dell’Aia.
Intanto, molti paesi confinanti stanno dimostrando una solidarietà fattiva. Le sanzioni dell’EU sono arrivate al terzo pacchetto (ormai in dirittura d’arrivo), che contiene un lungo elenco di oltre cento persone e organizzazioni colpite dalle sanzioni (nel secondo pacchetto figuravano solo 15 nomi). I paesi baltici hanno pubblicato una lista di 156 funzionari bielorussi sottoposti a sanzione.
L’Università di Vilnius ha già accolto 90 studenti bielorussi espulsi dalle proprie università in patria; ad alcuni ha anche assicurato delle borse di studio. Per poterne accogliere ancora di più, la Fondazione dell’Università di Vilnius ha indetto una raccolta fondi nazionale.
Fine e inizio
E infine nascono spontanee delle riflessioni sull’esperienza bielorussa di questi mesi. Un intellettuale russo, Oleg Glagolev, ha offerto un contributo a metà fra la riflessione e l’accorata speranza: «Noi tutti dell’ex spazio comunista ci riflettiamo nei fatti bielorussi come in uno specchio… Ma è uno specchio fatto in Unione Sovietica, deformante, cattivo, che sminuisce e umilia tutto. Il regime, in modo prettamente sovietico, si permette di picchiare e uccidere, di togliere la libertà, attentare alla dignità, umiliare e umiliarsi…
Gli eventi in Bielorussia sono l’agonia del regime sovietico; l’ultima fase – spero – di questo regime umiliante che è qualcosa di più di un potere politico, infatti è entrato fin nelle viscere dei popoli che appartenevano all’URSS. Proprio per questo non ce ne si può liberare per via politica. È contro natura e anti umano, e per questo sparisce quando si risveglia l’umano in noi».
L’auspicio di Glagolev, è stato fatto notare, non sarà un’ingenua speranza se i bielorussi continueranno nella non violenza. Proprio in questo senso padre Aleksandr Kuchta ha lanciato in rete una raccomandazione accorata, rivolta a tutti: «Siamo uomini. È importante che ce lo ricordiamo, anche se intorno c’è guerra e distruzione. Chi viola questa legge si disumanizza in breve… Non penso che i violenti riusciranno a costruire qualcosa di buono, anche se vincessero. Non esiste un regime, uno Stato e, sospetto, neppure un popolo in nome del quale si possano giustificare delitti contro Dio e contro l’uomo. Talvolta è meglio morire in modo degno e giusto o sparire dalla faccia della terra piuttosto che consentire alle profferte del diavolo. Se non abbiamo la possibilità di ottenere una cosa con metodi degni, vuol dire che Dio non vuole che la otteniamo».
Marta Dell'Asta
Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».
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