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11 Dicembre 2024
Un patriota del nostro tempo
L’autobiografia di Naval’nyj uscita da Mondadori permette una volta di più di immedesimarsi nelle ragioni che hanno portato l’oppositore russo ad agire e a morire.
«La fede rende la vita più semplice. (…) Non è essenziale credere che qualche vecchio nel deserto un tempo abbia vissuto fino a ottocento anni, o che il mare si sia letteralmente diviso davanti a qualcuno. Ma siete discepoli della religione il cui fondatore si è sacrificato per gli altri, pagando un prezzo per i loro peccati? Credete nell’immortalità dell’anima e nel resto di quelle cose così amene? Se potete sinceramente rispondere di sì, che cosa c’è ancora da preoccuparsi? (…) Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani è perfettamente in grado di prendersi cura di sé. Il mio compito è cercare il Regno di Dio e la sua giustizia, e lasciare che il buon vecchio Gesù e la sua famiglia si occupino del resto. Loro non mi abbandoneranno e risolveranno tutti i miei grattacapi. Come si dice qui in prigione: “Si prenderanno i pugni al posto mio”».
Un testamento spirituale
Quelle che avete appena letto sono le ultimissime parole (p. 501) dell’autobiografia di Aleksej Naval’nyj, Patriot. La mia storia (Mondadori, Milano 2024). Forse iniziare a parlare di un libro cominciando dalla fine potrà sembrare strano, eppure in questo caso ha un significato essenziale partire così: partire dalla fede di Naval’nyj, una fede chiara, esplicitamente confessata e messa a coronamento di un testo che, mentre veniva steso, diventava, riga dopo riga, un testamento definitivo, scritto oltre tutto non in un luogo confortevole e sicuro, ma in una prigione che era, ogni giorno di più, una cella della morte, dove ogni gesto aveva il peso dell’universo.
Mai come in questo caso le ultime parole danno il senso di tutta una vita, più di ogni altra riflessione o ragionamento: non che la fede così professata esima dal percorso della ragione e dalle sue argomentazioni, o, in questo caso, dalla lettura e dal giudizio di tutto il libro, ma può dare la chiave con la quale affrontare la lettura stessa. Quando avevamo pubblicato Io non ho paura, non abbiatene neanche voi, avevamo voluto documentare tra l’altro proprio la presenza di questa fede potente, e non pochi avevano contestato questa scelta: «Volete farne un santo?», aveva chiesto qualcuno; «A quando l’inizio della causa di beatificazione?», aveva meschinamente ironizzato qualcun altro.
Adesso, dopo aver letto questa pagina finale, non c’è più bisogno di rispondere o replicare: basta leggere e rileggere, e queste righe offrono le ragioni – la fede – per cercare di entrare nel significato, nel fondamento ragionevole, di quello che oggi sembra non avere ragioni, di una storia reale, quella di Aleksej Naval’nyj, che si è conclusa con un sacrificio di cui non si vorrebbe sentir parlare per evitare di doverne sentire la responsabilità: non solo la responsabilità per quello che è accaduto (forse avremmo davvero potuto fare di più per difendere un uomo), ma soprattutto la responsabilità per quello che potremmo ancora fare, di altre vite e della nostra stessa vita.
La persona: un valore assoluto
Queste pagine ci dicono che, ben prima di ogni considerazione politica, economica o strategica, la persona ha un valore assoluto, perché niente di meno che l’assoluto ci viene testimoniato da chi dice che il suo compito è «cercare il Regno di Dio e la sua giustizia», niente di meno che l’assoluto ci viene testimoniato da chi per affermare questo valore è arrivato a rischiare la vita fino a perderla: non si tratta di aggiungere un voto al «partito del sangue altrui», come è stato sbrigativamente definito chi parla del valore della resistenza al male, alla violenza e alla guerra; non si tratta di invitare a un’azione piuttosto che a un’altra, né di fare memoria di virtù confinate nel passato, ma di raccontare, e poi ricordare, una storia di questi giorni, nella quale ciascuno di noi può trovare un senso per sé e per la propria vita «senza speranza», anche quando si crede perduto o impotente di fronte a un potere che pretende di essere lui l’assoluto o che (nel nostro caso di occidentali ancora più o meno liberi) ci lascia preda di un cinismo e di un vuoto senza via di uscita.
Dall’inizio alla fine, invece, ripercorrendo i momenti salienti della biografia di Naval’nyj,
questo libro ci documenta non solo che la persona ha un valore assoluto, ma che bisogna avere fede in questo valore;
anche questo è un passo di fede, certo, ma proprio così si spiega perché stando in carcere, mentre attende una condanna sicura, Naval’nyj si rivolge ai propri giudici, carcerieri e aguzzini invitandoli a non abbassare «lo sguardo sul tavolo» (p. 255) e a non tollerare più la menzogna sulla quale si regge il regime e della quale loro stessi sono complici: bisogna avere una grande fede nell’uomo e nella sua capacità di rinascita e di giudizio per credere che anche chi occupa la posizione più compromessa e succube al potere possa a un certo punto essere scosso dalla considerazione che «la vita è troppo breve per tenere gli occhi bassi» e che prima o poi arriverà per tutti il momento in cui «ci renderemo conto che nulla di quanto abbiamo fatto ha avuto un senso, quindi perché tenere lo sguardo basso sul tavolo e non dire una parola? Gli unici momenti della vita che contano sono quelli in cui facciamo la cosa giusta, quando non abbassiamo lo sguardo ma alziamo la testa e ci guardiamo negli occhi. Nient’altro conta» (p. 257).
E allora, quando più niente conta se non la giustizia, possiamo e dobbiamo fare «solo quello che riteniamo giusto» (p. 149). Sembra una pretesa impossibile o irragionevole, eppure anche questo passo è documentato dalla storia e dall’esperienza; per compierlo bisogna aver perso tutto, o volere tutto: non avere più nulla che il regime ci possa togliere e col quale ci possa ricattare, o avere un’attesa così grande che nessuno possa fermarci nel cammino che ogni giorno si deve fare per conquistare ciò che non ha limiti: non bisogna volere soltanto la giustizia, ma bisogna addirittura «pretendere» la felicità. Naval’nyj testimonia costantemente entrambi gli atteggiamenti ed entrambe le «pretese»: perde tutto (avvelenamento, arresti, condanne ripetute e sempre più pesanti) e vuole tutto, addirittura la felicità.
La ricerca della giustizia
Innanzitutto, Naval’nyj vuole la giustizia e la vuole in tutte le sue accezioni: quello che chiede è qualcosa di più del puro rispetto delle forme, in quanto sa perfettamente che perché una cosa sia giusta non basta che sia legalmente irreprensibile; e sa anche che cercare la giustizia significa superare radicalmente l’idea che il fine giustifichi i mezzi. Una continua e approfondita riflessione sulla storia recente lo porta a rimettere decisamente in discussione i passi con i quali la Russia rinascente dopo la fine dell’Unione Sovietica ha pensato di potersi lasciare alle spalle i suoi mali e ha cercato la giustizia credendo che si potesse difendere il bene con mezzi indegni, e che si potesse difendere la democrazia con mezzi non democratici.
Così, ricordando i vari momenti e i diversi protagonisti che hanno segnato questi anni, Naval’nyj rende onore a Gorbačëv, «se non altro perché si è dimostrato del tutto incorruttibile. In questo era unico. Chiunque abbia avuto potere nel periodo di transizione dal socialismo al capitalismo ha cercato di accaparrarsi una fetta di torta, la più grande possibile, e quasi tutti ci sono riusciti. (…) Quando Gorbačëv diede le dimissioni, non portò niente con sé, anche se aveva avuto enormi opportunità per diventare ricco» (p. 63); e comunque sia, continua il riconoscimento di Naval’nyj per il ruolo che Gorbačëv ebbe nel crollo dell’Unione Sovietica, se non fosse stato per lui, «quel traballante edificio sarebbe ancora in piedi a opprimere i suoi residenti» (p. 64).
Nulla si salva invece del periodo successivo, e non tanto per la corruzione dalla quale fu segnata l’epoca di El’cin, ma proprio perché in quel periodo venne accreditata l’idea che per difendere la democrazia se ne potessero violare le forme, teorizzando poi la correttezza di un simile modo di agire: «Dalla nostra storia possiamo immaginare quanto grande possa essere la tentazione di ignorare le trasgressioni, prima le piccole poi le più gravi, commesse da chiunque sosteniamo. Qualcuno potrebbe dire che il nuovo leader dà voce ai nostri interessi, alla nostra visione politica. E, per esempio, potrebbe ricorrere a un briciolo di trasgressione, corruzione e manipolazione per evitare che i populisti salgano al potere. Magari sfrutterà il canale televisivo nazionale. E allora? In fondo dice le cose come stanno, è il nostro uomo, e si libererà delle persone solo se queste lo obbligheranno a farlo» (p. 134).
Come si è visto, in seguito il «briciolo» divenne una valanga e fu proprio per contrastare questa valanga che in Naval’nyj rinacque l’unica cosa che aveva perso nei tumultuosi anni Novanta: l’interesse per la politica che, come precisa lui stesso, paradossalmente, «mi fu restituito da Vladimir Putin» (p. 139).
Gli scopi e i passi della politica
Come la ricerca della giustizia doveva essere a tutto campo, così il lavoro politico non poteva limitarsi al piccolo cabotaggio, ma doveva avere ambizioni alte e, precisa Naval’nyj, «per quanto possa sembrare stucchevole, volevo davvero che i miei sforzi rendessero il mondo un posto migliore» (p. 194).
Patriot ci racconta allora le mosse principali di un’attività politica che a molti potrà sembrare ingenua o infeconda, ma toccò comunque gli elementi nevralgici del sistema al punto che da un certo momento in avanti Naval’nyj divenne una sorta di spauracchio per Putin e per i suoi «scagnozzi (…). Mi avrebbero seguito su e giù per il paese per tre anni, spiandomi e aspettando l’ordine di farmi fuori» (p. 270), cosa che in effetti avvenne proprio letteralmente, come ben sappiamo.
Fu una lotta senza quartiere, durante la quale i colpi vennero portati non solo contro Naval’nyj, ma contro tutti i suoi collaboratori e persino contro amici e familiari, con un accanimento che diventava tanto più feroce quanto più diventava evidente la caratteristica della lotta di Naval’nyj che, come ai tempi del grande dissenso degli anni Sessanta-Ottanta, non lottava contro qualcosa ma, innanzitutto, per qualcosa; come dice molto lucidamente lo stesso Naval’nyj, era chiaro che la lotta contro l’Unione Sovietica era stata, anche, «una battaglia contro un “partito” ripugnante (…).
Ancor più importante, però, era che protestare contro l’URSS significava lottare in favore di qualcosa di positivo» (p. 88); per dirla brevemente, significava lottare per il diritto alla vita.
Ed è allora la lotta per il diritto alla vita che ci chiarisce perché Naval’nyj si sia occupato di certe questioni piuttosto che di altre: in un paese di antica civiltà, uscito senza colpo ferire dalla lotta contro l’illegalità e la violenza del sistema sovietico, una delle cose che Naval’nyj fece costantemente fu la denuncia della nuova violenza e della sua sistematicità, perché, come diceva lui stesso «non c’era alcun “eccesso all’interno del servizio carcerario”, ma una sistematica tortura organizzata dall’alto» (p. 458). Poi ci fu la lotta contro tutto ciò che permetteva di raggiungere e mantenere un potere che si nutriva di quella violenza e la alimentava per mantenersi saldo: i brogli e la corruzione di un partito di ladri e truffatori (p. 231), la censura che permetteva di coprire tutto (pp. 205, 485, ecc.).
Il libro ci permette poi di ricordare altri aspetti della lotta di Naval’nyj, come l’uso sapiente dei social (pp. 208, 266-267, ecc.) e l’altrettanto acuta invenzione di nuovi metodi di opposizione, come il cosiddetto «voto intelligente»: votare per qualsiasi candidato dell’opposizione, anche lontano dai propri punti di vista, pur di non far vincere Putin; cosa che sarà stata ingenua e poco professionale fin che si vuole, ma che allora, effettivamente, non fece vincere Putin, o per lo meno non lo fece vincere con le stesse proporzioni oceaniche di sempre: pensato nel 2018, messo alla prova nelle elezioni della Duma di Mosca del 2019, il «voto intelligente» fece sì che «il numero di deputati del partito di Putin scese da una quarantina a venticinque».
Poca cosa si dirà, oltre che ingenua; in realtà, al di là del risultato numerico (tutt’altro che secondario), il significato di questo voto risulta chiaro, perché, per un verso mostra come un’opposizione al regime ci sia sempre stata e allora Naval’nyj va preso sul serio quando dice che non si può confondere il paese e la sua gente con lo Stato (p. 54); e per un altro verso mostra quanto sia degna di attenzione una riflessione che Naval’nyj fa nella stessa pagina circa «la crescente crudeltà della repressione. Nel 2017, infatti, potevi farti quindici giorni per aver manifestato in piazza; nel 2018, i giorni erano saliti a trenta; all’inizio del 2019, però, rischiavi anni di carcere» (p. 288): riflessione che davvero rende evidente come «il più grosso errore degli occidentali sia di mettere sullo stesso piano lo Stato e la gente russa» (p. 294).
La passione per la verità
Alla denuncia del malgoverno e dell’illegittimità del sistema, documentata con l’attività della Fondazione contro la Corruzione (pp. 228 ss.), va poi aggiunto un altro tema ricorrente, che è al vero cuore di tutto: con Naval’nyj, la persona torna a essere protagonista, da una parte con la sua dignità irriducibile e i suoi diritti, e dall’altra con la sua responsabilità, che la chiama, appunto, a riaffermare la propria dignità e a trovare i modi per difendere i propri diritti.
Ma poi, ancora più a fondo, con Naval’nyj, rinasce anche la passione per ciò che rende possibile questo percorso non facile: la passione per la verità.
Non è un caso che, insieme alla fede dichiarata nell’ultima pagina, questa passione attraversi tutto il libro: sin dall’inizio c’è l’opposizione a Putin, ma l’opposizione più autentica ed efficace, si diceva, è sempre per un positivo.
Naval’nyj scopre da subito «di non poter credere a una sola parola pronunciata da Putin» (p. 191), al punto di dover anzi riconoscere che, il fondamento del regime è una menzogna che «copre la Russia come scabbia» (p. 38); l’opposizione, così, non può che essere una lotta per la verità, la lotta contro una menzogna che non è più e non è mai stata soltanto episodica, ma è sempre stata fondamentalmente istituzionale: una massa di «bugie [che] sono diventate l’intero modus operandi dello Stato, ne sono diventate l’essenza stessa» (p. 256).
La radicale inimicizia del regime e di Putin nei confronti di Naval’nyj, come dice ripetutamente lui stesso, dipende proprio da questo diverso collocamento essenziale: «Se questa banda di corrotti, traditori e usurpatori del Cremlino non gradisce quello che faccio (facciamo), dobbiamo essere sulla buona strada» (p. 487).
E questa constatazione determina anche l’indirizzo di un’azione e le sue caratteristiche:
«dobbiamo fare quello che temono: dire la verità, diffondere la verità, è l’arma più potente contro questo regime di bugiardi, ladri e ipocriti. Tutti avete quest’arma. Dunque, fatene uso»
(p. 483). Se si vuole veramente la giustizia, ripete costantemente Naval’nyj, occorre cercare la verità: «Io non posso credere che la gente entri alla facoltà di legge e diventi pubblico ministero per partecipare a processi fasulli e falsificare firme» (p. 351).
E questo, ovviamente, non riguarda soltanto chi si occupa di processi o di ordine pubblico, ma coinvolge ogni singola persona perché la menzogna venga fermata sul nascere; l’alternativa è la sua crescita inarrestabile fino a creare «un’opinione pubblica che non si limita più a permettere a Putin di commettere crimini di guerra, ma li pretende» (p. 454). E dopo la crescita della menzogna a dimensioni inimmaginabili, verrà allora la sua diffusione universale, quando la pace verrà scambiata con l’essere lasciati in pace e l’uomo diventerà definitivamente «un blocco inerte di molecole assemblate a caso che va ovunque lo sbatta l’universo» (p. 352).
La ricerca della felicità
Ma come si diceva all’inizio, anche se la giustizia è importante e persino essenziale, essa non basta ancora nella prospettiva via via riscoperta da Naval’nyj: se non ci si vuole limitare a una lotta puramente difensiva e se la vita deve avere un senso per il quale valga la pena vivere e lottare, occorre la felicità; quindi, precisa lo stesso Naval’nyj, «la mia proposta è quella di cambiare il nostro slogan e di dire che la Russia non deve solo essere libera, ma deve anche essere felice» (p. 353).
Anche qui, come in tutto il resto, l’alternativa non è un piccolo cabotaggio, dove per vivere un «pochino» in pace si accetta un «pochino» di menzogna e si vive «a responsabilità limitata»; o, per lo meno, una via simile può anche essere sperimentata, si può anche restare inattivi di fronte al male e all’ingiustizia, ma allora il ricatto del sistema diventa insuperabile e, accanto alla menzogna, entra in campo l’altro grande strumento del potere: la paura; e la schiavitù e il non senso diventano il destino quasi definitivo di chi non si può appigliare neppure a un brandello di verità e di realtà. Non per niente i rappresentanti del regime «non temono le persone oneste, ma quelle che non hanno paura di loro. Anzi, voglio essere più preciso: quelle che potrebbero avere paura, ma la superano» (p. 445).
È un percorso non facile quello che si presenta a chi fa una simile scelta, eppure, per individuarlo e intraprenderlo non servono doti eccezionali né bisogna spiegarlo o motivarlo con discorsi macchinosi: può essere colto da chiunque nel modo più banale: «Quando Zachar [il figlio di Naval’nyj] era alle elementari le maestre chiesero ai bambini cosa facessero i loro genitori. Le risposte sono state, per esempio, “il mio papà fa il dottore” o “la mia mamma è una maestra”, ma Zachar ha detto: “mio padre sta combattendo contro i cattivi per il futuro del nostro paese”. Quello fu uno dei momenti più belli della mia vita, come se mi avessero dato una medaglia» (p. 293); come può aver sperimentato ogni genitore, momenti simili sono quelli di una felicità indicibile.
Per non avere paura, o per superarla, non occorre dunque essere eroi o convincersi di dover combattere per grandi ideali: neppure la giustizia o la verità sono ideali di questo tipo, o meglio, sono soltanto un altro nome di questa esperienza di padre, non molto diversa da quella che Naval’nyj ebbe nel 2001, quando nacque la primogenita: «Come chiunque fosse cresciuto in Unione Sovietica, non avevo mai creduto in Dio, ma guardando Daša e osservandola crescere non riuscivo a fare pace con il pensiero che fosse solo una questione di biologia. Questo non toglieva niente al fatto che ero e resto un grande sostenitore della scienza, ma in quel momento capii che, da sola, l’evoluzione non era sufficiente. Doveva esserci di più. Da ateo irriducibile, diventai gradualmente una persona religiosa» (p. 196).
E allora, gradualmente, nella scoperta di questo assoluto che non era più un principio astratto, ma una persona reale – quella dei figli, della moglie, degli amici e, in ultima analisi, per il credente, quella di Cristo – nulla poté più fare paura a Naval’nyj, neppure quando venne a trovarsi davanti al male più grande e apparentemente vittorioso, perché, come disse durante la sua ultima Pasqua, «verrà il giorno in cui il male sarà sconfitto e gli uomini di nuovo gli diranno ridendo: “E allora morte, dov’è il tuo pungiglione; inferno, dov’è la tua vittoria?”».
Anche la cosa più terribile poteva essere affrontata addirittura ridendo, e persino là dove tutto era perduto si poteva trovare quella felicità incredibile che è il rapporto con una persona, come abbiamo appena sentito a proposito dei figli, e come risulta da uno degli ultimi colloqui che Naval’nyj, ormai definitivamente in prigione, ha con la moglie: una persona, la persona che ti accompagna fino alla fine, dappertutto: «Le ho sussurrato all’orecchio: “Senti, non voglio sembrare drammatico, ma penso ci sia un’alta probabilità che da qui non uscirò mai. Anche se tutto cominciasse a crollare, mi farebbero fuori al primo segnale che il regime si sta sgretolando. Mi avvelenerebbero”. “Lo so” ha detto lei con un cenno di assenso e una voce calma e ferma. “È quello che ho pensato anch’io”. In quel momento ho avuto una tale voglia di prenderla tra le braccia e stringerla con gioia, più forte che potevo. Era meraviglioso! Niente lacrime! (…) Lei era mortalmente seria. Mi ha guardato sbattendo quelle lunghe ciglia, e a quel punto l’ho stretta tra le braccia, felice» (pp. 499-500).
Nessun melodramma. Nessuna retorica del sacrificio là dove ciò di cui parliamo non è la sceneggiatura di un film, ma la cronaca di una morte reale, la pura testimonianza di un’esperienza che si può soltanto condividere, sulla quale si può solo riflettere e dalla quale non si deve mai finire di lasciarsi interrogare.
(Foto di apertura: V. Dokšin, Novaja gazeta)
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
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