
2 Ottobre 2025
Il problema nazionale: la voce profetica di Solov’ëv
Quasi 150 anni fa la voce dissonante di Solov’ëv si alzava per richiamare l’attenzione sul problema nazionale. La limpidezza del suo pensiero può essere guida e ispirazione anche oggi.
Iniziamo a riproporre in prima traduzione italiana un testo fondamentale – e quanto mai attuale – del grande filosofo Vladimir Solov’ev. Il «problema nazionale», allora come oggi, è chiave di lettura della storia e della cronaca politica. Questo testo venne pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1883. Alla sua uscita, il capitolo qui presentato aveva un’apertura diversa, anch’essa pregnante: «la grande controversia dell’Oriente e dell’Occidente attraversa tutta la vita dell’umanità. (…) Nata prima del cristianesimo, interrotta per un certo tempo dalla nuova religione, e poi nuovamente ripresa dalla politica anti-cristiana in seno allo stesso mondo cristiano, questa sciagurata controversia può e deve essere definitivamente superata da una politica autenticamente cristiana», e Solov’ev la supera trascendendo radicalmente il piano puramente politico, per andare all’essenziale: il cuore della vita.
I PARTE
La completa separazione tra morale e politica è uno degli errori e dei mali prevalenti della nostra epoca. Dal punto di vista cristiano e all’interno del mondo cristiano, questi due ambiti, quello morale e quello politico, pur non potendo coincidere, devono essere intimamente connessi tra loro.
Come la morale cristiana aspira alla realizzazione del regno di Dio all’interno di ogni singolo uomo, così la politica cristiana deve preparare l’avvento del regno di Dio per tutta l’umanità nel suo insieme, composta da grandi parti: popoli, etnie e Stati.
Le vicende politiche passate e presenti dei popoli che hanno agito e agiscono nella storia hanno ben poco in comune con questo scopo, e nella maggior parte dei casi lo contraddicono direttamente: è un fatto innegabile. La politica dei popoli cristiani è sino a oggi dominata da ostilità e divisioni empie, e il regno di Dio sembra non avere qui spazio alcuno. Per molti questo è sufficiente: siccome è così, ne consegue anche che così dev’essere. Tuttavia, non ci si può adattare fino in fondo a una simile adorazione dei fatti, perché allora si dovrebbe adorare la peste e il colera, che sono anch’essi dei fatti. Tutta la dignità dell’uomo sta nel fatto che combatte consapevolmente contro gli aspetti negativi della realtà per raggiungere uno scopo migliore. Il dominio della malattia è un fatto, ma lo scopo è la salute; e da questo fatto negativo a un fine migliore c’è un passaggio e uno strumento per attraversarlo, e questo strumento si chiama medicina.
Ora, anche nella vita quotidiana degli uomini il regno del male e della divisione è un dato di fatto, ma la meta è il regno di Dio, e il percorso che porta a questa meta passando attraverso tutta la negatività del reale si chiama politica cristiana. 1

Edward Lear, Though (wikimedia).
Secondo un’opinione universalmente diffusa, ogni popolo deve avere una politica propria, il cui scopo è perseguire gli interessi esclusivi di quel singolo popolo o Stato. Ultimamente sempre più forti risuonano da noi voci patriottiche che ci chiedono di stare al passo, da questo punto di vista, con gli altri popoli e di lasciarci guidare in politica solo dai nostri interessi nazionali e statali, mentre ogni deviazione da questa “politica dell’interesse” viene dichiarata o una stupidaggine o un tradimento. Forse, in questo modo di vedere c’è un equivoco che viene dall’ambiguità della parola “interesse”: tutto dipende in effetti da quali siano gli interessi di cui si parla. Se, come si fa di solito, si pone l’interesse del popolo nella sua ricchezza e nella sua potenza esteriore, allora deve essere chiaro che, nonostante tutta l’evidente importanza per noi di questi interessi, essi non dovrebbero costituire lo scopo più alto e finale della politica, perché altrimenti ogni tipo di barbarie potrebbe essere giustificata in loro nome, come in effetti vediamo accadere. I nostri patrioti, invece, hanno sfrontatamente indicato gli atti di barbarie politica di cui si è macchiata l’Inghilterra come un esempio degno di emulazione. In effetti si tratta di un esempio ben scelto: perché nessuno quanto gli inglesi si preoccupa, tanto a parole che nei fatti, dei propri interessi nazionali e statali.
Sappiamo tutti, infatti, che per questi interessi i ricchi e potenti inglesi fanno morire di fame gli irlandesi, schiacciano gli indù, avvelenano i cinesi con l’oppio e saccheggiano l’Egitto 2. E non c’è alcun dubbio che tutti questi atti sono ispirati dalla preoccupazione per gli interessi nazionali. Qui non si tratta né di stupidità né di tradimenti, c’è solo una grande mancanza di umanità e di pudore. Se fosse possibile solo un patriottismo di questo tipo, non dovremmo neppur lontanamente imitare la politica inglese: meglio rinunciare al patriottismo che alla coscienza. Ma un’alternativa simile non si dà.
Osiamo pensare che il vero patriottismo vada d’accordo con la coscienza cristiana, cioè che esista una politica diversa da quella dell’interesse, o, per meglio dire, che ci siano altri interessi per un popolo cristiano, interessi che non richiedono, anzi non permettono affatto il cannibalismo internazionale.
Che questo cannibalismo internazionale sia qualcosa di indegno, lo percepiscono anche coloro che maggiormente ne godono. La politica dell’interesse materiale si presenta raramente nella sua forma più pura. Anche gli inglesi, pur spremendo compiaciuti il sangue delle «razze inferiori» e ritenendo di avere il diritto di farlo semplicemente perché loro, gli inglesi, ne traggono vantaggio, spesso si preoccupano di far credere che in questo modo farebbero un grande favore alle stesse razze inferiori portandole a un livello di civiltà superiore; il che, fino a un certo punto, è anche vero. E qui, allora, la volgare aspirazione al proprio tornaconto si trasforma nel pensiero sublime della propria vocazione culturale. Questo motivo ideale, che è ancora molto debole negli inglesi che si incontrano nella vita di tutti i giorni e che sono sensibili allo spirito pratico, si rivela in tutta la sua forza nel “popolo dei pensatori”.
L’idealismo tedesco e la tendenza alle generalizzazioni ispirate rendono impossibile per i tedeschi il rozzo cannibalismo empirico della politica inglese. Se i tedeschi si sono divorati i Venedi, i prussiani, e stanno per divorarsi i polacchi, non è perché questo li avvantaggi, ma perché è la loro «vocazione» di razza superiore: germanizzare i popoli inferiori per elevarli alla vera cultura. Lo sfruttamento inglese è una questione di guadagni materiali; la germanizzazione è una vocazione spirituale. Un inglese sta davanti alle proprie vittime come un pirata; un tedesco si presenta come un pedagogo, che le educa in vista di un’istruzione superiore. La superiorità filosofica dei tedeschi si vede anche nel loro cannibalismo politico: la loro insaziabilità divoratrice non si indirizza soltanto verso i beni esteriori dei vari popoli, ma anche verso la loro essenza più profonda. L’inglese, uomo dell’empiria, si occupa di fatti; il pensatore tedesco si occupa di idee: l’uno deruba e sottomette i popoli, l’altro li distrugge nella loro stessa identità nazionale.

Edward Lear, Wadi Halfa Sudan (wikimedia).
Il grande valore della cultura tedesca è innegabile. E tuttavia il principio di una vocazione culturale superiore è un principio crudele e non conforme alla verità. La sua crudeltà è chiaramente evidenziata dalle tristi ombre dei popoli che sono stati ridotti in una vera e propria schiavitù spirituale e hanno perso le loro forze vitali. Mentre la falsità di questo principio, la sua intrinseca inconsistenza, è resa chiaramente evidente dal fatto che una sua applicazione coerente è del tutto impossibile. Per l’indeterminatezza di ciò che si deve intendere propriamente con il concetto di cultura superiore e di quello che si dovrebbe intendere per missione culturale, non c’è popolo storico che non rivendichi per sé questa missione e che, in nome della sua vocazione più alta, non si consideri autorizzato a sottomettere con la violenza gli altri popoli. Non sono soltanto i tedeschi a considerarsi il popolo dei popoli, lo pensano anche gli ebrei, i francesi, gli inglesi, i greci, gli italiani, ecc. Ma il fatto che un popolo abbia la pretesa di occupare una posizione privilegiata nell’umanità esclude che la stessa pretesa possa essere avanzata da un altro popolo. Pertanto, o tutte queste rivendicazioni devono rimanere una vuota millanteria, adatta solo come copertura per l’oppressione dei vicini più deboli, oppure deve nascere una lotta all’ultimo sangue tra grandi popoli per il diritto alla violenza culturale.
Ma l’esito di una simile lotta non dimostrerà mai in maniera effettiva il carattere superiore della vocazione del vincitore; la superiorità della forza militare non è, infatti, un indice di superiorità culturale: tale superiorità è stata dimostrata dalle orde di Tamerlano e di Batu 3, e se mai in futuro tale superiorità dovesse essere riconosciuta ai cinesi, grazie ai loro grandi numeri, nessuno comunque si inchinerà di fronte alla superiorità culturale della razza mongola.
L’idea di una vocazione culturale può avere un senso e dare frutti solo se questa vocazione viene accettata non come un presunto privilegio ma come un dovere effettivo, non come una forma di dominio ma di servizio.
Ogni persona singola ha interessi materiali e interessi egoistici, ma ci sono anche doveri o, ciò che è lo stesso, interessi morali e la persona che ignora questi ultimi e agisce solo per profitto o amor proprio merita ogni riprovazione. Lo stesso vale anche per i popoli. E anche se si considera il popolo solo come una somma di individui singoli, in questa somma non può comunque scomparire l’elemento morale presente in ogni membro dell’insieme. Come l’interesse comune dell’intero popolo costituisce la risultante di tutti gli interessi privati (e non la semplice ripetizione di ciascuno di essi separatamente preso) ed è in relazione con gli analoghi interessi collettivi di altri popoli, allo stesso modo si deve giudicare anche la moralità di un popolo. Non v’è ragione perché l’estensione di ciò che è personale a ciò che riguarda tutto il popolo venga limitata soltanto agli aspetti inferiori dell’uomo: se gli interessi materiali delle singole persone generano l’interesse comune di un popolo, allora anche gli interessi morali delle singole persone generano l’interesse morale comune di quel popolo, un interesse che non si riferisce insomma a unità singole ma al popolo preso nel suo insieme; il che significa che ogni popolo ha un dovere morale nei confronti degli altri popoli e di tutta l’umanità. Vedere in questo dovere comune una metafora e allo stesso tempo sostenere l’interesse nazionale comune come qualcosa di reale è una chiara contraddizione. Se il popolo è soltanto un concetto astratto, è evidente che un concetto astratto non può avere non solo dei doveri, ma neppure degli interessi e delle vocazioni. Ma questo è un errore evidente.
In ogni caso, dobbiamo ammettere che l’interesse di un popolo è la funzione comune dei suoi singoli elementi, ma questa stessa funzione è anche un dovere del popolo in quanto tale. Se il popolo ha un interesse, ha anche una coscienza. Ma se questa coscienza si manifesta debolmente in politica e frena fiaccamente le manifestazioni di egoismo nazionale, siamo di fronte a un fenomeno anormale, patologico, e ciascuno deve riconoscere che si tratta di qualcosa di inammissibile. Il cannibalismo internazionale è inammissibile, sia quando viene giustificato in nome di una vocazione superiore, sia quando non lo è; in politica è inammissibile il modo di vedere di quel selvaggio africano che, interrogato sul bene e sul male, rispondeva: il bene è quando porto via le greggi e le mogli dei vicini e il male è quando loro portano via le mie. Questo modo di vedere domina la politica internazionale, ma governa in larga misura anche le relazioni che caratterizzano la vita di uno stesso popolo: all’interno dello stesso popolo i concittadini quotidianamente si sfruttano, si imbrogliano e a volte si uccidono pure a vicenda, ma nessuno conclude per ciò stesso che è proprio così che dovrebbe essere; e allora perché una simile conclusione viene considerata valida quando la si applica all’alta politica?

Edward Lear, Near Wadi Halfeh (wikimedia).
Ma c’è anche un’altra incongruenza nella teoria dell’egoismo nazionale, un’incongruenza che è decisamente rovinosa per questa teoria. Una volta che venga riconosciuto e legittimato in politica il dominio del proprio interesse, solo in quanto proprio, diventa del tutto impossibile indicare i limiti di questo interesse; il patriota considera l’interesse del suo popolo come proprio in virtù della solidarietà nazionale, e questo, ovviamente, è molto meglio dell’egoismo personale, ma non si vede qui perché proprio la solidarietà nazionale dovrebbe essere più forte della solidarietà di qualsiasi altro gruppo sociale che non coincida con i limiti del proprio popolo. Durante la Rivoluzione francese, ad esempio, per i legittimisti emigrati, i governanti e i nobili stranieri si dimostrarono molto più vicini dei giacobini francesi; per il socialdemocratico tedesco, anche il comunardo di Parigi era molto più vicino di un proprietario terriero della Pomerania, ecc. ecc. Questo può essere molto negativo per quel che riguarda l’atteggiamento degli emigrati e dei socialisti, ma sul piano dell’interesse politico è assolutamente impossibile trovare motivi di condanna per la loro posizione.
Elevare il proprio interesse, la propria presunzione a principio supremo per il popolo, come per l’individuo, significa legittimare e perpetuare la discordia e la lotta che dilaniano l’umanità. Il fatto generale della lotta per l’esistenza, che attraversa tutta la natura, è presente anche nell’umanità naturale. Ma tutta la crescita storica, tutto il successo dell’umanità consiste in una coerente limitazione di questo fatto, nella graduale elevazione dell’uomo a un modello più elevato di verità e amore. La rivelazione di questo modello, di questo uomo nuovo, si è manifestata nella realtà vivente di Cristo. E non si addice a noi, che abbiamo accolto l’uomo nuovo, tornare di nuovo agli elementi deboli e fiacchi del mondo, alla divisione abolita sulla croce tra il greco e il barbaro, il gentile e l’ebreo.
In nome del patriottismo ci viene chiesto di mettere al di sopra di tutto l’interesse e l’importanza esclusivi del nostro popolo. Ma da questo patriottismo ci ha liberato il sangue di Cristo, versato dai patrioti ebrei in nome del loro interesse nazionale!
«Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in Lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione (…). Non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv 11, 48,50). Cristo, che è stato ucciso dal patriottismo di un popolo, è risorto per tutti i popoli e ha comandato ai suoi discepoli: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo» (Mt 28, 19).
Che cosa significa tutto questo, che il cristianesimo abolisce la nazionalità? No, anzi, la conserva. Non è la nazionalità a essere abolita, ma il nazionalismo. La feroce persecuzione e la messa a morte di Cristo non fu opera della nazione ebraica, di cui Cristo (secondo l’umanità) era la suprema fioritura, ma fu opera del gretto e cieco nazionalismo di patrioti come Caifa. E quanto detto sopra sulle politiche dei tedeschi e degli inglesi non serve in alcun modo a condannare queste nazionalità. Distinguiamo la nazionalità dal nazionalismo per i loro frutti. Vediamo i frutti della nazionalità inglese in Shakespeare e Byron, in Berkeley e in Newton; i frutti del nazionalismo inglese sono il saccheggio mondiale, le imprese di Warren Hastings e Lord Seymour 4, la distruzione e l’omicidio. I frutti della grande nazionalità tedesca sono Lessing e Goethe, Kant e Schelling, e i frutti del nazionalismo tedesco sono la violenta germanizzazione dei vicini dall’epoca dei Cavalieri Teutoni a oggi.
(Traduzione e cura di Adriano Dell’Asta)
1 – continua
(Immagine d’apertura: Edward Lear, Ibreem; wikimedia).
Vladimir Solov’ëv
Vladimir Solov’ëv (1853-1900) è uno dei filosofi russi più importanti di tutti i tempi. In lui sono già presenti, a livello di sistema, tutte le idee che saranno all’origine della rinascita spirituale russa dell’inizio del XX secolo. Tra le sue opere ricordiamo: La Russia e la Chiesa universale, La crisi della filosofia occidentale» e «Islam ed ebraismo».
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