Dialogo faccia a faccia con un volontario al fronte

16 Settembre 2025

Dialogo faccia a faccia con un volontario al fronte

Roman Marabjan

Al Meeting di Rimini abbiamo incontrato Roman Marabjan, medico di Kharkiv. L’amore per la sua patria adottiva l’ha portato a stare in prima linea per più di due anni. Il peso di questa esperienza lo ha stremato ma resta luminosa la fedeltà al bene della vita. Senza odio né disperazione. Nostra intervista.

Spesso in Occidente si pensa che essere nazionalisti (o patrioti) vada bene fino a un certo punto: è giusto difendere la propria patria, ma non se il prezzo da pagare è la vita. Perché, invece, secondo lei è stato giusto rischiarla, la vita? Lei non è nemmeno ucraino, è mezzo armeno e mezzo russo: perché ha deciso di andare a combattere per un paese che non è neanche il suo?
Vorrei rispondere subito a proposito del «nazionalismo» ucraino. Per me personalmente «nazionalismo» significa amare ciò che ti appartiene, amare il proprio paese, la propria casa, che gli ucraini hanno sempre faticato ad avere. Il nazionalismo ucraino è la storia del movimento di liberazione del popolo ucraino, un fenomeno di maturazione nazionale che nasce come autodifesa contro l’aggressione imperialista. Infatti, da sempre gli ucraini sono stati costretti a vagare: l’Impero russo li scacciava e loro si rifugiavano da qualche parte; poi l’Impero austro-ungarico iniziava a schiacciarli e loro di nuovo si nascondevano; poi fu il turno dell’Impero ottomano. È un popolo che non solo non ha mai avuto una casa, ma neanche una dimora stabile, nella quale vivere per secoli.

Nella nazione ucraina rimane una gestalt [forma] irrisolta: la creazione del proprio Stato indipendente. E l’impero russo non permette neanche oggi che questa gestalt si realizzi. La presa di coscienza della popolazione era cominciata già prima del Majdan [2014], da tempo le persone erano scese in piazza per denunciare la corruzione del governo e per chiedere di poter entrare a far parte dell’Europa.

Già da undici anni in Ucraina bolle questo calderone, all’interno del quale si sta formando una nuova nazione. Una nuova nazione che ha cominciato a capire dov’è la sua casa. Se prima si diceva che gli ucraini non sapevano chi fossero, che vagavano per l’Europa, per il mondo, e non capivano dove fosse la loro casa da difendere, adesso gli ucraini hanno capito: «Questa è la nostra casa».

Alcuni fanno passare l’idea che i nazionalisti siano coloro che commettono atti violenti, d’odio e persecuzione nei confronti delle minoranze. Ma questo non è nazionalismo, è terrorismo, e in Ucraina azioni di questo tipo non ci sono mai state, gli ucraini sono un popolo molto tollerante, ve lo dico io che sono armeno. La cartina tornasole è che a tutte le elezioni i politici di estrema destra hanno sempre ottenuto il 2-3% dei voti, non di più. Se in Ucraina ci fossero davvero fenomeni del genere, allora avrebbe avuto la reputazione di un Paese intollerante.

Dialogo faccia a faccia con un volontario al fronte

Roman Marabjan al Meeting di Rimini 2025.

Per scegliere se sottostare alla Russia o entrare a far parte dell’Europa serve spirito critico. Io mi definisco una persona semplice ma con pensiero critico e con i geni della libertà. Dal lato materno, nella mia famiglia ci sono sempre stati sacerdoti, contadini che lavoravano sulla propria terra, e anche dal lato armeno c’erano persone libere che combattevano contro l’Impero Ottomano e durante il genocidio non sono solo fuggite, ma resistevano ai turchi. Quindi, nei miei geni, la libertà c’è sempre stata, e non mi sono mai sentito uno schiavo, neppure vivendo in Unione Sovietica, quando ero pioniere e facevo parte dei giovani comunisti. Capivo comunque tutto…

Non sono ucraino di nascita ma mangio il pane ucraino, il boršč ucraino, guardo il cielo e il sole ucraino. E per questo dico che questa è la mia patria e io voglio che la mia patria faccia parte dell’Europa; che i nostri amici non siano la Corea del Nord, l’Iran, la Cina, ma gli italiani, gli spagnoli, i portoghesi, i tedeschi. Che i nostri amici siano quei cittadini russi che non vogliono vivere nell’impero, che hanno un pensiero critico: la classe media, l’intelligencija. Ma un’intelligencija che abbia spremuto fuori, goccia dopo goccia, lo spirito imperialista.

Ecco perché, quando hanno cominciato a cadere le bombe su Kharkiv alle quattro e mezza del mattino, alle sei e mezza ero già al lavoro e ho detto ai miei colleghi: «Io vado al centro di arruolamento». Ho compilato i documenti e chiesto alla mia amica Valja di dirigere il centro al mio posto. Perché finalmente avevamo capito: «La nostra casa è questa, questa è la terra promessa degli ucraini».

Lei è stato al fronte per più di due anni e immaginiamo che abbia visto di tutto. Non è mai stato tentato di provare sentimenti d’odio per i nemici?
Io ho un odio astratto verso il regime, non un odio concreto verso i singoli soldati russi. Li guardavo con disprezzo, perché capivo che erano persone venute per ucciderci, ma non con odio. Se fossero stati semplicemente dei soldati venuti perché l’Ucraina aveva fatto, poniamo, qualcosa di male, allora i soldati ucraini e quelli russi avrebbero chiarito le cose secondo le regole della guerra, ma noi capivamo fin dall’inizio che non si trattava di una guerra giusta. Perciò quei ragazzi mi suscitavano disprezzo. Per me l’odio è quando mi avvicino, prendo la baionetta e taglio la gola. Non ho mai avuto il desiderio di prendere un coltello e tagliare la gola a un prigioniero russo, assolutamente no, forse perché sono medico.

E la tentazione della disperazione? Cioè, l’orrore di pensare che non ci sia via d’uscita, che tutto continuerà all’infinito, che questa profonda ferita non potrà guarire… Non ha mai provato questa disperazione?
Direi così. Le persone che non credono nell’Ucraina, nel suo futuro, sono emigrate. Quelli che credono nell’Ucraina, ma non hanno abbastanza coraggio, si sono spostati nella parte occidentale del Paese. Quelli che credono nell’Ucraina e non si può dire che siano molto coraggiosi, ma ormai si sono abituati a vivere sotto i bombardamenti, credono nell’Ucraina, nelle sue Forze Armate e nel popolo ucraino.

Per me il mio Paese non è la forma istituzionale del presidente o quella di un primo ministro. Per me il mio Paese è la mia famiglia, i miei amici, la mia comunità, la mia città, i miei amici di altre regioni. Per me la patria è questa comunità di persone, non le istituzioni.

E quindi le persone che sono rimaste a Kharkiv, che sono rimaste in altre città vicine al fronte, che non sono fuggite e lavorano, che aiutano quelli al fronte, sono le persone che credono nell’Ucraina. Credono nell’Ucraina e capiscono che, anche se da 40 milioni che eravamo resteremo in 20 milioni, questo è sempre il nostro Paese e noi lo difenderemo. Forse perderemo una parte del territorio per 100 anni, o per 50, per 10, non lo sappiamo.

Il nostro compito è anche un po’ piangere, addolorarci, dire «la Crimea non è nostra, il Donbass non è nostro». Ma abbiamo ancora una grande parte della casa che è nostra e in questa casa dobbiamo viverci, bisogna che ci vivano i bambini che vadano a scuola, che ci siano i medici, che ci sia cultura. Quando ci sarà un armistizio, anche temporaneo, noi vogliamo che la parte dell’Ucraina che rimarrà possa essere in grado di vivere e svilupparsi. Questo è il compito delle persone che credono nell’Ucraina.

Dialogo faccia a faccia con un volontario al fronte

Distruzione a Kharkiv dopo un bombardamento russo (ASTRA).

Solitamente i soldati che vanno a combattere, quando tornano a casa soffrono di stress post-traumatico acuto. A lei è capitato?
Io soffro di sindrome post-traumatica e burnout. Ma mi è successo dopo 20 anni di lavoro con bambini gravemente malati, terminali. Io sono andato in guerra già completamente esaurito, perché mi occupo di cure palliative, di assistenza in hospice dove ci sono i bambini più gravi di cui nessuno si vuole occupare, quindi io ero già bruciato prima. Nel nostro hospice abbiamo un cimitero per i bambini e una chiesa, li accompagniamo proprio fino alla fine. Quando sono andato in guerra avevo già pianto tutte le lacrime che potevo piangere.

Sono andato in guerra per svolgere una funzione, ho spento tutto, il cuore e la testa. Quando sono arrivato mi sono detto: metto a frutto la mia esperienza di medico. Se invece avessi lasciato acceso il pensiero critico, le emozioni, il cuore, il mio corpo non avrebbe retto. Ma quando capitavano situazioni davvero gravi, allora tiravo fuori la chiave e mi accendevo, facevo quello che dovevo. Poi subito mi spegnevo di nuovo e tornavo a essere una funzione. Questo è stato il mio vissuto personale, come mi sono comportato in guerra.

E ancora non ho pianto. Sono tornato già da un anno e non ho ancora pianto per i miei compagni morti. Non riesco a piangere, non riesco a premere un bottone, piangere due-tre giorni e lasciar uscire quello che ho dentro. Vorrei, ma non ci riesco. Sento che vorrei gridare per giorni, piangere e gridare, ma per ora non ci riesco. Aspetto il momento e il luogo in cui potrò liberare tutto questo.

Adesso vivo un po’ come un robot: vado al lavoro al centro pediatrico, faccio tutto in maniera meccanica. Vorrei trovare un po’ di tempo per me, per lasciar venire fuori anche solo parte di quello che ho vissuto. Ma non posso, perché sono tornato a Kharkiv e non ci sono più medici specialisti: il 70% di tutto il personale che avevo mandato a formarsi in America, in Italia, in Gran Bretagna, in Polonia è rimasto all’estero. Avevamo formato una squadra di fisioterapisti, di palliativisti, di riabilitatori, li abbiamo mandati a fare degli stage nei migliori ospedali, ma ora sono tutti emigrati e a Kharkiv ne sono rimasti pochissimi. Ma le mamme continuano a portare al nostro centro i loro bambini gravemente malati e ci dicono: «Aiutateci». Dato che gli specialisti sono tutti andati via, due giorni dopo il mio ritorno dalla guerra correvo già per Kharkiv cercando dei medici, per tentare di rimettere insieme il nostro centro pediatrico. Questa è la nostra situazione. Triste, non è vero?

Non è triste, è tragico e semplicemente difficile da immaginare. Perché da tre anni ormai sentiamo parlare di guerra, e finalmente vediamo una persona in carne e ossa che ha vissuto tutto questo sulla propria pelle, è come rivedere di nuovo tutto ciò che è accaduto. Perciò non è triste, è toccante. Noi ci siamo quasi abituati alla guerra e abbiamo bisogno di queste testimonianze vive. Ma in tutto questo, lei ha speranza?
Io ho speranza, sono ottimista. Per me non sarà una tragedia se perderemo il 20 o il 30% del territorio. Non sarà una tragedia neanche se in Ucraina resteranno 20 milioni di persone.

L’unica tragedia, l’unica delusione la posso provare per le mie azioni, per ciò che compio io. Non so quanto mi resta da vivere, ma desidero commettere meno errori. Capisco che io, come singolo uomo, non posso fare nulla per fermare questa guerra, ma posso fare qualcosa di utile nel mio piccolo, nel luogo in cui sono chiamato.

Non sono né abbattuto né pessimista, perché io penso che l’umanità comunque, prima o poi, si autodistruggerà. È solo questione di tempo. 

Ma questo non è ottimismo!
No, questo è realismo. L’ottimismo sta nel fatto che, finché siamo ancora su questo pianeta, bisogna restare persone semplici, buone, avere un pensiero critico e costruire. Qualcuno può fondare una grande impresa e qualcuno può creare un piccolo giardino con due alberi, anche quello è costruire. Dio ci dà la possibilità di costruire. Se capissi che l’umanità a un certo punto si estinguerà e che la vita di tutto il nostro pianeta finirà, poniamo, fra 100 anni, allora dovremmo tutti indossare abiti neri e prepararci alla morte? No. Finché Dio ci tiene su questa terra, dobbiamo innanzitutto chiederci: «Cosa vuole Dio da ciascuno di noi?». Vuole che ciascuno realizzi il proprio potenziale. E se lo realizzeremo, se doneremo noi stessi, se riusciremo a rimanere vivi e a costruire del bene intorno a noi, quando arriverà la fine avremo comunque percorso il nostro pezzo di strada con dignità e con amore.

In tutto questo, come ha reagito la sua famiglia quando ha deciso di andare in guerra?
Mia moglie mi ha detto: «Non ne ho dubitato neanche per un secondo». Lei vede per che cosa vivo e mi dice: «Tu vivi per gli altri». Mi ha accettato per quello che sono, non ha avuto obiezioni sul mio andare in guerra, non mi ha trattenuto per le braccia e per le gambe, non mi ha gridato di non andare, come facevano tante mogli che nascondevano i loro uomini. Lei invece diceva: «Tu non ti rispetteresti, lo so, e io non ti rispetterei se ti nascondessi sotto il letto mentre Kharkiv viene bombardata». 

Grazie per questo nostro dialogo. Come vedete tengo tutto dentro, ma con le vostre domande sincere ho potuto raccontarvi quello che mi è successo e in un certo senso ho avuto la possibilità di liberarmi un po’. Grazie.

Roman Marabjan

Roman Marabjan è direttore del Centro medico di cure palliative pediatriche “Hippocrates” di Kharkiv. Il giorno stesso dell’invasione russa dell’Ucraina ha deciso di arruolarsi ed è rimasto al fronte per più di due anni, diventando il Capo del Servizio Medico. Dopo essere stato congedato per superati limiti d’età, è tornato a dirigere il Centro pediatrico.

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