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2 Agosto 2024
Lo scambio di Naval’nyj
Un gruppo di prigionieri di coscienza russi è stato liberato ed espulso dal paese: motivo di grande sollievo per tutti. Senza dimenticare che molti altri restano dentro, e che il regime cerca di eliminare la parte migliore della Russia.
1° agosto 2024: credo che lo ricorderemo a lungo come il giorno del più grande scambio di prigionieri dopo la fine della guerra fredda; la sua eccezionalità è già evidente dalla quantità di immagini e di definizioni che cercano di coglierne l’essenza. Fra tutte ce n’è una che mi pare aver colto maggiormente nel segno: «lo scambio di Naval’nyj». Più di tutti, questo titolo, coglie il cuore di quanto è accaduto innanzitutto perché nasce da quel bisogno essenziale dell’uomo che è il ringraziamento di fronte a un evento positivo: la liberazione di un gruppo di persone ingiustamente detenute.
Grazie a quanti hanno lavorato in silenzio, e i cui nomi resteranno a lungo e forse per sempre sconosciuti. Grazie ai credenti che hanno pregato: sappiamo che, come era già successo ai tempi del dissenso, molti laici e molti monasteri hanno pregato a lungo per la liberazione dei prigionieri; e forse, non casualmente, ieri era la memoria di san Serafino di Sarov che, come ha ricordato un amico russo, da oggi potrebbe diventare il patrono dei detenuti politici e non la bandiera della nuova grandezza imperiale russa. Grazie, infine, ma non da ultimo, a chi, con la propria testimonianza e il proprio sacrificio ha aperto una strada: Naval’nyj poteva, doveva, essere protagonista di uno scambio come quello di ieri; per una volontà malvagia così non è accaduto, ma proprio per questo il suo nome va ricordato per primo: e ci aiuta a cogliere l’essenza della realtà.
Il primo elemento che non va dimenticato, allora, è che l’essenza del regime putiniano non è minimamente cambiata: mentre alcune persone vengono liberate, altre restano in prigione e vanno difese (la giovane Dar’ja Kozyreva che aveva messo dei fiori sotto la statua del poeta nazionale ucraino Taras Ševčenko; il consigliere comunale di Mosca Aleksej Gorinov che si era opposto all’idea di organizzare una festa per bambini mentre tanti loro coetanei morivano in Ucraina; il giornalista Roman Ivanov che non voleva portare rancore a nessuno di quelli che lo avevano condannato ma si dispiaceva di aver fatto credere che i russi non potessero fare il male che hanno fatto… e quanti altri); altre vengono arrestate e condannate e vanno tutelate (fra i tanti, Petr Opal’nik, della cui condanna è giunta notizia proprio ieri: per decisione del tribunale regionale di Novgorod, otto anni di colonia penale a regime comune, sotto l’accusa di «collaborazione confidenziale» con uno Stato straniero); oltre all’assenza di una giustizia degna di questo nome, restano i mezzi di informazione indipendenti chiusi o confinati all’estero; le istituzioni libere (come Memorial) restano fuori legge; una parte della società civile continua a essere terrorizzata; un paese libero continua a essere occupato, bombardato, minacciato di radicale cancellazione dalla storia, con uno dei siti patriottici di ispirazione «cristiana ortodossa» come Car’grad (Tsargrad) che nei giorni del bombardamento dell’ospedale pediatrico di Kiev diffondeva messaggi in cui sosteneva che «i nostri missili non uccidono persone. Non ci sono persone là […]. Non dobbiamo giustificarci per aver bombardato un ospedale pediatrico. Dobbiamo dire: se volete che questa storia finisca, arrendetevi. Capitolate. Allora vi risparmieremo… forse». E tutto questo va ricordato ogniqualvolta parliamo di pace, perché il nostro parlare non sia una retorica autoconsolazione, ma un fattivo contributo alla conciliazione.
Il secondo elemento che, nel compiacimento per la liberazione, non va dimenticato è che lo scambio è avvenuto tra un gruppo di innocenti e una schiera di delinquenti, capitanati da un assassino come Vadim Krasikov (che aveva ucciso in pieno giorno a Berlino un dissidente ceceno), poi ostentatamente accolti come eroi dallo stesso presidente Putin, accompagnato tra gli altri da Sergej Naryškin, capo dei servizi segreti esteri e da Aleksandr Bortnikov, direttore dell’FSB: una combriccola che, per chi non l’avesse capito, specifica ulteriormente la professione degli eroi riaccolti in patria.
Di fronte a una situazione simile molto resta ancora da fare, innanzitutto nella direzione di un autentico giudizio che, appunto, ci aiuti a cogliere l’essenza delle cose; il che significa non nel quadro di una pur necessaria denuncia, ma nell’aspirazione a capire quanto avviene, per rendere onore al sacrificio di tanti testimoni, per tutelarne i diritti, perché nessuno abbia la presunzione di considerarlo inutile e per creare un’atmosfera nella quale questi stessi diritti tornino ad essere naturali, cioè non graziosamente concessi da uno Stato o da un’organizzazione internazionale, e neppure emotivamente apprezzati, confinandoli nel campo dei buoni sentimenti, ma riconosciuti come costitutivi della stessa natura umana così da creare un’atmosfera nella quale la corresponsabilità di fronte a quanto accade torni a essere essa stessa naturale e vincolante.
Come ci ha insegnato la storia del dissenso, non si tratta, dunque, innanzitutto, di svergognare chi si è già svergognato e si svergogna quotidianamente a sufficienza, ma di fare memoria del bene che il potere vorrebbe distruggere.
Per fare questo c’è però una condizione essenziale: è necessario avere coscienza dell’indivisibilità del bene e della verità. Si tratta di una via affermativa e inclusiva nella quale dovremo aspirare a un’unità tanto più grande e necessaria quanto più forte è la tendenza alla divisione e alla esclusione; quando il portavoce del Cremlino, Peskov, parla di una Russia che accoglie i «suoi» e caccia gli «altri», parla appunto con questo spirito, veramente menzognero e omicida, divisore, sin dall’inizio: si compiace di espellere la parte migliore del suo Paese celebrando degli assassini, mentre la Russia è anche e soprattutto quella che viene caricata su un aereo e cacciata all’estero, come è successo ieri, ma come era già successo ai tempi di Solženicyn; la Russia è anche quella di chi resta in patria e rischia la galera opponendosi alla guerra e facendolo nelle forme più diverse, ancora una volta come ricordava proprio Naval’nyj, senza preoccuparsi di cercare le manifestazioni eroiche, ma non restando senza far nulla e, soprattutto, non accettando di contribuire personalmente al male, magari anche solo non pregando per la vittoria ma per la pace, sapendo che, per un sacerdote, questo può costare la riduzione allo stato laicale e portare all’inizio di un percorso la cui conclusione è la galera. Non sono pochi i russi che decidono coscientemente di non partecipare al male, e riconoscerlo non è questione di buoni sentimenti, di una preferenza irragionevole per un popolo e una tradizione, col rischio di non riconoscere invece le sofferenze che la Russia e tanti russi stanno causando e giustificando in Ucraina; si tratta di puro realismo, di un realismo che cerca di andare all’essenza delle cose senza fermarsi alla superficie.
Anche questo in fondo ci viene insegnato dalla nostra storia: quando Russia Cristiana nacque, la Russia era stata assorbita dall’Unione Sovietica che era il paese dell’ateismo di Stato, mentre la Chiesa sembrava non esistere più se non nella forma della cosiddetta «Chiesa del silenzio»: bastarono pochi anni per mostrare che il silenzio era solo frutto della nostra sordità e che la fede pulsava e scorreva in fiumi sotterranei che però avevano bisogno di essere riscoperti e di ritrovare, anche col nostro aiuto, una via verso la superficie.
Indivisibilità del bene e della verità implica dunque anche la nostra responsabilità, per conoscere la storia, per non cedere mai a facili e rassicuranti schematismi, per riscoprire la necessità, non solo della non partecipazione cosciente al male, ma anche della partecipazione al bene: sapendo che i frutti di questo lavoro potranno non essere immediati, che saranno accompagnati da fatiche e incomprensioni, ma avranno anche una verifica costante, quella che viene dall’attenzione alle persone: quanto più grande è l’insistenza con la quale il regime putiniano e i suoi ideologi parlano di scontro metafisico, di lotta al cosiddetto Occidente collettivo e, addirittura, di «guerra santa», e tanto più chiara deve essere la coscienza che l’Europa non consiste per noi in una serie di valori, in qualche ideale come tanti o, come diceva Naval’nyj, in «qualche idea che si ha nella testa», ma nello spazio in cui le convinzioni si distinguono dai sogni e dalle fantasie ideologiche: uno spazio ben più impegnativo perché per mantenerlo aperto non basta la pur necessaria professione dei valori, ma la loro testimonianza e la loro condivisione.
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
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