11 Aprile 2024

Non vergogniamoci della crisi

Marta Dell'Asta

L’ultima dichiarazione del Patriarcato russo sulla «guerra santa» ha prodotto un vero shock tra gli osservatori. Non distogliamo lo sguardo ma cerchiamo di capirne il significato, per tutti.

La crisi della Chiesa ortodossa russa istituzionale è sotto gli occhi di tutti, e il recente (27 marzo) Documento finale  del «Concilio mondiale del popolo russo» ne è l’ulteriore e, direi, sconvolgente conferma. Ne pubblicheremo a breve il testo integrale, che pure è stato citato da molti quotidiani, perché nella sua gravità è una testimonianza storica sconcertante e dolorosa: documento di un organismo che non può essere confuso con la Chiesa ortodossa di Mosca, ma che ha nel patriarca Kirill il proprio presidente e che è stato pubblicato sul sito ufficiale dello stesso patriarcato, questo testo sancisce esplicitamente il passaggio a «guerra santa» di quella che ancora sino a poco tempo fa era «solo» una operazione militare speciale.

E non contento di questo indica il nemico contro il quale va combattuta questa guerra santa, identificandolo nel satanismo di cui è rimasto preda l’Occidente collettivo e precisando che questo «satana» andrà sconfitto tra l’altro facendo entrare definitivamente «tutto il territorio dell’Ucraina contemporanea nella zona di influenza esclusiva della Russia».

Perché parlare di un fatto così doloroso e sconfortante? Dev’essere chiaro, innanzitutto, che non si tratta di salire in cattedra per pretendere di insegnare a qualcuno quale sia il cristianesimo autentico; e tuttavia, comunque si voglia considerare questo documento e lo spirito che lo sottende, per quanto lo si possa considerare gravemente erroneo, resta il fatto che sancisce una rottura dell’unità che è ben più drammatica e funesta di un grave errore.

Per quanto qualcuno possa considerare oggi l’ecumenismo un capriccio del passato, una preoccupazione ormai confinata in fondo alla lista delle priorità, nessuno riuscirà mai a convincere un cristiano che l’unità sia soltanto una forma di «generosità» per i tempi felici e non la chiave con cui guardare la Chiesa, nostra e altrui, oggi, confrontandoci con l’unità di tutti in Cristo, in una fraternità che esige sincerità e com-passione. E senza dimenticare che parallelamente esiste anche una crisi della Chiesa cattolica, molto diversa ma non meno drammatica.

Come diceva Yves Hamant, slavista francese con una lunga e profonda conoscenza della Russia, non salire in cattedra di fronte alla situazione che sta attraversando la Chiesa ortodossa russa non significa neppure ignorarne la crisi, che è da guardare «nella giusta misura, cioè senza spirito polemico, per affrontarla insieme e trovare delle risposte alle sfide del mondo contemporaneo (…). Per ridare respiro all’ecumenismo – continuava Yves Hamant – i cattolici non devono ignorare le crisi dell’ortodossia e gli ortodossi non devono ignorare quelle del cattolicesimo».

E questo vale non solo per la crisi della Chiesa, ma per la molteplice crisi che interessa tutto il mondo, incapace anch’esso di unità, di ritrovare una parola autorevole e un insieme di verità fondamentali che portino a riconoscere il primato del bene comune sull’interesse particolare.

Abbiamo l’impressione che siano crisi diverse, ma in realtà si tratta di una serie di crisi concatenate che coinvolgono la comunità globale e quindi anche la fede, o forse è la crisi della fede che origina la crisi globale; comunque sia la conseguenza è che, accanto alla crisi delle istituzioni mondiali, anche il cristianesimo istituzionale è stato ricacciato ai margini della vita, è diventato poco incisivo, stantio, in ritardo, impreparato a raccogliere le sfide del presente e soprattutto ad affermare in modo umile ma luminoso la potenza del proprio annuncio, che è l’annuncio di Cristo e non delle nostre idee su Cristo.

Naval’nyj, da osservatore laico che confessava di essere «il tipico credente post sovietico» che non andava in chiesa, ma che sapeva guardare in faccia la realtà, aveva detto: «Mi piacerebbe molto che la Chiesa ortodossa russa avesse una posizione tale che tutte le parti in conflitto cercassero e accettassero la sua mediazione. Ma non credo sia possibile che questo avvenga ora nel nostro paese».

E infatti oggi come oggi non sarebbe possibile; la crisi della Chiesa russa si identifica col sogno di restaurazione e di potenza che sta inseguendo con la sua guerra santa e questo sogno, finché dura, rende impossibile ogni mediazione. Di fronte a questa deriva c’è chi addirittura dà la Chiesa istituzionale come un relitto storico irrecuperabile; i più saggi confidano nella forza dello Spirito, anche se nessuno si illude che lo Spirito interverrà dall’esterno con un’azione magica che prescinda dalla responsabilità dei singoli e dalla loro libertà.
Questa debolezza è un segno dei tempi che richiede a tutti un serio ripensamento, e sicuramente la metanoia.

Non vergogniamoci della crisi

(Patriarchia.ru)

Il sogno (più un mito che altro) di una presenza autorevole della Chiesa nella società (una presenza che nella maggior parte dei casi si intende come intervento autoritario) è un sogno che illude molti cristiani anche in Occidente, anzi, è forse la reazione comune che si osserva in Occidente come in Oriente.

La salvaguardia dei bei «valori di un tempo» giustifica un’alzata di scudi e una difesa corporativa che si aggrappa alla tradizione come unico porto sicuro dal male della modernità. La tentazione sta nel credere di avere già in mano la salvezza preconfezionata e definitiva: credenza che ama rispolverare determinate forme storiche, certe abitudini e anche certe pie illusioni e non chiede il rischio di rimettere ogni volta in gioco il significato che ha per ciascuno di noi la morte e resurrezione di Gesù Cristo. E allora, invece del riconoscimento della realtà, nascono mille illusioni.

L’illusione, ad esempio, di poter essere ancora, a priori, l’ago della bilancia nei conflitti internazionali; l’illusione di possedere d’ufficio le risposte adeguate a risolvere ogni possibile crisi; l’illusione di essere meglio degli altri e di potersi salvare dal generale naufragio costruendosi un piccolo mondo a parte. E allora nascono pure le tentazioni di piangersi addosso sentendosi respinti in un ghetto o di autocompiacersi in una autoreferenzialità ciecamente soddisfatta di sé.

Sogni di purezza, illusioni gratificanti e nostalgie di grandezza portano il cristianesimo fuori strada, ma a sostenere questo duro esame di coscienza che ci aspetta tutti, troviamo le parole lucide e forti pronunciate da un erede spirituale della grande tradizione russa post-rivoluzionaria, padre Alexander Schmemann (1921-1983), figlio di emigrati russi trapiantato negli Stati Uniti. È come se la pessima prova che oggi la Chiesa russa dà di sé trovasse un giudizio chiaro da parte dell’anima autentica e profonda dell’ortodossia stessa, ma con questo giudizio che nasce da una fedeltà essenziale e originaria a Cristo, padre Alexander parla anche a noi.

Padre Schmemann affermava che il tradizionalismo religioso – che vedeva fiorire anche tra gli ortodossi della libera America, preoccupati soltanto di conservare la purezza della tradizione – costituiva esso stesso la crisi dell’ortodossia, perché ripudiava ogni sforzo del pensiero critico, negava qualsiasi problematica e si condannava a non essere in grado di decifrare la civiltà contemporanea, limitandosi – nel suo preteso purismo – a rifiutarla.

Secondo il teologo russo il primo sintomo di questa malattia è il distacco dalla realtà: «La grave schizofrenia che ha penetrato fino in fondo la psicologia ortodossa consiste nell’essersi creata un mondo irreale, inesistente ma radicato come se fosse reale ed esistente». L’ortodossia russa, diceva, non si è accorta «della caduta di Bisanzio» e di tutta una serie di cambiamenti epocali, insomma non si è accorta della storia, vive nel cielo senza preoccuparsi di portarlo in terra e di farvelo apprezzare, ma questa «distrazione» la sta pagando a caro prezzo: «Così, invece di comprendere i cambiamenti e di affrontarli se ne è lasciata schiacciare, si è lasciata determinare interiormente da quegli stessi cambiamenti che negava», spaventata dall’aggressione e dal rifiuto che le riservava la modernità ha reagito con la stessa aggressività e con lo stesso rifiuto.

Di qui la paura, il senso apocalittico del nemico che incombe, che oggi in Russia si esprime nella demonizzazione dell’Occidente, e nel desiderio di sottometterlo «a ciò che abbiamo di peggio e di più discutibile nel nostro passato».

In Occidente il rapporto con la storia e con il cambiamento della civiltà è sicuramente diverso, eppure di fronte alla sfida della storia si vede una reazione uguale e contraria: tra i difensori della fede tradizionale affiorano la stessa paura e lo stesso umore apocalittico, sentimenti che si traducono in un’identica ricerca del nemico, con un esito inverso, che si trasforma in un viscerale senso di colpa che porta solo a demonizzare se stessi e a non suggerire un autentico pentimento e una molto più proficua ricerca del volto e della misericordia di Cristo.


Foto di apertura: Patriarchia.ru

Marta Dell'Asta

Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».

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