
29 Maggio 2025
Oltre che dei territori dobbiamo discutere dei diritti umani
Un popolo, quello ucraino, e uno dei suoi pastori, Svjatoslav Ševčuk, arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyč, primate della Chiesa greco-cattolica: una Chiesa testimone nella storia di una fedeltà fino al martirio. Gli echi di questa storia in un webinar di cui presentiamo qui ampi stralci.
Il 12 maggio si è tenuto il webinar Ucraina, il martirio di un popolo, organizzato da Alleanza Cattolica, a cui hanno partecipato Svjatoslav Ševčuk (Arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyč), Matteo Matzuzzi (Il Foglio), Adriano Dell’Asta (Russia Cristiana), Laura Boccenti (Alleanza Cattolica) e Marco Invernizzi (Alleanza Cattolica). L’audio dell’incontro è disponibile sul sito di Alleanza Cattolica.
Ševčuk: Sono molto lieto di questo incontro. La possibilità di poter comunicare con voi è per me qualcosa di terapeutico. Noi aspettavamo con grande interesse la prima allocuzione di papa Leone, neoeletto papa, durante la preghiera del Regina Coeli. Perché quello che dice il papa non manifesta soltanto il suo pensiero ma anche il suo programma pastorale. Lui ha menzionato tre argomenti fondamentali, cioè quello che noi abbiamo veramente a cuore.
Anzitutto ha manifestato la sua vicinanza al nostro popolo, ha detto «porto nel mio cuore il dolore dell’amato popolo ucraino». Questo significa che siamo amati dal Papa, che lui ci conosce, ci apprezza e porta nel suo cuore il nostro dolore.
Secondo argomento è stato quello della pace, perché ultimamente si parla di pace in tanti modi. Talvolta percepiamo che la parola pace è svuotata del suo senso autentico, come nella cultura odierna la parola «amore». Ma lui ha parlato di pace appena uscito sulla loggia di San Pietro; il popolo ucraino lo ha subito acclamato il papa della pace. La pace è veramente invocata, la pace che noi aspettiamo con tanta ansia. Ma ha spiegato poi, in modo un po’ agostiniano, che questa pace vuol dire verità e giustizia; una pace che non è una tregua, non è un negoziato puramente umano, ma una pace nella quale si può vivere, si può esistere, si può sopravvivere.
Terzo argomento: ha parlato di due categorie di persone, i prigionieri e i bambini, cioè quelli che veramente in questo stesso istante sono torturati e soffrono. Un problema che in questo momento è nel cuore di tanti, dei padri che hanno perso i loro bambini portati via dai russi, di tante famiglie che non sanno dove stanno i loro cari prigionieri. Ha detto proprio quello che papa Francesco aveva annunciato il giorno di Pasqua un anno fa, di liberare tutti. Perciò veramente siamo stati profondamente impressionati dalle parole del papa e siamo molto grati. Adesso siamo sicuri che il papa sarà con noi.
Boccenti: Il suo recente intervento, pronunciato in occasione della visita all’Università Cattolica di Washington, definisce l’attuale regime russo come un totalitarismo postmoderno. Già questa idea che l’attuale regime russo sia un totalitarismo non è affatto scontata per l’Occidente, è un’idea che va ancora metabolizzata e compresa. Ma poi è interessantissimo il legame con la postmodernità, perché lei ha collegato all’ideologia del mondo russo gli esiti delle filosofie postmoderne che negano la possibilità dell’esistenza di una verità oggettiva. Mi sembra importante spiegare questa situazione della post-verità, che si è venuta a creare anche in Occidente, ossia l’allontanamento dall’idea che possa esserci una verità oggettiva, che arriva addirittura a esercitare un’influenza sulla politica e a generare una forma nuova di totalitarismo.
Ševčuk: Questa domanda è veramente fondamentale per capire quello che succede oggi non soltanto in Ucraina ma in vari paesi del mondo, perché i totalitarismi ritornano. Ma la cosa strana è che talvolta la gente vota per i leader politici che hanno una forte spinta totalitaria.
Per spiegare cosa è successo nella ex Unione Sovietica, non solo in Russia ma anche in altri paesi, vorrei condividere quello che noi tutti in Unione Sovietica abbiamo vissuto insieme negli anni ’80 e all’inizio degli anni ’90. Io ho vissuto metà della mia vita in questa società, in questa cultura. Ho fatto i miei studi di medicina lì, ho fatto anche due anni di servizio militare, abbiamo vissuto tutto il travaglio dell’ultimo periodo di vita dell’Unione Sovietica. E cosa è successo in quel periodo? Il sistema totalitario comunista ha perso la fede nella propria ideologia, veramente verso la fine degli anni ’80 neppure i vertici del Partito comunista sovietico credevano più nel comunismo, si è creato un vuoto ideologico.
Come la cultura postmoderna, non credevano più nell’ideologia che assicurava che il comunismo sarebbe arrivato nel prossimo futuro. Il momento di felicità universale alla quale stavamo sacrificando tutte le nostre vite sarebbe arrivato, ma alla fine hanno capito che non sarebbe arrivato mai. Gorbačëv diceva che il comunismo si trovava all’orizzonte, ma poi abbiamo capito che più ti avvicini alla linea dell’orizzonte, più questa si allontana. E cosa è successo in quel momento di vuoto ideologico al vertice del Partito comunista? L’attuale patriarca Kirill ha proposto una nuova ideologia ai funzionari comunisti che ne cercavano una nuova. Si è fatto un certo mix tra nazionalismo russo, messianismo di Mosca come terza Roma, risentimento nei confronti dell’Occidente, più una forma di religiosità imposta da Stalin alla Chiesa ortodossa russa.
In sostanza, la Chiesa stessa ha proposto ai leader comunisti la nuova ideologia che adesso è conosciuta come «Mondo russo». Ci sono state alcune fasi di sviluppo di questa ideologia. All’inizio si trattava della cultura del popolo russo, anche della diaspora russa, nel tentativo di collegare lo Stato russo che rinasceva dopo la caduta dell’Unione Sovietica con la diaspora zarista, con i gruppi etnici russi sparsi in tutto il mondo. Ma poi è scattato un nuovo elemento: dobbiamo portare la nostra verità, creata da noi come ultimi difensori dei valori tradizionali, in tutto il mondo, combattendo l’Occidente decadente, immorale, senza fede, senza nessuna verità oggettiva. Noi imporremo loro la nostra verità. In questo si vede che abbiamo veramente a che fare con totalitarismo postmoderno, perché propone di restaurare l’impero, l’Unione Sovietica.
Non a caso papa Leone, quand’era in Perù, aveva parlato di imperialismo russo. È stato proclamato un progetto che nega l’esistenza stessa degli altri paesi nati dopo la caduta dell’Unione Sovietica come fossero qualcosa di provvisorio. Secondo questa ideologia il popolo ucraino non esiste. Veramente si negava la realtà oggettiva.
Ricordo un mio incontro appena eletto come capo della Chiesa [greco cattolica ucraina, nel 2011 – ndr] con un alto rappresentante del patriarcato di Mosca, a Casa Santa Marta. Abbiamo pranzato insieme. Lui mi ha guardato e mi ha detto «Secondo la nostra storiosofia Lei non deve esistere». Ho detto «Signore, ma io esisto!». Ho cominciato un po’ a scherzare, non sapevo cosa volesse dire questa frase che negava la mia esistenza personale. Gli ho detto «Gesù Cristo quando è apparso ai suoi discepoli dopo la resurrezione ha detto “guardate, ho il corpo, la carne e le ossa, non sono uno spirito”. Gli ho detto “Padre toccami. Vedi, ci sono, esisto”.
Ma in quel momento non capivo che questa storiosofia si era sviluppata per negare l’esistenza non soltanto della mia persona, o della nostra Chiesa, ma di tutto il popolo ucraino, togliendo il diritto di esistenza a milioni di persone. E dunque il totalitarismo che è nato con questa ideologia è veramente un fenomeno postmoderno, io direi postsistemico. È veramente un’ideologia genocidaria che oggi in Ucraina provoca tante vittime.

Buča, aprile 2022. (National Police of Ukraine, wiki)
Dell’Asta: Lei parla del vuoto radicale del sistema sovietico e del «troppo pieno» del nuovo totalitarismo con la sua violenza e la sua divisione. Nella tragedia attuale la società civile ucraina ha invece dato esempi commoventi di che cosa significhino, di fronte a violenza e divisione, il sacrificio e la solidarietà. Credo che questo sia importante non solo per chi si occupa di queste vicende ma in genere per tutti noi, per tutto il mondo. Da dove vengono queste virtù, in un mondo in cui parlare di sacrificio e di solidarietà è sempre così difficile?
Ševčuk: Sono domande difficili, ma noi cerchiamo di trovare delle risposte, che forse vengono più dall’esperienza, cioè dalla nostra esistenza, che da qualche idea o da qualche dottrina. Faccio alcuni esempi per farvi vedere da dove nascono queste energie di sacrificio e di solidarietà.
Ricordo quando la capitale Kyiv era semicircondata, nelle prime ore del 24 febbraio 2022. Noi, stando dall’altra parte della linea dei combattimenti, non sapevamo che cosa succedeva là dove erano arrivati i russi. Devo dire che si sono fermati a 20 km da casa mia, dalla mia cattedrale. Ma quando i russi si sono ritirati ho potuto andare in queste località che oggi tutto il mondo conosce: Buča, Irpin’, Borodjanka. E ho visto un posto pieno di cadaveri, veramente un’immagine apocalittica. Poi mi sono avvicinato a una fossa comune non ancora coperta e ho chiesto se era possibile fermarmi sul bordo per pregare. Ho visto i corpi di giovani, bambini, donne, uomini torturati. E stando lì ho capito: Signore, ma in questa fossa siamo tutti uguali! Cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, quelli che parlavano ucraino, russo, polacco, moldavo, ungherese. Lì siamo tutti solo umani. E mi sono chiesto il perché: ma Signore, perché io vivo e loro stanno lì? Così ho capito che per un soffio io non ero lì con loro.
Quella gente aveva vissuto le stesse cose che avevo vissuto io, e ho capito che dobbiamo difenderci, dobbiamo sacrificare la nostra vita affinché questo non avvenga mai più. Insomma, questa tragedia, questo genocidio ha toccato il tessuto stesso dell’umanità e ha veramente liberato delle energie profondamente umane che trapassano anche i confini religiosi e confessionali. Essendo vescovo, mi sarebbe piaciuto poter dire «Ma sì, solo le forze cristiane sono capaci di farlo», invece no, è qualcosa che ci ha veramente accomunato tutti. La gente ha capito che per vivere dobbiamo difendere la nostra patria, la nostra gente.
Una seconda esperienza: nelle nostre parrocchie sono venute subito tante persone che non si erano mai fatte vive prima. Ogni parrocchia della nostra Chiesa è diventata un hub umanitario dove le persone portavano tutto quello che avevano in casa, cibo, vestiti, medicine. Noi cercavamo di organizzare dei corridoi umanitari: da una parte per evacuare la gente, ma dall’altra per portare gli aiuti umanitari. Ogni parrocchia, ogni chiesa erano veramente come un alveare.
E io in mezzo a questa gente ho visto una ragazza che non era mai venuta nella nostra parrocchia ma davvero generosissima: faceva i compiti con i bambini, aiutava gli anziani, faceva volontariato in tante forme. Così le ho chiesto: «Ma perché lo fai? Sei credente? Da dove viene questa tua solidarietà con la gente?». E lei mi ha detto una cosa che mi ha toccato il cuore: «Padre, dopo di otto ore in un rifugio antiaereo, ascoltando gli spari, se non facevo qualcosa per gli altri diventavo pazza».
Cioè, aveva canalizzato in modo positivo le energie suscitate dalla paura e dall’ansia, per servire gli altri. Ricordo fino oggi questa testimonianza perché mi sono accorto che io spesso faccio lo stesso. Dopo ogni bombardamento divento iperattivo. Perché se non fai nulla, se non riesci a uscire da te stesso per servire l’altro, veramente questo trauma ti divora. È un meccanismo della psiche umana che ci spinge alla solidarietà, a offrire noi stessi, il nostro tempo, l’intelligenza, le conoscenze, anche l’esperienza al servizio degli altri.
Questa nostra attività innanzitutto ha aiutato noi stessi. Questo è il sottofondo umano di ciò che chiamiamo carità cristiana. Poi la gente viene in chiesa per chiedere il senso più profondo della sua sofferenza e noi possiamo rileggere questi sentimenti attraverso il Vangelo, dar loro un significato più alto, illuminare con la parola di Dio il buio esistenziale che tanti vivono.

(Telegram ugcc.ua)
Boccenti: Adesso si sente parlare di una possibilità di pace, o almeno di tregua. Qui in Occidente sui giornali i ragionamenti ruotano sempre intorno alle questioni materiali, certamente importanti: questioni territoriali, militari, politiche, che sembrano però non toccare il cuore del problema. Perché c’è di mezzo l’umano e l’esperienza tragica attraverso cui un popolo è passato. Perciò volevo chiederle quali sono gli elementi da considerare perché si possa avviare il processo verso una pace giusta. Io ho l’impressione che non si possa dire: c’è la pace perché abbiamo firmato un trattato, e che sia invece un percorso…
Ševčuk: Anzitutto vorrei dire che veramente siamo un popolo stanco della guerra, forse non c’è un popolo nell’intero universo che desideri tanto la pace come il popolo ucraino adesso. E devo dire che quando si è cominciato a parlare di trattative di pace, la gente in Ucraina era entusiasta. Veramente era apparsa una luce di speranza che l’aggressore potesse essere fermato non soltanto con le armi ma con altri meccanismi.
La gente in Ucraina capisce non attraverso i giornali ma dalla propria esperienza che quando la Russia smetterà di attaccarci arriverà la pace, finirà la guerra. Ma capisce anche che quando l’Ucraina smetterà di difendersi, finirà l’Ucraina. Finiremo noi.
La ricerca del dialogo è sempre un’alternativa allo scontro armato. Siamo stati sempre a favore di queste trattative ma poi, ascoltando sia quello che diceva l’amministrazione di Donald Trump, sia quello che dichiarava ed esigeva la Federazione russa, ci siamo resi conto che il negoziato verteva solo su quello che l’Ucraina può cedere o con il quale può accontentare l’aggressore.
Si cominciava sempre a parlare dei territori e questo ci è dispiaciuto molto. Perché se si parla di pace giusta, la domanda è: giusta nei confronti di chi? Si dimentica che l’Ucraina non è un territorio ma è un popolo, sono le persone. Anche se di fatto dobbiamo accettare che una parte dell’Ucraina sia occupata, chi si occuperà delle persone che stanno dall’altra parte della linea dei combattimenti? Chi difenderà i loro diritti?
Io, come vescovo, mi preoccupo per la mia gente in quelle zone, che va a pregare fuori dalle nostre chiese che sono state chiuse e sigillate come la tomba di Gesù. Si parla tanto delle terre rare, dei vantaggi economici, ma non si parla dei diritti umani delle persone.
Perciò anche parlando con i rappresentanti dell’amministrazione Trump, durante la mia recente visita a Washington, ho sempre sottolineato che bisogna rimettere sul tavolo delle trattative l’argomento dei diritti umani, chiedere garanzie non soltanto dal punto di vista militare o diplomatico ma sulla sopravvivenza delle persone, la loro integrità, l’incolumità personale.
Purtroppo, vengono dimenticati i più deboli, più umili, che poi sono sempre quelli che soffrono di più, poiché portano il peso maggiore sulle loro spalle, la croce più pesante di questa guerra. Stiamo facendo di tutto perché questo dialogo porti in sé un senso umano. Quando parliamo di giustizia bisogna parlare delle persone che soffrono, e rispettare i diritti umani non soltanto dell’aggressore, ma della vittima. Insomma, dobbiamo cominciare a riflettere su queste trattative di pace partendo non dagli interessi dei potenti di questo mondo, ma dei diritti delle vittime. Così potremo parlare dei modi di rispettare il diritto, perché la persona è la fonte del diritto. La natura umana, la legge naturale è sempre il fondamento del diritto statale, anche internazionale. Queste sono le mie riflessioni sul tema delle trattative, delle possibili concessioni.
Qualsiasi accordo che si dovesse sottoscrivere, se non sarà basato sui fondamenti del diritto internazionale sarà privo di qualsiasi fondamento,
potrà essere smontato in qualsiasi momento, perché non rispetterà quello che è più importante, ossia i diritti umani.
Dell’Asta: Lei ha detto che nell’ideologia «al posto delle persone ci sono delle astrazioni», geopolitiche, economiche. Ha insistito molto sul popolo fatto di persone concrete. Una delle ideologie che oggi vediamo risorgenti in diversi paesi è il nazionalismo nelle sue varie forme. Spesso il popolo ucraino viene accusato di nazionalismo. Lei invece usa un altro termine, quello di patriottismo, che rientra in un altro mondo concettuale. Può spiegare a noi che facciamo così fatica a capire cos’è la patria, che differenza c’è tra nazionalismo e patriottismo?
Ševčuk: Il nostro Sinodo dei vescovi ha scritto una lettera pastorale spiegando questi concetti. Per essere breve posso dire che la differenza fra nazionalismo e patriottismo è come la differenza fra altruismo ed egoismo. Cioè il nazionalismo si basa sempre sull’egoismo nazionale, è un rinchiudersi sui propri bisogni che induce a credere di essere migliori degli altri per il fatto stesso di far parte di un gruppo etnico determinato. Questo egoismo nazionale oggi spinge molti paesi a una politica di chiusura che li concentra sui propri affari interni; purtroppo è una corrente dominante.
Invece l’autentico patriottismo è un altruismo che ti fa uscire dalla tua comfort zone e ti chiama a offrire te stesso per la vita degli altri. Come diceva Gesù ai suoi discepoli «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Da noi adesso predomina questo sentimento di sacrificio. Molti uomini oggi vanno a combattere per difendere la propria patria, perché sono coscienti che domani non potrebbero guardare negli occhi i propri figli, se non ci sarà nessuno che li difenda.
Un amico mi ha detto: «Io devo difendere la patria perché poi un giorno mio figlio mi chiederà: “Ma cosa hai fatto tu quando tutti noi eravamo sul punto di essere ammazzati? Qual è stata la tua scelta?”».
Devo dire che oggi in Ucraina questo patriottismo non è di tipo etnico, tant’è vero che il nostro presidente è di origine ebraica, mentre il comandante supremo dell’esercito ucraino è russo. Invece il nazionalismo è sempre pronto a incolpare o a eliminare gli altri, a chiudere le frontiere, a espellere i migranti.
Si parla spesso anche di pulizia etnica per liberare il proprio spazio vitale dall’inquinamento degli immigrati che vengono a rubare il lavoro, il benessere. Questo è il tipico egoismo nazionale che non ha nulla a che fare con un sano patriottismo cristiano, che è sempre amore della propria patria ma anche amore verso il prossimo. (…)
Dell’Asta: Le pongo una domanda specifica sulla particolarità della Chiesa greco-cattolica e in generale dei rapporti tra le Chiese cristiane, tanto più in un momento in cui le stesse Chiese ortodosse sono profondamente divise tra loro. La Chiesa greco-cattolica può in questa fase avere un ruolo speciale per riportare unità in un mondo che sembra diviso al suo stesso interno? Può, come si diceva un tempo, svolgere una funzione di ponte oggi?
Ševčuk: Anche la vita religiosa in Ucraina dev’essere inserita nel contesto della nostra società. Questo conflitto tra la prospettiva ucraina di sviluppo e quella russa è veramente un conflitto di due progetti sul futuro. Il progetto russo è quello di tornare indietro per ristabilire l’Unione Sovietica, la grande Russia, il grande impero. Invece il progetto nazionale ucraino è quello di andare non verso il passato ma verso il futuro. È il sogno di diventare un paese veramente democratico. Siamo di cultura europea, vorremmo tornare nella famiglia delle democrazie europee.
Fra questi due progetti di futuro c’è un conflitto basato non sull’etnia, ma neanche sulla religione. Devo dire che nell’Ucraina post-sovietica la nostra Chiesa ha giocato un ruolo molto importante come catalizzatore della trasformazione sociale. Siamo sempre stati leader nella società civile dei processi di trasformazione da una società post-sovietica a una società democratica. È un travaglio molto faticoso, che passa attraverso l’educazione, attraverso la dottrina sociale della Chiesa, attraverso la formazione di nuovi politici. La nostra Chiesa ha cominciato subito a investire nella formazione del clero, nella formazione dei laici, anche nella formazione dei leader civili. In questo senso abbiamo proposto anche alle altre Chiese un trend nuovo.
Vi faccio un esempio. Nel 2001, dopo la venuta in Ucraina del Santo Padre Giovanni Paolo II, io ero il vicedecano della facoltà teologica di Leopoli, insieme con le altre facoltà teologiche protestanti e ortodosse abbiamo cercato di convincere lo Stato ucraino a riconoscere la teologia come una scienza, non come una superstizione, così da poter attribuire ai nostri studenti dei diplomi riconosciuti dallo Stato.
È stata proprio la nostra Chiesa a proporre questo nuovo approccio verso l’educazione religiosa; noi abbiamo creato il nuovo curriculum di studi teologico-filosofici e storici, e gli altri erano affascinati. Veramente questa proposta poi ha cambiato le menti, le facoltà. Oggi lo Stato riconosce che la teologia è una scienza e possiamo avere non soltanto l’accreditamento delle nostre università ma anche conferire ai nostri studenti i gradi superiori d’istruzione riconosciuti dallo Stato. Una cosa impensabile 20 anni fa. Così la nostra Chiesa per la prima volta ha parlato di ecumenismo, cioè del dialogo fra le Chiese.
Devo dire che in alcuni monasteri ortodossi in Ucraina oggi si trovano tanti libri che parlano dell’eresia dell’ecumenismo. Persiste ancora questa ecclesiologia esclusivista, per cui esiste soltanto una vera Chiesa di Cristo, la mia e tutti gli altri andranno all’inferno. Invece noi cerchiamo di essere veramente portatori della cultura del dialogo, siamo catalizzatori del dialogo.
Talvolta succede che i nostri fratelli ortodossi litighino fra di loro, ma parlano con noi. E spesso quando ci presentiamo a qualche evento pubblico, noi siamo nel mezzo e gli uni e gli altri si aggregano a noi. Alcuni politici dicono che noi greco-cattolici siamo la piattaforma del dialogo religioso in Ucraina, una piattaforma alla quale poi gli altri non hanno più paura di aggregarsi.
Un altro esempio di come creiamo ponti fra le religioni è l’attività del famoso Consiglio pan-ucraino delle Chiese e delle Associazioni religiose che nel gennaio 2023 è venuto a Roma e ha incontrato papa Francesco. Interessante che quando è venuto in Ucraina papa Giovanni Paolo II ha potuto incontrare veramente tutti i cristiani, proprio incontrando il Concilio pan-ucraino delle Chiese, ortodossi canonici e non canonici, moscoviti, ucraini, proprio perché erano tutti uniti in questa piattaforma di dialogo e di collaborazione che abbiamo creato in Ucraina. Oggi vediamo che questa cultura del dialogo, la cultura del rispetto dell’altro è entrata già nella vita e nella prassi della nostra società. (…)

(ukrinform.ua)
Boccenti: Un’ultima domanda: come possiamo aiutare le persone, anche i cristiani, a non farsi ingannare da questa propaganda che le nuove ideologie diffondono utilizzando in maniera eccellente gli strumenti mediatici?
Ševčuk: Posso condividere la nostra esperienza pastorale in Ucraina, perché anche noi siamo vittime delle manipolazioni mediatiche che chiamiamo «operazioni informativo-psicologiche» pianificate dalla Russia; sono forme diverse di intimidazione della popolazione civile per spaventarla, scoraggiarla e così via. È anche questa una forma di guerra.
Bisogna stare molto attenti quando si riceve un’informazione che eccita le nostre emozioni, come odio o spavento, che annuncia un fatto mai accaduto prima, certi titoli vogliono impressionare e catturare la nostra attenzione. Non bisogna dare credito alle informazioni che cercano di distruggere il nostro equilibrio emotivo e mentale. Dobbiamo avere il tempo e il diritto di pensare.
Feriti dal peccato originale, possiamo capire facilmente dov’è la verità e dove la menzogna. Il maligno vuole confonderci e farci chiamare male il bene. Perciò noi invitiamo sempre a dire una breve preghiera prima di decidere qualcosa o prima di credere a qualcuno; questo piccolo momento ci aiuta a fermarci, a calmarci. Ricordarci di Dio ci aiuterà ad avere un orecchio attento e la mente ben aperta a discernere il bene e il male, la menzogna e la verità.
Invernizzi: Quale speranza c’è nel popolo, e in lei personalmente, per il prossimo futuro?
Ševčuk: Veramente noi in Ucraina abbiamo speranza, siamo testimoni della speranza per tre ragioni. Prima: mi chiede se è possibile che il male persista. Il male può essere molto violento, ma non per sempre, mentre noi abbiamo la sensazione che quando soffriamo questo durerà per sempre. I nostri padri della Chiesa clandestina dicevano: il male del comunismo non durerà per sempre. Questa è anche la nostra speranza, che prima o poi il male, la menzogna cadranno, perché il bene è sempre più forte, la verità e l’amore sono eterni.
Seconda: noi sappiamo molto bene che la speranza cristiana è una virtù, non un sentimento basato sulle nostre sensazioni soggettive. E questa virtù è basata sulla fede cristiana. La speranza cristiana è sempre il frutto della fede. La nostra fede ci dice che il Signore è con noi, e lo sperimentiamo; dice che soffre dentro di noi. Lui è torturato ogni giorno, ucciso nella carne del nostro popolo, ma è sempre Lui che è risorto dai morti. Lui è la nostra speranza, Lui è quello che darà il senso ultimo a tutti gli avvenimenti tragici che talvolta non capiamo.
Perciò viviamo questa tragedia – questa grande tribolazione, come la chiama il libro dell’Apocalisse – come uomini credenti che percepiscono la presenza del Signore tra loro. Dice il salmo «Non confidate nei prìncipi, né in alcun figlio d’uomo, che non può salvare» (Sal 146,3).
E infine, terza ragione: l’oggetto della nostra speranza lo abbiamo già in noi come germe. La pace della quale papa Leone ha parlato è già in noi come un germe e noi dobbiamo soltanto essere dei buoni agricoltori che lo fanno fruttificare. Perciò il nostro non è un vano ottimismo, ma è l’esperienza di essere collaboratori della pace che c’è tra di noi. E devo dire ancora una cosa che sorprende molte persone. Le prime settimane di guerra, quando eravamo semicircondati a Kyiv, ho fatto visita al nostro famoso sindaco Klyčko, perché volevo sapere quante persone erano rimaste, quali bisogni urgenti c’erano in città, per organizzare la logistica degli aiuti umanitari. E lui mi ha detto invece: «Padre, più del cibo, dei vestiti, dalla Chiesa ci aspettiamo una parola di speranza». Io sono rimasto stupito,
ho capito che la Chiesa è qualcosa di più che una ONG umanitaria internazionale. Dobbiamo annunciare la parola di Dio, evangelizzare; noi abbiamo questa parola di speranza per il nostro popolo e funziona. Il fatto stesso che io oggi vi parlo, che sono vivo, è un miracolo.
Sono il testimone di questa speranza che portiamo nel cuore, anche nella nostra carne qui oggi in Ucraina.
Moderatore: Grazie di cuore Sua Beatitudine per queste parole. Mi viene solo da dire: non dimentichiamoci di parlare dell’Ucraina, e di pregare per l’Ucraina che ha un immenso bisogno.
Ševčuk: Grazie per aver avuto il tempo di ascoltarci. È stata veramente una serata terapeutica per me.
(foto d’apertura: Telegram ugcc.ua)
Svjatoslav Ševčuk
Nato il 5 maggio 1970 a Stryi, regione di Leopoli. Ha studiato presso l’Università Pontificia San Tommaso d’Aquino ed è stato ordinato sacerdote nel 1994. Nel 2009 è stato nominato vescovo ausiliare della diocesi della Protezione della Santissima Madre di Dio a Buenos Aires. Dal 27 marzo 2011 è arcivescovo maggiore di Kiyv-Halyč e metropolita di Kiyv, nonché capo della Chiesa greco-cattolica ucraina.
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