
16 Agosto 2025
«Nel battito ardente del suo cuore». In memoria di Dmitrij Šostakovič
Cinquant’anni fa moriva Dmitrij Šostakovič. Un artista poliedrico, costretto al compromesso dal regime di Stalin, ma sempre fedele alla sua musica e amante della libertà di creazione. Lo ricordiamo con le parole della pianista Marija Judina. (A cura di Alessandra Belloli).
Il 9 agosto del 1975, cinquant’anni fa, moriva a Mosca Dmitrij Šostakovič. La sua personalità fu così geniale che divenne quasi impossibile da inquadrare: considerato una figura controversa, da alcuni venne accusato di conformismo, altri invece lo ritennero un esempio di resistenza morale.
Infatti, come tutti gli artisti russi che ebbero in sorte di vivere gli anni del Grande Terrore, Šostakovič fu costretto al compromesso tra la sopravvivenza e la libera creazione. A quest’ultima, il compositore non era disposto a rinunciare: per questo suo desiderio di libertà venne sempre considerato dal regime un elemento estraneo, da tenere d’occhio, perché la sua musica, anche quella composta su commissione del governo, aveva un respiro più ampio del ristretto canone socialista.
Lo ricordiamo con le parole che la pianista e amica Marija Judina scrisse per il suo sessantesimo compleanno e che pubblicò sulla rivista «Moskovskij komsomolec». Da queste parole traspaiono tutta la complessità ed eccezionalità di Šostakovič: una vera anima russa, ma al contempo un uomo la cui musica esprime il meglio della cultura europea, un uomo che ha saputo comporre opere dal respiro universale ma allo stesso tempo strettamente legate alla storia del proprio paese, un uomo che ha toccato poli all’apparenza opposti, ma che pulsano all’unisono nel «battito ardente del suo cuore». Un uomo cui il genio ha permesso di contemplare «il volto dell’Eternità».
«Con la mente non si può capire la Russia,
non la si può misurare col metro comune!
In essa c’è un’essenza particolare!
Nella Russia si può soltanto credere».
F. Tjutčev
Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, pur essendo un creatore di respiro, portata e significato vastissimi, rimane comunque un compositore e un uomo profondamente russo.
Forse la consapevolezza che in lui esistono una serie di elementi e qualità proprie della cultura russa che lo avvicinano ad Andrej Rublëv, Puškin, Dostoevskij e Lenin ci offre in parte una chiave per comprendere la sua opera e il suo percorso umano.
Tuttavia, ci sono anche altre, innumerevoli analogie.
Come le opere di Shakespeare, così anche le composizioni di Dmitrij Šostakovič si stagliano dinanzi a noi come una luminosa catena di cime montuose. Fortunatamente, oggi Dmitrij Dmitrievič è in pieno possesso del proprio genio, delle sue immense forze creative, e noi, suoi grati contemporanei, congratulandoci con lui per i sessant’anni e per la guarigione dai suoi problemi al cuore — un cuore che ci abbraccia tutti, — speriamo sia ancora presto per trarre bilanci. Siamo felici nella speranza di essere testimoni della nascita e realizzazione di molte altre opere del nostro amato compositore.
Proseguendo nel paragone con Shakespeare, accanto alle vette quasi irraggiungibili di sinfonie, quartetti, preludi e fughe per pianoforte, della Seconda sonata per pianoforte, del ciclo vocale su versi di Puškin; nell’opera di Šostakovič vediamo anche abissi, frane, torrenti impetuosi, che nel loro corso inesorabile travolgono uomo e natura, come per esempio nella Lady Macbeth del distretto di Mcensk o nel nucleo centrale della Decima sinfonia con la sua inconsolabile tristezza.
Se ripetiamo le parole finali di Aleksandr Blok: «Impara dalla sofferenza!» — dal suo intervento «Il Re Lear di Shakespeare. Discorso agli attori» (Pietrogrado, 1920), — questa antica sapienza ci viene inevitabilmente in mente quando intendiamo il nostro turbamento interiore come una sorta di dono della tragica musica di Šostakovič. Questa ci coinvolge negli sconfinati spazi delle «cronache storiche»: la Settima, l’Undicesima e la Tredicesima sinfonia, i cori dedicati agli eventi del 1905, il Trio per pianoforte, violino e violoncello.
Lo spirito di queste creazioni, di un realismo inaudito, mai visto prima, trasfigurato e universale, a volte supera per potenza e luminosa verità persino le cronache di Shakespeare o anche il Boris Godunov di Puškin e Musorgskij. Peraltro, Šostakovič non ricerca l’equilibrio dell’epos, ma immancabilmente ci trascina nelle catastrofi dell’esistenza contemporanea.
Ad ogni modo, in lui ci sono anche esempi di impareggiabile umorismo, lo splendore di un’inventiva inesauribile, come ad esempio ne Il naso (opera tratta da Gogol’), nei cicli vocali su testi inglesi e i versi di Saša Černyj. Le scintille infuocate di questo umorismo sono sparse ovunque nelle sue composizioni, che bruciano ogni forma di meschinità spirituale.

D. Šostakovič. (wikimedia)
Šostakovič, come Puškin, è un geniale europeo russo del suo tempo. Come Dostoevskij e Gustav Mahler, denuncia i vizi dell’uomo e dell’umanità, versando su di essi calde lacrime di compassione; come Shakespeare, è onnicomprensivo. Ma vi sono in lui dei tratti che lo avvicinano a Mozart e Schubert.
Ricordiamo però al lettore che qualunque tipo di parallelo o analogia con altri autori va inteso esclusivamente come un confronto tra atmosfere spirituali affini: Dmitrij Šostakovič è sempre, solo e soltanto se stesso; non prende mai nulla in prestito, ha una sovrabbondanza di «ricchezze proprie» che solo lui ha saputo portare nel mondo — perché ogni creatore, anche il più geniale, non vive nel vuoto siderale ma dentro la storia dell’uomo e dell’umanità! Šostakovič si distingue per il linguaggio cesellato, il pensiero costruttivo, le formule ritmico-intonative, per i segni, simboli, analogie.
Ma ora torniamo al parallelo con Mozart e Schubert. In che cosa consiste? Oh, consiste nel mondo meraviglioso, luminoso e trasparente di Šostakovič. Quelle «code alleggerite» nei finali di molte sue opere, le code dei finali, le «ultime parole di un morente» o… la conclusione ultima dei finali (…).
[Il parallelo consiste] in queste ultime parole dell’autore, quando al termine del cammino compiuto giunge il sollievo per lui e per l’ascoltatore, quando il dolore si allenta, arriva la pacificazione, splende la purificazione della persona, del volto, a volte appare persino un sorriso o la sua trasfigurazione in una sorta di nuova essenza, che ormai sfugge alla nostra comprensione. È proprio una trasfigurazione. Diciamolo con le parole di Vladimir Solov’ëv:
Il male vissuto
affoga nel sangue, —
sorge mondato
il sole dell’amore.
(«Di nuovo le bianche campanule»)
Oppure con Boris Pasternak:
La mano dell’artista è ancor più potente:
da ogni cosa lava via polvere e fango.
Dalla sua tintoria esce trasfigurata
la vita, la realtà e il passato…
Non scosse e rivoluzioni
sgombrano il cammino alla vita nuova,
ma rivelazioni, bufere e i larghi doni
dell’anima ardente di qualcuno.
(Dopo la tempesta)
E così, avventurandoci nell’interpretazione dei finali di Šostakovič, citiamo quelli che ci paiono in questo senso particolarmente significativi: il finale della Sonata per violoncello e pianoforte, del Quintetto per pianoforte e quartetto d’archi, della Tredicesima sinfonia (non parliamo qui del finale dell’Ottava – è un tema a parte, con una sua essenza tutta particolare).
Nel finale della sonata per violoncello si sente ancora quasi l’eco di una canzone popolare, forse persino operaia. La canticchia, un po’ alticcio, un personaggio simile a quelli di Gor’kij, Hemingway, Platonov, un artigiano che ha il suo posto necessario e insostituibile nella vita, ma che ormai ha raggiunto una sua riconciliazione filosofica, dopo aver attraversato a suo modo sventure grandi e piccole ed essersi ormai riconciliato con tutto il passato e il futuro incerto…
Il finale del quintetto è decisamente più complesso: dopo tutta la sua gioia impetuosa, dopo un culmine di intensità inquieta che si volge guardare il cammino percorso tra le spine, come a riassumere la straordinaria ed eccezionale ricchezza delle quattro parti precedenti — il gotico e spigoloso inizio del preludio, la sua malinconia pensosa, quasi elegiaca; la grandezza della fuga e dell’intermezzo, che contemplano il senso della cultura medievale — nella coda tutte le contraddizioni svaniscono: cinguetta un uccellino, placido, sereno, felice.
Non somiglia forse, quell’uccellino, all’eterna, celebre e misteriosa gazza di Pieter Bruegel il Vecchio che sta sul luogo del rogo, tra i pochi resti della recente catastrofe? No, l’uccellino del quintetto è più saggio e più buono: gioisce con tutti noi. La gazza di Bruegel rappresenta la «natura indifferente», si limita a constatare e praticamente, scusate, «dall’alto di un albero se ne infischia» (letteralmente). Tutta la composizione si dissolve nella luce trasparente della bontà. E la coda della Tredicesima sinfonia è davvero il vertice di queste concezioni, oltre che di una bellezza intonativo-ritmica inconcepibile.
Se ora passiamo ad alcuni movimenti lenti delle composizioni da camera di Šostakovič, cosa troviamo? Nel Largo della sonata per violoncello e pianoforte e nella fuga del quintetto troviamo l’artista e l’eterno, il dialogo tra loro. Questa musica organizza il mondo interiore dell’uomo, dell’ascoltatore (e quindi anche linea della sua vita, le sue azioni), come la pittura russa antica, i tesori della pittura sacra delle icone, la coralità della musica liturgica, come le Passioni di Johann Sebastian Bach…
(Una piccola aggiunta: una volta scrissi a Dmitrij Dmitrievič a proposito della coda della fuga: «Lei non sa nemmeno cosa ha scritto. Succede così ai creatori geniali… È la Pietà di Michelangelo. Anche nelle sue formule ritmiche…»).
Siamo giunti al punto centrale: l’amore, il cuore umano. Oggi si parla molto di umanesimo, ma nei discorsi e negli scritti di questo tipo si commettono molti errori. Almeno riguardo all’origine «rinascimentale» del termine (Ma in quest’articolo non possiamo soffermarci su analisi storiche che non abbiano una diretta pertinenza con la persona e l’opera di Šostakovič).
Sia il termine che le sue fonti sono freddamente astratti. Ma noi, che partecipiamo della cultura russa, non possiamo e non vogliamo creare in un clima di fredda indifferenza senza cuore. È così anche per il nostro prezioso Dmitrij Dmitrievič: nel battito ardente del suo cuore, nelle innumerevoli premure per i suoi fratelli compositori più giovani, nei viaggi, durante i voli, ai congressi, alle prime e nelle delegazioni si delinea il disegno esteriore della sua esistenza. Ma nella creazione, nella misura in cui porta nel proprio cuore e nella propria ragione il prototipo universale dell’umanità intera e l’unicità di ogni singola persona e di ogni singolo genio, egli si pone di fronte all’Eterno. E non solo, porta su di sé e in sé anche l’intero insieme dell’artista e dell’uomo contemporaneo.
Marija Judina
Nata nel 1899, insegnò al conservatorio di Leningrado e fu protagonista di numerose battaglie per la libertà della Chiesa e dell’arte. Fu lasciata ai margini della cultura ufficiale, visse di stenti e rimase sconosciuta ai più in Occidente. Morì nel 1970.
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