24 Aprile 2025

«Nulla va perduto»

Redazione

Nella tragica morte di don Paolo si apre lo squarcio luminoso della Pasqua e di Cristo che scende agli inferi per salvare ciascuno di noi, ora e sempre. La figura di don Paolo Polesana nell’omelia funebre del suo vescovo mons. Francesco Beschi e nel discorso del suo parroco, mons. Pasquale Pezzoli.

Omelia del vescovo di Bergamo, mons. Francesco Beschi

Care sorelle e fratelli, tre pensieri a partire dalla Parola che abbiamo ascoltato.

Gesù ha detto ai suoi: «La volontà di colui che mi ha mandato è che io non perda nulla di quanto Egli mi ha dato, ma lo resusciti nell’ultimo giorno» (Gv 6,39). Che nessuno vada perduto per Gesù. Una, o forse proprio la prima immagine di Gesù Risorto, la si ritrova nelle catacombe ed è proprio quella del buon pastore, anzi, del pastore bello: è un giovane che porta sulle spalle una pecorella. E i primi cristiani, appunto, vedono in Gesù Risorto questo bel pastore che prende sulle sue spalle l’anima di coloro che sono morti e li porta nella casa di Dio.

Ecco, la pecorella smarrita, smarrita nella morte, ma anche nella vita. Smarrito don Paolo, smarriti anche noi. Certamente, quando si smarrisce un pastore, lo smarrimento diventa ancora più grande. «Dal profondo a te grido, Signore. Signore, ascolta la mia voce!» (Sal 130) abbiamo pregato. In realtà, anche a noi sacerdoti tutto questo conduce alla consapevolezza di quanto sia grande il pastore che è Cristo.

Noi siamo sempre semplici, umili, limitati discepoli mandati a continuare la sua missione. L’umanità è come la pecora smarrita: nel deserto non trova più la strada. E il deserto è il luogo della morte. Ma il figlio di Dio non tollera questo, non può abbandonare l’umanità in questa misera condizione e allora si mette in cammino, abbandona la gloria del cielo per ritrovare la sua pecorella, inseguirla, fino sulla croce. E poi la carica sulle spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi, porta don Paolo, ma nello stesso tempo ci invita a portarci, gli uni gli altri.

Tante sono le persone smarrite, tante persone che vivono nel deserto: c’è il deserto della povertà, ma vi è anche il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’oscurità di Dio, dello svuotamento dell’anima. Il Signore non si rassegna che anche una sola persona possa perdersi. Il pastore sarà trovato là dov’è la pecora perduta.

«Nulla va perduto»

Il vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi durante l’omelia. (youtube)

E poi un altro pensiero mi ha attraversato, perché stiamo celebrando i giorni della Pasqua. Ecco, noi a volte dimentichiamo: Gesù muore e scende agli Inferi, scende nel regno dei morti. Nella tradizione orientale è molto presente questa consapevolezza: scende e brandisce la croce e quando il mostro della morte, degli Inferi, dell’oscurità, sta per divorarlo, Lui mette la croce tra le sue fauci e porta fuori tutti. È una bellissima immagine. Nel profondo oscuro della vita del mondo, nella vita dell’uomo, della sua anima, nel profondo oscuro della morte, Gesù pianta la sua croce, perché la morte non ci divori. «Se consideri le colpe Signore, Signore, chi ti può resistere? Ma con te è il perdono: così avremo il tuo timore» (Sal 130).

E non vi sembri azzardato quello che vi sto per dire. È morto il Papa – forse è una coincidenza, ci ho pensato – ho immaginato che il Papa, il pastore, sia sceso agli Inferi a prendere don Paolo.

E infine, siamo in questa parrocchia di Santa Caterina, come tutte una comunità che mi è cara, e qui c’è un santuario importante e caro a tutta la nostra città, che è il santuario della Madonna Addolorata. Tante volte ci sono venuto, tanti di voi lo frequentano. L’Addolorata ci riporta al pianto: Maria piange. Ma l’Addolorata ci dice anche il dono di Dio: «Ecco tua madre». L’Addolorata ci dice della fede di Maria davanti alla Croce, che è uno scandalo. A me piace tanto dire l’Ave Maria. L’ho detta tante volte con voi al tempo della pandemia, e lì, quando le persone morivano sole, come don Paolo, ho imparato l’importanza delle ultime parole dell’Ave Maria: «Prega per noi, adesso e nell’ora della nostra morte». Nessuno muore da solo, perché Maria nell’ora della nostra morte prega per noi.

(Testo non rivisto dall’autore)

«Nulla va perduto»

Mons. Pasquale Pezzoli. (youtube)

Commemorazione funebre di mons. Pasquale Pezzoli

Non mi è davvero facile prendere parola ora, nell’estremo commiato a un giovane prete che avevo accolto in Seminario nel 2009. Aveva un percorso insolito perché veniva da un’altra diocesi, Milano, e da altre esperienze. In seguito, da prete, era venuto ad abitare con me al secondo anno della mia permanenza in Santa Caterina e da allora ha avuto qui la sua residenza.

Non è semplicissimo parlare di lui, la sua personalità è stata certo alquanto sfaccettata, perfino complessa: basti pensare che ha conosciuto varie forme di appartenenza ecclesiale, tutte coinvolgenti, di quelle che segnano la vita di una persona.

Sono testimone anche di qualche fatica vissuta nel passaggio tra queste varie appartenenze, ma il desiderio di bene, che in lui ci appariva molto sincero e autentico, lo aveva molto aiutato nei vari passaggi e nel tentativo di unificare la sua esperienza umana e spirituale.

Le tappe della sua vita le aveva scritte sul Giornalino del Seminario Alere al momento della sua ordinazione:

«Sono nato il 30 giugno 1980 a Milano, abitando a Bresso nella parrocchia dei Santi Nazario e Celso fino ai 26 anni. La mia vivace comunità parrocchiale e le famiglie della Fraternità di Comunione e Liberazione sono state per me una finestra spalancata sul mondo. Ho frequentato le scuole medie a Milano ed il liceo scientifico Don Carlo Gnocchi a Carate Brianza. Dopo la maturità mi sono iscritto a Fisica all’Università degli Studi di Milano ed ho conseguito la laurea nel settembre del 2004. Ho proseguito poi gli studi di dottorato all’Università di Como, lavorando tra l’altro anche in Lituania dal 2006 al 2008 nel dipartimento di Elettronica Quantistica. A partire dal secondo anno di università ho frequentato la fraternità di Russia Cristiana con sede a Seriate, ambito nel quale ho gradualmente sentito crescere la vocazione al sacerdozio. Dopo due anni di seminario a Roma al Seminario internazionale Giovanni Paolo II, ho affidato a monsignor Beschi e al Seminario di Bergamo la cura e il discernimento della mia vocazione. Da qui ho prestato servizio a Trescore durante il secondo anno e a Casa Raphael nell’estate successiva. Dopo l’anno di prefettato al liceo, dal quinto anno ho prestato servizio nella parrocchia di Seriate».

Ordinato presbitero nel 2014 insieme ai suoi sette compagni – che oggi lo hanno portato a spalle qui in chiesa e hanno contribuito a preparare questa celebrazione –, ha svolto per tre anni il suo ministero alla parrocchia di Santa Croce alla Malpensata e poi qui per otto anni. Nei primi cinque anni da prete ha dedicato molto del suo tempo all’insegnamento di religione all’Istituto Vittorio Emanuele e per sei anni è stato a Lugano studente di Teologia specializzandosi nell’ambito della teologia orientale, tornando in parrocchia o alle attività di Russia Cristiana soprattutto nei fine settimana.

Gli anni della tesi sono stati dedicati allo studio di Pavel Florenskij, figura di scienziato e teologo estremamente interessante che lo ha impegnato e appassionato in modo particolare. Penso si sentisse in particolare sintonia con lui. Ne era fiero e avrebbe discusso la tesi a giugno.

Affidando alla misericordia di Dio la per noi incomprensibile conclusione della sua vita, raccolgo in due frasi evangeliche qualcosa della sua anima.

«Nulla va perduto»

(F. Andreotti)

«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituito»

«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituito». Era la frase con cui aveva accompagnato il momento forte della ordinazione presbiterale, una frase che non era vuoto e retorico riferimento a una «bella» parola, ma significava davvero per lui un tentativo di leggere la sua vita come un insieme di esperienze e occasioni in cui aveva sentito e sentiva il tocco di Dio e il suo passaggio nella propria vita, quello che più abitualmente chiamiamo «vocazione»: la sua famiglia e la parrocchia di origine a Bresso; il gusto per l’osservazione della natura e delle stelle – ben contento quando il papà a 14 anni gli aveva comperato un telescopio, preludio a quell’interesse scientifico che lo aveva portato a laurearsi in fisica, laurea di cui andava fiero; l’incontro con il movimento di Comunione e Liberazione, un’esperienza cristiana di cui sentiva forte la qualità formativa e «impegnata», e che per lui fu determinante; Russia Cristiana, dove aveva incontrato la Divina Liturgia e padre Romano Scalfi, figura di riferimento, che lo aveva presentato al Seminario di Bergamo e da cui si sentiva in qualche modo indicato come erede. Ricordo la sua esclamazione udita in Seminario ai tempi della formazione: «Quando incontrai per la prima volta la Divina Liturgia sentii che quello era il Paradiso!». Infine, l’inserimento nel presbiterio diocesano, di cui cercava di cogliere la spiritualità e di assimilarla.

Giunto in Seminario, si mostrava persona attenta all’approfondimento teologico della fede, era sempre desideroso di capire, partendo da quanto aveva già conosciuto e approfondito in precedenza. E così aveva cercato di fare anche in seguito, nel desiderio di mantenere fede a quella parola di Gesù: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituito».

Dal punto di vista pratico, restava primario il riferimento alla esperienza e alla «vocazione» di Russia Cristiana, verso cui ultimamente si stava davvero orientando con sempre maggiore decisione e dedicazione di tempo: lo si vedeva realmente sempre più positivamente addentro nelle incombenze che quella chiamata gli richiedeva.

In particolare, nell’esperienza per lui esaltante e coinvolgente della celebrazione col rito bizantino in antico slavo: «Qui – scriveva ancora su Alere – ho incontrato una comunità esplicitamente centrata sulla celebrazione eucaristica. Questo infatti stavo cercando: se c’era un pezzetto di realtà, di spazio e di tempo nel quale l’universo poteva diventare trasparente, quello doveva essere la liturgia».

Anche in parrocchia la sensibilità per le Chiese orientali, ortodosse e cattoliche, lo appassionava ed era molto contento quando in qualche modo poteva trasmettere qualcosa di questa attenzione:

«Lasciamoci allora coinvolgere dalla bellezza di questa tradizione e impariamo anche noi a effondere con insistenza il nostro affetto al Dio che ci ha creati, amati e redenti»,

aveva detto in una catechesi e poi scritto sul giornale parrocchiale.

A motivo anche di questa appartenenza, sentiva molto vivamente il conflitto russo-ucraino, in cui distingueva accuratamente la straordinaria spiritualità del popolo russo (e ucraino) dalle derive – purtroppo ben note – della attuale dirigenza. Qualche mese fa aveva chiesto e ottenuto di potersi recare a Mosca, e poi in Georgia e nel Montenegro, per consultare gli archivi riguardanti Pavel Florenskij e ne aveva parlato come di un momento assai significativo. Era meravigliato anche dalle manifestazioni della gente a favore di Naval’nyj.

«Nulla va perduto»

(F. Andreotti)

«Nulla vada perduto»

«Nulla vada perduto», aveva detto Gesù dopo la moltiplicazione dei pani, e ho letto da qualche parte che Pavel Florenskij avrebbe commentato questa frase volgendola all’indicativo: «Nulla va perduto». Anche questo sentiamo importante per noi oggi, pensando a don Paolo.

Nelle testimonianze di questi giorni, pur sofferte per ovvi motivi, viene fuori molto del bene che don Paolo ha seminato e che, appunto, non va perduto.

Ascoltava volentieri, tanto più nella confessione, che era uno dei suoi compiti principali; la benedizione delle case, in particolare, la faceva con gioia: l’avevamo ripresa quest’anno, col suo ritorno dalla Svizzera, e la viveva come esperienza missionaria di una Chiesa che non attende, ma «esce» – lo diciamo oggi con il pensiero commosso rivolto a papa Francesco. Non sottolineava i rifiuti, ascoltava bambini, anziani e, quando veniva accolto, i giovani. Una sensibilità particolare aveva per i non pochi cristiani provenienti dall’Est residenti tra noi e anche ultimamente aveva confidato di aver pregato il Padre nostro in antico slavo con una persona che aveva incontrato durante la benedizione.

Non diceva mai cose banali e la sua predicazione era fortemente concentrata sull’essenziale del messaggio evangelico – sentiva in ciò esplicitamente l’eredità di padre Romano. Relativamente a questo, mi ha sempre colpito che la sua formazione scientifica lo metteva in grado di ascoltare domande che stanno sul confine tra fede e domande «umane». È particolarmente interessante quanto scriveva a proposito della sua attenzione per il mondo della fisica:

«Mi iscrissi all’università nella facoltà di fisica. Che cosa grandiosa scoprire che, interrogando la natura con il linguaggio giusto, essa ci svela i suoi segreti e addirittura può fiorire in cose nuove che senza l’aiuto dell’uomo essa stessa non riesce ad esprimere».

Ricordo solo questo del bene che ha seminato. La sua morte, in un momento in cui aveva esplicitamente molti programmi per il futuro, ci ha sconvolti. Lo sentiamo tutti, non c’è bisogno nemmeno di dirlo. Però ci è chiesto di fare un ulteriore atto di fede autentica: il Signore non ha scelto angeli di perfezione per incontrarci e beneficarci, bensì uomini con ricchezze e fragilità. Se il Signore è passato nella nostra vita tramite don Paolo, riconosciamolo e ringraziamolo. Per don Paolo invece preghiamo tanto, perché il Signore gli faccia conoscere la luce del suo volto.

E per noi preti l’invito a ritrovare ancora più saldamente le ragioni del nostro ministero, di noi che il Vangelo qualifica come servi inutili – ma chiamati a fare con passione e dedizione «tutto quanto dobbiamo fare» (Lc 17,10), – testimoni della misericordia che Dio ci ha fatto conoscere e di Gesù, nostro unico Salvatore.


(Foto di apertura: Federico Andreotti)

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