1 Febbraio 2016
Donbass, storie di guerra
Un pastore protestante rischia la vita per aiutare i profughi. Nel Donbass strangolato dai profittatori insegna la responsabilità civile. “La guerra mi ha insegnato che tutto sta nella persona. Al diavolo non interessa sotto quali bandiere militi”.
Intervista: di T. Zarovnaja a S. Kosjak
Sergej Kosjak, 40 anni, è un pastore protestante di Doneck. Il 20 gennaio scorso ha raccontato a Tat’jana Zarovnaja, corrispondente di un portale ucraino la sua esperienza diretta nella Repubblica popolare di Doneck. Kosjak è uno dei numerosi civili che si sono presi l’iniziativa di aiutare la gente travolta dalla guerra nel Donbass. Ha aperto dei centri di assistenza umanitaria a ridosso del fronte; all’inizio della guerra, assieme a un gruppo di volontari, ha evacuato circa 15.000 persone. Aiuta tutti senza distinzione, a prescindere dalla militanza politica e confessione religiosa. È stato rapito e seviziato dai combattenti della DNR per aver organizzato nel centro di Doneck una maratona di preghiera per l’Ucraina. In seguito alle violenze subite e alle minacce alla famiglia, Kosjak si è trasferito in Ucraina, appena oltre il confine, per continuare ad aiutare i profughi.
Lei ora vive nella cosiddetta «zona grigia» dell’ATO [Operazione Anti Terrorismo ucraina], cosa vuol dire?
Il concetto di ATO è molto elastico. Le città della zona grigia si trovano tra i punti di controllo della finanza e della guardia di frontiera e il posto di blocco zero, cioè il punto estremo sotto controllo ucraino. Poi c’è ancora la zona cuscinetto (o zona rossa) che sta fra il posto di blocco zero ucraino e il posto di blocco zero della DNR. Noi ci spingiamo anche nella zona rossa, anche se è terra di nessuno. La zona grigia è territorio ucraino, tuttavia per potervi entrare bisogna avere un lasciapassare o un permesso speciale del Comune. Non ci si può portare più di 50 kg di effetti personali, come per un qualsiasi transito di frontiera. E questo è un bel problema per chi abbia una qualsiasi attività, perché gli agenti della finanza hanno in mente solo i dollari.
Senza di lei questo sarebbe un territorio dimenticato da Dio e dagli uomini…
Direi piuttosto: senza le organizzazioni umanitarie. Sono presenti anche la Croce Rossa e un’organizzazione ceca. Senza di loro la gente non potrebbe sopravvivere. C’è un’amministrazione mista militare-civile, c’è il comandante della città. Krasnogorovka, Mar’inka, Peski sono tutte nella zona rossa, è territorio ucraino, ma non ci si può andare. Ci saranno ancora una decina di civili, a loro è l’esercito che dà da mangiare.
Anche nella zona grigia ci sono sparatorie continue, perché ci passa la linea del fronte e c’è una strana guerra incomprensibile. Appena cala il buio cominciano a sparare con le armi pesanti. A quanto pare, adesso i separatisti e gli ucraini hanno imparato a centrarsi a vicenda, e non cadono più proiettili sui quartieri abitativi. Ma alle 2 del pomeriggio la vita si ferma, tutti si nascondono in casa. La parte del villaggio di Mar’inka che rientra nella zona rossa non ha neanche una panetteria… Basta allontanarsi 10 km da Mar’inka e tutto torna tranquillo. Le banche sono chiuse, mentre l’ospedale e le scuole funzionano. A Mar’inka sono rimaste due scuole, a Krasnogorovka una (di cinque che erano), le altre sono state bombardate. Ci sono tre direttori in una scuola sola.
È vero che a Krasnogorovka è già il secondo inverno che sono senza riscaldamento?
Sì. Un anno e mezzo fa hanno colpito le tubature del gas, e tutte le caldaie sono a gas. La gente un po’ si è arrangiata, l’importante è avere la luce. Negli edifici privati riscaldano col carbone, con la legna. Prima c’erano una fabbrica di congelatori e una di mattoni, adesso non c’è più nessun lavoro. Noi portiamo carbone, legna; certe volte li compriamo, altre volte ce li regalano. Invece nei condomini la gente si scalda solo con le stufette elettriche anche se non paga l’elettricità, non ci sono soldi e i debiti sono enormi. Anch’io vivo così: senz’acqua né riscaldamento, in una stanza di due metri per tre che scaldo con la stufetta, e ci sto bene, ma è micidiale andare in bagno, dove la temperatura è come quella esterna. Nei palazzi grandi la gente sopravvive così: si stringono tutti in una sola stanza, circondati da stufe di metallo; gliele abbiamo portate noi. È vietato usarle negli appartamenti, solo al pian terreno si può.
La gente si abitua a tutto… Ricordo che in estate in una via combattevano, e nella via accanto giocavano a domino. Anch’io, per non aver paura, mi metto gli auricolari e mi guardo un film sul notebook. Poi un mattino mi sono alzato e ho scoperto che la mia auto, parcheggiata vicino a casa, aveva quattro buchi.
C’è l’opinione che i procuratori della DNR e i poliziotti ucraini, insomma che i funzionari non si facciano la guerra tra loro…
La guerra di sicuro non la fanno i militari ma i politici. I burocrati e le forze dell’ordine hanno il business in comune. Quando volevo portare gli aiuti umanitari a Doneck, mi sono rivolto a uno che conosco nella Pubblica Sicurezza ucraina, la SBU, per sapere come fare. Risposta: «Per ogni chilo devi pagare dalle 5 alle 10 grivne, a seconda del carico totale. Se il camion è di 25 tonnellate, ci vogliono 250 mila grivne».
Anche se si tratta di aiuti umanitari?
Per loro non fa differenza. Hanno un sistema di tariffe prestabilito. E la cosa interessante è che garantiscono la sicurezza del tuo carico dal punto di partenza alla consegna, per tutto il territorio della DNR. Gli agenti ucraini e quelli della DNR hanno la cassa che li unisce, il business. Per loro è semplicemente un sistema per guadagnare soldi. Chiuso. I finanzieri e i doganieri usano lo stesso sistema, come usava al confine con la Polonia. Vendono i posti in coda, e se la dogana chiude alle 18 ma tu vuoi passare, paghi e vai… E se non paghi, ti creano tali difficoltà che puoi spararti.
E come vede il fatto che per Capodanno alcuni volontari sono andati in vacanza al mare, e qualcuno, raccogliendo aiuti per i soldati, si è fatto l’auto nuova? Oggi molti volontari scrivono sui social media di essere rimasti delusi, che vogliono smettere.
C’è anche questo. A me è capitato di avere per le mani un milione di grivne al giorno. E questa è una grande tentazione. Tutti soldi non rintracciabili. Per questo cerco di liberarmi dei soldi il più presto possibile. Penso di essere uno dei volontari più spendaccioni. Solo se bisogna accumulare in vista di qualcosa di preciso non spendo subito tutto. Se no cerco di spendere immediatamente le offerte. Bisogna avere senso di responsabilità e timor di Dio, perché il peccato e l’avidità mi offrirebbero un mucchio di giustificazioni per farmi tenere i soldi.
Lei conosce volontari che ne approfittano e si arricchiscono?
Alcune organizzazioni di volontariato vivono di questo, l’impegno sociale è il loro lavoro. All’inizio dell’operazione antiterrorismo arrivavano cifre enormi dalla gente; alcuni davano migliaia di dollari in un colpo solo. Quando ho avuto tra le mani i primi mille dollari mi sono spaventato: potevo cascarci anch’io! Ma poi subito si è presentata l’urgenza di evacuare la gente! Per farlo spendevo 15.000 grivne al giorno (nell’estate del 2014). Avevo messo in piedi un vero sistema per le evacuazioni. Abbiamo attivato prima due, poi quattro, poi sei telefoni di pronto intervento. I volontari stendevano gli elenchi, spiegavano dov’era il punto di raccolta, poi passavano gli elenchi ad altri volontari che si recavano al punto d’incontro; una contabile noleggiava gli autobus. I volontari facevano salire la gente in base agli elenchi. Poi a Slavjansk li aspettavano altri volontari che li sistemavano nei vari centri profughi. Adesso ci è rimasto un unico centro per le persone che non sono state capace di inserirsi, e che resteranno per sempre a nostro carico.
Come si può soccorrere la gente senza creare dei mantenuti a vita?
Chi viveva a carico dello Stato non è capace di essere autosufficiente. Non sono tantissimi, ma nell’unico centro di raccolta rimasto ne abbiamo una ventina a carico ancor oggi: una madre sola con sette figli, un paio di handicappati… per me dire «persone a carico» non ha un significato negativo.
Io vedo la mia missione nel riuscire a cambiare il luogo dove viviamo. Nell’aiutare la gente, vorrei cambiare lo stato d’animo della società, fare che la città diventi migliore e più felice. Il bene deve poggiare su un’idea, penso io…
Quando fai del bene acquisti autorevolezza. Noi stiamo a Mar’inka da sei mesi, e recentemente mi hanno raccontato che qualcuno ha messo su internet il caso di una donna malata con due bambini. Gli abitanti, gente che vive molto stentatamente, hanno raccolto 2000 grivne, e guardi che per Mar’inka è molto. I soldi non li hanno mandati dall’America… La gente di qui, in miseria com’è, ha sborsato per una vicina ancora più in miseria. È da qui che comincia a cambiare la società. A me è capitato lo stesso con la legna, ho ricevuto dei tronchi interi e ho detto: chi vuole la legna, la tagli per sé e per il suo vicino. Ed è iniziata una vera staffetta. La gente lo faceva volentieri. Chiunque può essere spiritualmente ricco, è bello e facile. Solo che mancano gli esempi, ed io voglio essere un esempio per gli altri.
Succede che la gente accolga gli aiuti senza riconoscenza?
Capita. Ma l’ingratitudine è anch’essa una cosa normale. Bisogna continuare a fare quello che si fa e il risultato verrà. Ciascuno può fare qualcosa… Non bisogna neppure aspettarsi un «grazie». Anche se di solito la gente ringrazia…
Cosa può insegnare la guerra agli ucraini?
A me ha insegnato che lo spirito unisce. Che a Satana non interessa sotto quali bandiere militi, della DNR o dell’Ucraina. E che la gente comune può fare più di una squadra di impiegati. A me la guerra ha insegnato che tutto sta nella persona. Attorno alle persone grandi di spirito avvengono sempre dei cambiamenti in meglio.
Ma la percentuale di persone attive e di spirito elevato non sta crescendo nella società…
La guerra ha messo a nudo chi siamo veramente, e una piccola percentuale, diciamo un 3% di persone attive basta a cambiare il paese. Bisogna sviluppare le comunità locali, assumersi la responsabilità e cambiare le situazioni dal basso. Da noi si usa dire: andiamo a Kiev! Perché mai? Tu impedisci a casa tua che l’impiegato rubi, fallo lavorare. Ovunque c’è il movimento dei volontari c’è un punto di partenza per lo sviluppo delle comunità locali. Io vedo il futuro in questo processo. È un cammino lento ma sicuro, quello di assumersi la responsabilità del destino delle cittadine e dei villaggi, per sviluppare le comunità locali.
Insomma, per cambiare il paese non c’è bisogno di un terzo Majdan con spargimenti di sangue?
Non avrebbe senso. Ci sono altre vie per avere un’Ucraina qualitativamente migliore. Imprechiamo contro il presidente alla televisione e poi, appena arriviamo ad avere una piccola fetta di potere diventiamo peggio di lui… l’uomo è sempre lo stesso. La nostra gente si unisce volentieri per andare «contro», è pronta a cambiare il presidente. E poi? Mentre metterci insieme «per qualcosa» non ci viene altrettanto bene, la nostra foga si spegne. E così succede che buttare una cicca di sigaretta nel cestino è più difficile e più patriottico che gridare «gloria all’Ucraina». Il risveglio ci sarà quando ci assumeremo la responsabilità del nostro pianerottolo, del nostro quartiere. Quando dei piccoli gruppi si assumeranno la responsabilità di una cittadina come Krasnogorovka e Mar’inki, e quando lì si starà meglio che a Kiev, la gente si chiederà come mai.
Quando potremo dire: ha vinto il Majdan?
Il Majdan è diventato un oggetto d’orgoglio; certe volte a Kiev dicono: «Noi il nostro Majdan lo abbiamo difeso, e voi non potevate buttarvi sotto i carri armati?». E invece il Majdan lo hanno perso. Io penso che la gente avesse un grande spirito di libertà e che il Majdan sia stato semplicemente una piattaforma. Le sue idee erano buone, ma la pura vittoria fisica sui russi, o su quelli della DNR non cambierà niente… Anche se Doneck e Lugansk tornassero all’Ucraina niente cambierebbe. Quando invece l’uomo comune si vergognerà di rubare, vorrà dire che il Majdan ha vinto.
Anche la fase della delusione ci vuole. Perché la gente smetta di credere nel padre-padrone, nel presidente che ci verrà a salvare. Si può arrivare a scuotere la società se si comincia a scuotere se stessi…
L’uomo peggiore è quello che vive dentro di me, sono io. Tutti nascono buoni, e ad un certo punto l’uomo buono diventa Janukovič. Perché Janukovič è in ciascuno di noi. Dobbiamo continuamente lottare contro noi stessi. I soldi dei volontari passano per le mie mani, ed io so che per non chiudere il pugno devo essere onesto nonostante la tentazione, devo essere forte…
Dove si vedono, secondo lei, i cambiamenti della nostra società?
Il processo è iniziato, ancora non si nota ma il meccanismo è partito… Stiamo cominciando a capire che vivendo come prima uccidiamo noi stessi, il nostro futuro, la nostra discendenza. La gente comincia a non voler più vivere così. Rubare sta diventando fastidioso. E i funzionari che rubano presto faranno schifo a se stessi.