18 Febbraio 2021
Un’incredibile esperienza notturna
Le persone arrestate alle manifestazioni di Mosca e condannate a vari giorni di prigione, vengono poi rilasciate in aperta campagna e in piena notte, al gelo. Potrebbe essere un’ulteriore tragedia, se non ci fossero i volontari… Una giovane moscovita racconta l’incredibile esperienza di umanità vissuta la notte del 16 febbraio.
Io e Musja Sarab’janova ieri abbiamo fatto un’esperienza stupenda che vorrei proprio condividere, anche se non so davvero se riuscirò a metterla in parole.
Abbiamo deciso di andare a prendere all’uscita qualcuno dei ragazzi finiti a Sacharovo, al Centro di raccolta per migranti, dopo i ben noti fatti delle manifestazioni.
Musja si era scritta coi volontari che trovano le auto per riportare a casa i ragazzi (li chiamano «i diplomati») e aveva organizzato per bene il viaggio. Io facevo da autista.
Dovevamo trovarci sul posto all’una di notte. Con tutta sta neve ci voleva un’ora e mezza o due. Ci siamo messe in macchina e siamo partite.
Che viaggio è stato!
Mentre andavamo sulla strada ingombra di neve, nel buio pesto, Musja si scambiava messaggi con una donna che credevamo fosse una volontaria, e invece poi abbiamo capito essere la mamma del ragazzo che stavamo andando a prendere. Lei sta in un’altra città, e possiamo immaginare come abbia vissuto i 14 giorni di fermo che suo figlio ha trascorso a Sacharovo.
Ma il nostro viaggio non è stato cupo e spaventoso: più andavamo avanti e più eravamo felici e trepidanti (non so come descrivere correttamente questo sentimento), avevamo la sensazione di una totale sintonia con quelle persone assolutamente sconosciute, la percezione di una spalla forte: una cosa che non ha paragoni possibili.
Quando siamo arrivate al Centro raccolta, abbiamo visto il quadro che ci si poteva aspettare: dei cubi di cemento anonimi e tenebrosi, filo spinato e pannelli metallici di recinzione.
MA… Lungo la recinzione c’erano delle auto, nelle auto si scaldavano delle persone, e aspettavano. Una delle auto era quella dei coordinatori, ai quali potevi scrivere o presentarti di persona. Il loro compito era far sì che nessuno rimanesse senza passaggio, in modo che tutti potessero tornare a casa. Avevano anche cibo e tè caldo, e caricatori per i cellulari.
A un certo momento, verso l’una e mezza, hanno lasciato andare i ragazzi. Tutti ci siamo lanciati loro incontro, ad abbracciarli e distribuirli sulle macchine.
Anche il nostro ragazzo è uscito.
Santo cielo, si è rivelato così simpatico e così giovane! E lui era talmente felice di essere stato liberato e che qualcuno lo stesse aspettando.
Un giovincello che studia matematica e adora gli scacchi; ha raccontato che lui e i suoi compagni di cella hanno fatto le pedine col pane; che i ragazzi assieme a lui erano molto simpatici; che all’uscita aveva cinque confezioni di spazzolini da denti (perché glieli passavano gli altri), e che aveva letto molto.
Ci ha raccontato come lo avevano preso, e che avevano fermato anche tutti gli amici che erano con lui.
Ci ha raccontato delle prime 40 ore, veramente difficili, e di come lo hanno interrogato.
Ci siamo lasciati con un abbraccio; abbiamo ringraziato lui e sua mamma, e lui ha ringraziato noi. C’era un gran gelo, la neve e una grande bellezza.
Vorrei dire una cosa importante:
Facebook, i telegiornali e tutta questa atmosfera orribile e inquietante sono una cosa ma la vita, comunque, è sempre un po’ di più.
Quel ragazzo non doveva stare dentro 14 giorni, nessuno di loro doveva.
E non dovrebbero stare lì neppure gli immigrati che sono chiusi là dentro, e che nessuno aspetta fuori.
Ma andare fin là, fare conoscenza coi volontari e chiacchierare con loro, vedere tutto questo dal vivo è stata un’esperienza inestimabile. E in questa esperienza c’è la speranza, non la solita rabbia estenuante e il senso d’impotenza.