- HOME /
- ARTICOLI /
- 2024 /
- Recensioni /
- Oltre la soglia del dolore e del buonismo
25 Agosto 2024
Oltre la soglia del dolore e del buonismo
Desiderare la pace senza portare ulteriore offesa alle vittime. Immedesimarsi nella tragedia, al di là delle belle frasi pietose, è l’invito che ci viene dalla giornalista russa Gordeeva, spericolatamente esposta sul fronte della guerra.
Katerina Gordeeva è una famosa giornalista, con alle spalle una lunga esperienza di interviste nei luoghi e nelle situazioni più problematiche; il suo ultimo libro uscito in italiano, Oltre la soglia del dolore, presenta ancora una volta interviste difficili: 24 voci ucraine e russe recuperate nella tragedia della guerra in corso. L’autrice ha spiegato di averle raccolte per girare un documentario ma, dopo averlo realizzato, si è resa conto che quelle voci continuavano a tormentarla e sarebbe «impazzita» se non le avesse messe per iscritto. Il libro è appunto la trascrizione di quelle voci, che adesso permetteranno al lettore di fare l’identico percorso dell’autrice: superare il non senso e la follia che sono il destino inevitabile di chiunque non conservi la memoria del male del mondo e creda di poterne cancellare gli effetti semplicemente non guardando, non ascoltando, tacendo e censurando lo scandalo del male stesso.
Non si può tacere se si vuole restare persone normali, degne della propria umanità; come racconta una russa che ha lasciato il proprio paese nel 2014, dopo l’annessione della Crimea:
«Me ne sono andata per la vergogna. Mi sembrava importante salvare la mia dignità, se preferite, normalità. Sono rimasta sconvolta quando ho capito che i cittadini del mio paese erano pronti a far finta che non stesse succedendo niente, che per conservare la loro zona di comfort erano pronti a nascondere la testa sotto la sabbia. Si tratta di una psicosi silente estesa a una nazione intera. E io non volevo esserne compartecipe. […] Ero pronta a lavorare dalla mattina alla sera per essere utile, per espiare la colpa».
E sbaglieremmo radicalmente se credessimo che questo concerna solo i russi che ne sono i diretti responsabili: per quanto la tragedia in atto ci possa sembrare lontana tanto da non coinvolgere la nostra responsabilità, essa riguarda invece ciascuno di noi; anzi, forse, quanto più crediamo che non ci interessi, quanto più crediamo che rientri in uno dei tanti casi sfortunati della vita e della storia, e che possa essere risolta con qualche trattato o accordo diplomatico, tanto più contribuiremo non ad avvicinare la pace ma ad allontanarla, perché, come dice una profuga che ha raggiunto una relativa tranquillità in Polonia, quello che è accaduto e continua ad accadere in Ucraina ha sconvolto l’umanità sin nelle sue radici:
«Sì, qui è bello e tranquillo. Anch’io dovrei essere tranquilla, ma non sono niente. Per me è tutto indifferente. E l’animo non ha pace».
Questo nichilistico «non sono niente», che il libro documenta angosciosamente a ogni pagina, dà l’idea della profondità e dell’universalità della tragedia, dove è l’io stesso dell’uomo a essere distrutto, prima ancora che nel suo fisico, nella sua essenza stessa, resa simbolicamente nelle interviste con la figura ricorrente della casa:
«La perdita della casa (…) non sembra così crudele come un bombardamento, ma ferisce non di meno» così che, «se anche non ti ferisce, la guerra ti consuma il cuore».
Gordeeva ripercorre questa tragedia in tutti i suoi aspetti, non ce ne risparmia nessuno: c’è la profondità del male consumato, la vastità dell’odio che esso suscita per reazione e, alla fine, anche (ma sospesa alla sfida imperscrutabile della libertà) l’affacciarsi dell’eccezionalità della risposta che ci è necessaria per far fronte a questi abissi.
La profondità del male
A dispetto di tutta la propaganda che continua a inventare ragioni per giustificare un’aggressione ingiustificabile (l’inesistente «genocidio dei russofoni», la pretesa di disarmare un paese che aveva già rinunciato al proprio arsenale nucleare in cambio dell’intangibilità delle frontiere, ecc.), in ogni pagina c’è dunque la profondità del male, quella che risulta in tutta la sua straordinarietà non appena ci si rende conto che l’invasione non solo non voleva dare la libertà agli ucraini, ma voleva umiliarli e poi ridurli al puro nulla:
«Sono arrivati i soldati. Sparavano, pisciavano e cacavano nelle nostre case, nelle case dove noi vivevamo, dove noi ci amavamo. Loro le coprivano di escrementi»; e alla fine, il progetto era proprio quello di una radicale distruzione: «Noi tutti vivevamo, amavamo, parlavamo nella lingua in cui avevamo voglia di parlare», mentre in realtà i russi «erano venuti per annientarci».
La vastità dell’odio
E di fronte all’abisso del male nella sua follia ultima, c’è la sorprendente e lucida coscienza del meccanismo che questo male scatena, una coscienza che, resa così esplicita, potrebbe aiutare a vincerlo:
«Quello che abbiamo vissuto è lo stesso che vivono tutti quelli che finiscono prima nel tritacarne della guerra e poi nella tragedia dell’odio innescato dalla guerra».
Ma la ragione, la coscienza di un «tritacarne» che diventa «tragedia», non basta a spezzare la meccanica del male e a trascendere la vastità dell’odio suscitato: «non voglio odiare, ma non posso evitarlo. Questo odio mi consuma, mi dà la nausea, ma leggo quello che ancora continuate a farci e non riesco a fermarmi»; «ho così tanto odio, rabbia, così tanto nero dentro che non potrò mai né capire, né perdonare». Certo, la ragione resta anche là dove gli aggressori volevano estirparla, la loro brutalità non cancella la coscienza della grandezza di una tradizione come quella russa, ma questo non basta più:
«Io sono cresciuta e sono stata educata nella cultura russa, abbiamo sempre parlato russo, ma ora odio questa lingua, è la lingua della guerra. E non mi venga a raccontare di Puškin. Magari poi, fra qualche centinaio di anni, ci ricorderemo del vostro Puškin. Per il momento seppelliamo i nostri figli, seppelliamo la nostra città, la nostra vita».
E non c’è solo la coscienza di una grandezza passata ma, commovente, toccante, c’è anche la consapevolezza ricorrente di quanti russi si oppongano alla politica del loro governo (come ha fatto la stessa Gordeeva che, in protesta contro l’annessione della Crimea, aveva lasciato Mosca già dopo il 2014), rischiando spesso la vita e «tutto quello che hanno al mondo» contro «la spropositata macchina repressiva russa», ma neppure questo basta più: nel migliore dei casi le vittime guardano ai russi che cercano di aiutarli, considerandoli comunque «corresponsabili»; nei casi peggiori, tutt’altro che infrequenti, la reazione pare definitivamente disperata e intransigente:
«Ma la sai una cosa? Vattene affanculo con la tua pietà, con la tua compassione, con le tue domande. Vattene affanculo con i tuoi sforzi di capirci. Affanculo. Tu e il tuo paese, andatevene affanculo. Dovete crepare (…). Te lo dico a nome di tutto il popolo ucraino: vaffanculo. Vattene da qua in questo stesso istante. E la porta non chiuderla, fai cambiare l’aria».
La profondità della risposta necessaria
E il dolore pare diventare insuperabile, tanto più quanto ci si rende conto che questo male non è il frutto di qualche inimicizia secolare tra popoli vicini o anche solo del male congenito dell’umanità, nella quale dai primordi il fratello odia il fratello, perché è chiaro, invece, che la guerra non è scoppiata per caso ma è stata scatenata in nome di principi a lungo pensati ed elaborati, la malefica ideologia del «mondo russo», che ha fatto di questa guerra uno scontro metafisico, addirittura una «guerra santa» (secondo le inqualificabili espressioni utilizzate dal patriarca Kirill):
«Qui la vostra vita continua tale e quale a prima [dice un’ucraina intervistata in Russia], e a noi non resta più un fottuto accidente. E c’è anche chi ci ha lasciato le penne. Ecco, questa gente per cosa è morta? Per il pacifico mondo russo? Per le idee? Ma per quali cazzo di idee? Per le idee del vostro Putin, per la sua mania di grandezza? Ma andatevene affanculo con le vostre idee, andatevene affanculo con il vostro Putin».
Per rispondere a tanto male, al diabolico male di «questo pacifico mondo russo che denazifica a morte le vecchierelle», davvero non bisognerà mai dimenticarne la radicalità, una radicalità che, come si diceva all’inizio, attraversa tutto il libro e tocca l’essere stesso dell’uomo e il suo desiderio di pace.
Così, dopo la condanna definitiva e inappellabile delle idee (nella loro negazione della realtà), sarà l’uomo nella sua integralità che dovrà essere ricostruito, nella sua fisica quotidianità e nella sua quotidiana ricerca di un senso nel cui nome vivere: «Adesso per qualche motivo provo un particolare disgusto per il fatto di parlare e pensare in russo. Eppure io l’ucraino non lo so, ci pensa? [è sempre un’ucraina a parlare, anche in questo caso paradossale] Tanti anni ancora e non lo so. Ma adesso voglio impararlo. Studierò. Non voglio parlare la lingua di chi ha ucciso tutti quelli che amavo, che ha annientato tutto quello che avevamo. Lo sa che adesso invitano gli abitanti di Mariupol’ a tornare in città per vivere sotto i russi?
Non so come se lo figurano che io girerò per le strade dove c’è il corpo di mio figlio, di mio marito, di suo padre? Chi bisogna essere per accettare una cosa del genere?».
È un livello profondamente e abissalmente esistenziale quello a cui si pone questa domanda, un livello che è difficilmente immaginabile, se non impossibile da immaginare, per chi come noi non ha conosciuto situazioni simili; ma è a questo livello che dovremo cercare di innalzarci ogni volta che parleremo, e necessariamente, di pace e di perdono, perché le nostre parole non diventino quelle degli amici di Giobbe e, peggio, portino un’ulteriore offesa alle vittime.
Sarà per tutti una strada lunga, solo alla fine della quale potremo attenderci il premio del perdono; prima bisognerà ricominciare a cercare di vivere, come risponde una profuga a Katerina Gordeeva che le chiede se gli ucraini potranno mai perdonare i russi:
«Tutto si può perdonare, la questione è quale lezione avremo tratto da tutto questo, cosa capiremo, come impareremo di nuovo a vivere. Non possiamo cambiare vicini. Il problema allora non è perdonare, ma come convivere».
Solo allora, attraverso quel giudizio che diventa sempre più inevitabile proprio per cercare di superare la giustizia sommaria, si potrà pensare di poter superare anche l’odio e, dopo una punizione ancora inesorabile («Se l’inferno esiste, per quelli che hanno scatenato questa guerra dovrà apparire così: un sotterraneo, un bambino che di continuo nasce e muore, e i dannati sanno con certezza che la colpa è loro»), si potrà fare un ulteriore passo in avanti: «Sa, non voglio che lui, che quelli che ci hanno fatto questo, provino quello che abbiamo provato noi.
No, non voglio comunque che tocchi anche a loro. Ma voglio che capiscano cosa hanno fatto. E lo riconoscano. E questa sarà già una punizione».
Non sarà ancora perdono, ma un nuovo passo, non solo oltre l’odio, ma almeno per cominciare a vedere negli altri qualcosa di più di un nemico: è l’umano buon senso di chi si chiede «di dolore ce n’è già abbastanza per tutti. Perché moltiplicarlo?», nell’attesa e nella speranza di un altro livello, altrimenti soltanto retoricamente auspicato, quello di un’impensabile misericordia, come dice un’altra profuga ucraina:
«Un livello superiore di misericordia, non per qualcuno in concreto, ma solo (…) un atteggiamento di premura nei confronti degli altri, che dovrebbe essere innato in tutti noi, solo in quanto esseri umani. Ma alcuni lo pèrdono molto presto. E si disumanizzano».
Il problema che abbiamo dunque di fronte è proprio quello di ritrovare le vie dell’umanità, innanzitutto per noi, senza pretese nei confronti delle vittime, e cercando invece noi stessi di cominciare a superare il male, come in fondo ci chiede una delle voci che appaiono nel libro, quella di una bimba che continua a sentire i discorsi dolenti degli adulti e implora:
«“Basta parlare di questo”. “E di cosa dovremmo parlare, Katja?” le chiedo io con l’oscena speranza dell’adulto che i bambini, in quanto puri e innocenti, sappiano meglio, direttamente da Dio. “Del bene” risponde Katja. “Del bene?”. “Sì”. Serra le spalle, e senza particolare pausa né passaggio dice alla mamma “Voglio dormire, prendimi in braccio, non mi tengo in piedi».
Dio sembra così lontano in queste pagine e invece sorprendentemente appare là dove il dolore è più insopportabile e più ingiustificabile, nella forma del dolore di un bimbo, là dove sembra che non vi siano più «parole per chiedere perdono» e dove si manifesta così anche la sola soluzione al problema: affidarsi all’abbraccio di Dio, che non sospende la nostra responsabilità, ma la sostiene, con una forza che è molto più grande ed efficace dei pur necessari accordi diplomatici e però, paradossalmente, passa attraverso il cuore dell’uomo come dono di Dio.
Foto di apertura: Bachmut (Astra)
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI