27 Maggio 2022
Come abbiamo potuto? Un grido dalla Russia
La storica russa Elena Beljakova racconta della sua vita sconvolta dopo il 24 febbraio. Dell’angoscia, delle prospettive oscure per il suo paese. Nell’intervista il grido di chi non smette di ripetere che la guerra è una «sciagura per tutti».
Come ha vissuto personalmente la nuova situazione venuta a crearsi? Quale priorità vede per sé dopo il 23 febbraio?
Ho vissuto il 24 febbraio come una catastrofe che ha dato un colpo di spugna a tutta la mia vita. Nella mia vita ho insegnato a lungo, in scuole, istituti di teologia, all’Università statale di Mosca, ho partecipato a innumerevoli convegni scientifici, teologici, ho scritto libri, articoli. Mi sembrava di seminare, come dice il poeta Nekrasov, «ciò che è saggio, buono ed eterno». In un giorno solo tutto questo è stato spazzato via, tutto ciò che avevo fatto è crollato, sono iniziati avvenimenti irreversibili dai quali avevo cercato di mettere in guardia, e a cui da tempo tentavo di oppormi. È terribile a dirsi, ma mi tornano alla mente i fatti del 1968 (l’invasione sovietica della Cecoslovacchia), l’inizio della guerra in Afghanistan (1979), la prima e la seconda guerra cecena (1994-1996; 1999-2000), l’invasione della Georgia (2008), la guerra in Siria. Non dimenticherò mai la telefonata ricevuta nel cuore della notte dalla mia ex-studentessa georgiana Chatuna: «I vostri carri armati stanno marciando su Tbilisi, preghi per noi».
Quando nel 2014 iniziarono i fatti del Donbass migliaia di persone, come per tacito accordo, si radunarono davanti al quartier generale delle forze armate, scesero sulla piazza del Maneggio. Ma chi scandiva lo slogan «per la pace nel mondo», che in epoca sovietica era esposto su tutti i muri, adesso veniva arrestato. Decine di migliaia di persone partecipavano alle marce per la pace a Mosca. L’assassinio di Boris Nemcov alla vigilia di una di queste marce bastava già a testimoniare che la pace era invisa alle autorità.
Io ero assolutamente certa che il 24 febbraio o il sabato successivo, il 26, tutta Mosca sarebbe scesa in piazza a protestare. Ma non è successo. Io penso che qui abbia influito l’esperienza di scioglimento delle manifestazioni pacifiche a sostegno di Aleksej Naval’nyj, dove si contarono migliaia di arresti. Naturalmente, noi moscoviti siamo scesi in via Tverskaja, a famiglie intere, gridando «No alla guerra», ma non c’era di certo tutta Mosca. Non c’erano organizzatori, non c’erano leader decisi ad assumersene la responsabilità. Come nelle precedenti proteste, c’erano in prevalenza giovani. E che belle facce avevano! Mi sono vergognata della mia generazione, che certamente è contro la guerra, ma è rimasta paralizzata davanti a questa tragedia e ha taciuto. Moltissimi russi hanno parenti in Ucraina, tutti hanno conoscenti, amici, tutti vi sono stati più volte. Mia madre era di Lugansk, mio padre di Odessa. Bombardare Kiev, L’vov, Doneck è come colpire se stessi o il proprio fratello e amico, è una cosa incomprensibile. L’Ucraina è uno Stato sovrano, esistono norme di diritto internazionale che non si possono violare, perché questo costituisce una minaccia per il mondo intero.
Sono subito apparse lettere di protesta: una bellissima lettera di scienziati sul sito del giornale «Troickij variant» (ormai chiuso), firmata da ottomila persone, tra cui numerosi membri dell’Accademia delle scienze, e poi una lettera di slavisti, le lettere dell’Istituto Superiore di Economia e dell’Università Statale di Mosca. La lettera aperta «no alla guerra», stilata da Lev Ponomarev ha raccolto oltre un milione di firme. Avrebbero dovuto pronunciarsi anche le istituzioni, certo, ma hanno taciuto. In risposta alle nostre lettere di protesta è apparsa la legge del 4 marzo, che vieta la parola «guerra» e qualunque considerazione sulle azioni belliche della Russia equiparandole a fake-news. È stata chiusa l’ultima radio indipendente, «Echo Moskvy». La ferocia delle misure repressive nei confronti di ogni forma di protesta è cresciuta di giorno in giorno…
Per me la questione principale dopo il 24 febbraio è come fermare la guerra.
Come storica, so benissimo di quali orrori siano foriere le guerre, come esse attentino a ogni uomo, a ogni essere vivente. Nel 2014 gli storici hanno ricordato la tremenda esperienza della prima guerra mondiale e si è detto a chiare lettere che fu proprio essa la causa principale dei tragici eventi rivoluzionari che in Russia portarono al regime bolscevico. Sono vissuta tra i veterani della guerra del 1939-1945, che non la mitizzavano per niente, ma la odiavano profondamente e non volevano parlarne. Il fratello di mia madre, Vladimir Korobcov, chiamato a 18 anni al fronte, a distanza di 81 anni è ancora tra i «dispersi». La nonna l’ha atteso per tutta la vita. Quanti «dispersi» ci sono oggi sui due fronti? Per quanto tempo li attenderanno le loro madri, i loro cari? A chi serve la morte di questi ragazzi? E questo avviene nel nostro paese, che ha un grave problema demografico, e per di più ha perso circa un milione di vite nella pandemia.
Recandomi in Ucraina dopo il 2014 ad alcuni convegni scientifici, ho visto affisso sulle recinzioni dei monasteri a Kiev e a L’vov un gran numero di ritratti di ragazzi caduti nel 2014. Che bisogno c’era di ucciderli? Solo perché difendevano il proprio paese? La mia esperienza di queste settimane è fatta di impotenza a influire sul corso degli eventi, di paura per le sorti dei propri cari, di separazioni.
Un elemento positivo è forse che ho imparato ad apprezzare maggiormente la nuova generazione russa. Sono ragazzi liberi, che conoscono le lingue, sanno usare internet, si sentono europei. E inoltre sono pronti a venire in aiuto al prossimo, hanno rispetto per gli altri e cercano a far valere i diritti di tutti. Quanti di loro adesso hanno abbandonato la Russia? Quanti di loro hanno assaggiato i furgoni cellulari e il fermo di polizia nel corso delle azioni pacifiche di protesta? A volte, dopo aver passato parecchie ore insieme in un commissariato, pur essendo prima di allora dei perfetti sconosciuti, creano tra loro un gruppo virtuale, restano in contatto e si aiutano a vicenda. Migliaia di loro sono stati arrestati, decine di migliaia multati. Oggigiorno l’accusa di aver partecipato a un’azione di protesta o di «discredito delle forze armate russe» priva i ragazzi della possibilità di ottenere borse di studio per l’istruzione superiore. Ci sono casi di espulsione dall’università per attivismo antimilitarista. Ma come è possibile toglier loro il futuro?
Oggi la Russia sembra essersi allontanata indefinitamente dall’Europa, per noi è difficile comprendere che cosa stia avvenendo nel paese, nell’opinione pubblica, nella società civile… Che cosa pensa, come vive la gente? Esistono probabilmente delle differenze tra le generazioni, tra metropoli e provincia: come descrivere nelle linee generali il fenomeno?
A mio avviso, non si può parlare della Russia come di un monolite. Sì, le autorità della Russia l’hanno contrapposta al mondo intero. Ma chi ha dato loro questo diritto? Le autorità hanno modificato la Costituzione, hanno inventato leggi sugli agenti stranieri, hanno liquidato tutta la stampa d’opposizione, non hanno consentito di creare neppure un partito d’opposizione. Al popolo sono forse stati presentati i progetti e le finalità dell’«operazione speciale»? Se il potere non ascolta i consulenti scientifici, chi ascolterà mai il popolo?
Oggi non si può parlare di Russia tout court: c’è la Russia delle metropoli, la Russia urbana, c’è la Russia contadina, c’è la Russia in galera. Internet rende accessibile l’informazione, ma la popolazione della Russia contadina, della provincia, spende ogni energia per tirare a campare e guarda la televisione. A mio avviso, la pecca più grave del movimento liberale è di non essere riuscito nell’arco di 20 anni a costituire dei partiti di opposizione, dei movimenti all’interno della società. Non esistono organizzazioni antimilitariste. Tutte le organizzazioni in difesa dei diritti umani si concentrano quasi esclusivamente a Mosca e sono note, purtroppo, a una cerchia molto limitata di persone. E il «popolo» campa con grande difficoltà e ammira la forza e la ricchezza. Il mondo della criminalità è stato posto sotto il controllo dello Stato e ha formato un tutt’uno con l’apparato amministrativo e burocratico. Basti ricordare il caso della banda criminale organizzata Capok, che terrorizzava un’intera provincia, uccidendo e rubando impunemente.
Le fucilazioni di massa in URSS di persone innocenti, successivamente riabilitate, non sono divenute oggetto di consapevolezza pubblica. I boia hanno continuato a essere considerati eroi. La macchina repressiva creata in URSS non è mai stata arrestata, e adesso la si vuol rimettere in corsa, e reintrodurre la pena capitale.
Nonostante i risultati dei sondaggi, mi sembra che adesso la popolazione sia abbattuta per quanto sta avvenendo. La gente ha smesso di sorridere e di ridere, in metro non si vedono più allegre compagnie. I prezzi crescono, le merci spariscono. Molti restano disoccupati e le previsioni lavorative per il futuro sono sconsolanti.
Certo, c’è la gente del televisore. Che ripete quanto sente dire dalle autorità. Canali alternativi non ne esistono. Ma il conformismo, la «malizia» (è un termine del sociologo Levada) è un tratto distintivo dell’educazione sovietica. Se domani in televisione dovessero dire «cessiamo la guerra», la maggioranza farebbe un respiro di sollievo.
E l’atteggiamento dei fedeli ortodossi nei confronti dei fatti in Ucraina e della posizione della gerarchia? Esiste un dibattito interno alla Chiesa, oppure a dominare sono paura e indifferenza?
È un problema molto doloroso e difficile. L’ortodossia è spaccata tra liberali (sono la minoranza, solo 200 sacerdoti hanno parlato pubblicamente contro la guerra), e fondamentalisti, che danno addosso a tutti e sono pronti a far guerra al mondo intero.
Conosciamo bene i siti dei fondamentalisti, poi c’è il canale televisivo «Spas». Il movimento filoputiniano nazionalista SERB, gli adepti del movimento di estrema destra NOD hanno attaccato Memorial, il Centro Sacharov. È evidente che non agiscono in autonomia, eseguono degli ordini.
Tra i fedeli ortodossi, per quanto sia vergognoso dirlo, molti sostengono apertamente la guerra, o quantomeno non la condannano. Dicono: «Non sappiamo tutto quello che c’è sotto». La gerarchia ortodossa (e non solo ortodossa) si è rifiutata di eseguire quelle che sarebbero le funzioni pacificatrici sue proprie. È nel dimenticatoio il dovere del patriarca di «implorare la grazia». Il 24 ero subito andata a vedere il sito del Patriarcato di Mosca, e sono inorridita vedendo gli auguri a Putin e a Lavrov per la festa del «difensore della patria», il 23 febbraio. Le parole del metropolita Onufrij, che condannava l’aggressione militare della Russia, pubblicate sul sito della Chiesa ucraina del Patriarcato di Mosca, non sono mai state riportate sui siti del Patriarcato.
Esistono però dei giovani credenti attivi, che si espongono in prima persona pronunciandosi contro la guerra, alcuni di loro sono andati come volontari in Polonia a prestare soccorso ai profughi. Esiste un movimento chiamato «Azione cristiana», che si batte contro la guerra e la violenza. Esiste il sito «Achilla», gestito da persone coraggiose che non celano la propria posizione cristiana antimilitarista. Ci sono sacerdoti che non sono disposti a pronunciarsi pubblicamente, ma in parrocchia pregano per la pace, parlano delle sofferenze della gente in tempo di guerra, partecipano a progetti di aiuto per gli ucraini che ora si trovano in Russia.
Lei certamente ricorda gli ultimi decenni del regime sovietico, con le limitazioni alla libertà, l’atmosfera di doppio pensiero, di isolamento… Si possono paragonare le due epoche, come pure i tentativi di protesta che esistevano allora e quelli che vengono messi in atto oggi?
In epoca sovietica «Cronaca degli avvenimenti correnti» era dattilografata su una macchina che consentiva di fare 5 copie su carta velina. I «dissidenti» erano una ristretta cerchia di persone che si conoscevano l’un l’altra in faccia. Oggi esistono canali internet che non si è riusciti a chiudere. I mass media (non russi) offrono online un quadro della guerra. Nessuno può dire «noi non sapevamo», «noi non vedevamo». Bisogna tapparsi occhi e orecchie per non sapere. Oggi, grazie sia a internet, sia all’operato di Aleksej Naval’nyj e della sua squadra, la protesta si è notevolmente diffusa territorialmente, e vi partecipa la giovane generazione.
Per ora non c’è isolamento, ma la mancanza di mass media d’opposizione legali è tremenda per tutta la società. Quando non esiste un’alternativa, quando non si odono voci che esprimano un diverso punto di vista (radio «Echo Moskvy» la ascoltavano quasi tutti i tassisti di Mosca, si sentiva nei negozi), quando i migliori esperti sono dichiarati «agenti stranieri» e costretti a lasciare il paese, per il paese è una catastrofe. Le nuove tecnologie permettono di controllare pienamente quello che fanno le persone sgradite, e nascondersi è diventato molto più difficile. Le possibilità repressive nei confronti della gente sono ora illimitate.
Per quanto riguarda le epoche, il 24 febbraio ha mostrato chiaramente che la vecchia epoca sovietica, con tutto il suo odio per la dignità e la libertà umana non è affatto tramontata, era semplicemente un po’ arretrata e aveva raccolto le forze per meglio calpestare «ciò che è vivo, ciò che è buono». Il termine «Stato di diritto» è dimenticato e vengono varate leggi illegali, si introduce la censura.
Esiste l’ideologia del «mondo russo» a giustificazione del conflitto, ma esiste anche – o almeno esisteva – una grande affinità tra i due popoli ucraino e russo. Come lavorare perché diventi nuovamente possibile dire «noi» in riferimento alle comuni radici, alla comune sfera della cultura slava? Oppure tutto questo è andato distrutto, perduto per sempre?
Non capisco come oggi si possa parlare di «mondo russo» e scatenare azioni belliche. Non riesco ad ascoltare e a parlare di questa falsa ideologia. Per me il mondo russo è Lev Tolstoj e il suo sconvolgente «Non posso tacere». Per me la cultura russa è il proclama «Uomini, fratelli, guardate cosa state facendo» dei tolstoiani nel 1914. Vedo che oggi la Russia sta distruggendo città prevalentemente russofone (Char’kov, Mariupol’). Sono stata tante volte in Ucraina (a L’vov, Černigov, Kiev) e non ho mai visto odio nei confronti dei russi. È una menzogna quella dei nazisti ucraini al potere, un’orribile menzogna. Che percentuale hanno avuto alla Rada? Tutti i conflitti potevano essere risolti pacificamente, ma non c’era buona volontà. Certo, ora subentrerà il risentimento, un terribile risentimento. Non si è ancora rimarginata la ferita della Seconda guerra mondiale, ed ecco ora una nuova guerra. Bisogna fermare la guerra, fermare chi ha attizzato il conflitto ai propri scopi insensati, menzogneri, e vuol presentarlo come un conflitto tra russi e ucraini. Invece è una sciagura comune, e di questo bisogna parlare. Una cultura slava nutrita di cristianesimo esiste, naturalmente, e continuerà ad esistere. Se non sono riusciti a ucciderla nel corso di tutto il potere sovietico, non la uccideranno neppure ora.
È possibile oggi parlare di perdono, di speranza, di umanità? E se sì, come?
I cristiani devono imparare a dire la verità. Questo è l’essenziale. È strano dire: «Perdonateci, anche se adesso faremo fuori voi e i vostri figli». Se fossimo crocerossine sul campo di battaglia, se stessimo mettendo in salvo i feriti sulle nostre spalle, in questo caso avremmo il diritto di parlare di perdono, di speranza, di umanità.
Che cosa si sa dei soldati caduti? Esiste un movimento tra le madri? Se ne parla?
La maggior parte dei caduti di cui si hanno notizie certe viene dalla provincia: dalla Buriazia, dal Dagestan, dalle province di Kostroma, di Pskov, le regioni più indigenti della Russia. «Mediazona» raccoglie notizie su di essi da fonti indipendenti. Ai comitati delle madri dei soldati le donne si rivolgono per essere aiutate a cercare figli e mariti, ma per ora non sta nascendo un movimento. Le madri vengono intimidite, da loro si esige segretezza, la morte dei soldati viene nascosta. Dimostrare che sono «scomparsi» durante l’«operazione speciale» è impossibile. Una «marcia delle madri» come c’era stata durante la guerra cecena oggi è difficilmente immaginabile. Oggi sono molto preoccupate anche le madri di chi sta per essere chiamato d’urgenza sotto le armi. Da ormai più di una generazione le donne russe seguono la tattica di proteggere i propri figli, più che di unirsi «contro la sventura, contro la guerra», come dice la canzone.
Elena Beljakova
Storica, docente all’Università statale di Mosca, membro dell’Istituto di Storia russa dell’Accademia delle scienze. Ha approfondito in particolare le problematiche del diritto ecclesiastico e della questione femminile nella storia russa.
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