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4 Aprile 2023
Vogliamo la pace o che ci lascino in pace?
Il meccanismo perverso della guerra si ripete sempre uguale. Però non sarà la paura né la disperazione a donarci la pace, ma il duro lavoro della ragione e della responsabilità, sempre da ricominciare.
Nelle sue cronache dalla seconda guerra Cecena, quindi con Putin appena salito al potere, Anna Politkovskaja già cercava di mettere in guardia da uno degli effetti della guerra: la sua capacità di distruggere non solo i corpi delle vittime ma anche le loro anime, oltre alle menti e ai cuori dei russi che cercavano di imporre la volontà del loro governo a un altro popolo del quale si voleva ignorare l’indipendenza, la dignità, semplicemente il diritto di esistere a casa propria.
È un meccanismo perverso che a distanza di vent’anni vediamo ripetersi, inasprito, con l’aggressione dell’Ucraina; diceva, agli inizi degli anni 2000 Anna Politkovskaja: «Nel terzo anno di guerra, abbiamo già incontrato troppi giovani ceceni con scintille d’odio negli occhi e un unico sogno: punire chi ha rovinato loro la vita».
Ma questa tragedia, la tragedia dell’odio prodotto nelle vittime dalla violenza dei loro aggressori, avvelenava, in maniera diversa, anche la vita degli aggressori stessi, nell’immediato facendo loro perdere il valore della vita umana e, nel lungo periodo, rendendoli incapaci di nutrire quel senso di pietà e di solidarietà che dovrebbe caratterizzare ogni uomo ed era un vanto della tradizionale «anima russa»: che paese poteva mai diventare quello che diffondeva (e diffonde) come unica legge di vita il sospetto, la delazione, l’inimicizia, la paura dell’altro, quello che vede nei propri giornalisti più attenti nulla più che degli «agenti stranieri»? E la risposta di Anna Politkovskaja, pochi anni prima di essere assassinata, era di una lucidità impressionante:
«Ovunque la crudeltà rappresenti una regola di vita, nessuno può aspettarsi compassione e pietà, nemmeno i più deboli».
Ma questo meccanismo non ha rovinato solo la Russia.
A lungo l’Occidente, e con lui tutto il mondo, hanno fatto finta di non vedere, o non hanno voluto sentire né vedere che la Russia stava tornando agli usi e alle teorizzazioni sovietiche, perché questo avrebbe ostacolato lo sviluppo dei loro affari.
E anche questo ha avuto i suoi esiti nefasti: alla fine la storia presenta sempre un conto molto salato a chiunque pensi di poter non giudicare e non distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito; a chiunque creda che un paese o un insieme di paesi possano svilupparsi e sviluppare il senso della dignità e della libertà mentre altrove tutto ciò viene soffocato e, soprattutto, viene lasciato soffocare per non turbare i propri interessi.
Lo si era visto prima della Seconda guerra mondiale, lo si è visto dopo, lo si è visto adesso, quando una Realpolitik del tutto insensibile a ogni esigenza morale ha finito per arrecare danni enormi proprio ai sistemi politici ed economici che avevano creduto di poter ridurre gli uomini a delle macchine di consumo, produzione e godimento.
Non è un caso, come dimostra la vicenda della chiusura di Memorial, che proprio chi in Russia ha cercato in questi anni di mantenere viva la memoria di cosa fosse un regime totalitario sia stato fatto oggetto di persecuzioni continue; come non è un caso che chi in Occidente vorrebbe poter tornare agli affari di un tempo insista sulla necessità, più ancora della pace, di «non umiliare» gli aggressori, come se non si fossero già svergognati a sufficienza da soli!
Come ebbe a dire Solženicyn, che certo non poteva essere sospettato di non amare il proprio paese, il mancato giudizio sul passato totalitario sarebbe stato foriero di nuove tragedie: «Dobbiamo condannare pubblicamente l’idea stessa della repressione compiuta da singoli individui sui loro simili! Tacendo sul vizio, ricacciandolo nel corpo perché non si riaffacci, noi lo seminiamo, e in futuro germinerà moltiplicato per mille. Non punendo, non biasimando neppure i malvagi, non ci limitiamo a proteggere la loro sterile vecchiaia, ma strappiamo dalle nuove generazioni ogni fondamento di giustizia. Ecco perché esse crescono “indifferenti”, non è colpa del “lavoro insufficiente degli educatori”. I giovani imparano che la bassezza non viene mai punita sulla terra, anzi porta sempre il benessere. Non sarà accogliente un tale paese, farà paura viverci!».
Il lavoro della memoria, però, è una sfida che è lanciata non solo ai paesi e ai sistemi ma anche a ciascuno di noi:
sottrarvisi per quieto vivere, per non rivangare il passato, non per desiderio di pace ma per essere lasciati in pace, è qualcosa che si paga; non si tratta soltanto di ricordare il male e denunciarlo, si tratta soprattutto di ricordare il bene che si voleva cancellare e che ha resistito.
E allora, invece dell’odio, potrebbe rinascere la coscienza di dove ogni volta abbia affondato le proprie radici la rinascita o la permanenza dell’umano e della sua «stupida» bontà, come la chiamava Grossman.
È un lavoro che vale per il passato di cui ancora godiamo l’eredità, ma è un lavoro che vale anche e soprattutto per il presente, come mostrano tanti articoli che abbiamo pubblicato in questi ultimi mesi.
E allora, per riprendere soltanto i contributi più recenti, si può scoprire che, come diceva Svetlana Panič, una speranza autentica di pace non può essere alimentata dalla «disperazione nera» che sta dietro all’ideologia che sostiene la guerra e che la puntella con l’idea che non ci sono differenze tra aggrediti e aggressori e, anche se ci fossero, non potremmo mai stabilirle sino in fondo perché «chissà mai cosa c’è dietro e cosa hanno tramato gli uni e gli altri…».
La speranza nasce invece dal duro lavoro, dallo sforzo intenso per distinguere il bene dal male che però non è dividere il mondo in buoni e cattivi, ma rendersi conto di un fatto al quale tutti dobbiamo rispondere: esiste uno «spartiacque invalicabile che passa fra chi ritiene che esista una ragione “di Stato”, metafisica o comunque superiore per cui si possa invadere la terra altrui e uccidere i suoi abitanti, e chi pensa che la guerra sia un male assoluto e indiscutibile».
Si provi ciascuno a giudicare su questo desiderio le proprie idee, le proprie ricostruzioni della storia recente del nostro mondo: di fronte alla sfida tra «bazar del Partito» e «fiera del commercio», la dialettica di Cappuccetto Rosso verrà disfatta all’origine, senza però confondere colpe e responsabilità e senza cadere in nessun relativismo.
E forse allora sapremo apprezzare tanti giusti che con il loro sacrificio, spesso inavvertito o sconosciuto, conservano il senso di questa differenza (pensiamo a tutti i giornalisti e ai semplici cittadini che in Russia pagano per il loro rifiuto della guerra) o mettono in pratica quella pietà e solidarietà che sembravano scomparse dalla terra russa: pensiamo a tante organizzazioni sociali ormai famose o anche a tanti testimoni sconosciuti, come nonna Irina; davvero esistono ancora e continuano a nascere in questo paese che sta seminando tanto dolore, i giusti senza i quali «non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra».
E pensando a loro, né la speranza della pace né il desiderio che possa essere «perdonato quello che non può essere perdonato» ci sembreranno più un sogno sentimentale o una pretesa violenta.
(foto d’apertura: Liberov, Astra)
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
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