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23 Novembre 2024
Guerre collaterali
I mille giorni di guerra e tante piccole guerre tra gli schieramenti. Ma c’è chi richiama l’importanza della carità come punto di ripartenza.
Dopo mille giorni di guerra in Ucraina, ci troviamo davanti i suoi frutti devastanti, uno di questi – se non bastassero le divisioni di un’Europa che coltiva ancora troppi distinguo nell’identificare il volto dell’aggressore che «ha iniziato il conflitto e che dovrebbe cessare l’aggressione» (cardinale Parolin) – è la divisione tra i russi; l’inimicizia e il disprezzo si sono insediati nei cuori e nelle menti di qua e di là delle barricate, di qua e di là dei confini nazionali.
In certi russi vince la negazione totale: oggi della Russia non si può parlare che male, guai a chi cerca di cogliervi dei rivoli di vita e di coraggio perché è come salvare il regime putiniano. Pessima cosa, ad esempio, parlare degli hospice russi, perché non si può compatire il paese aggressore. Né si può più citare la grande cultura del passato, perché è tutta roba morta e sepolta, oggi non c’è che tenebra.
Anche la diaspora russa sta vivendo polarizzazioni dolorose, scoppiano di continuo scandali e litigi, volano reciproche accuse: di liaison con personaggi discutibili, di aggressioni fisiche, di appropriazione di denaro e via discorrendo. Allo stesso tempo, scorre cattivo sangue anche tra i russi rimasti in patria e il milione circa di compatrioti che se ne sono andati; i primi nutrono un irrimediabile senso di superiorità se non di astio (pur negandolo a parole) verso i secondi che «sono scappati», e li escludono da ogni possibile discorso sul futuro del paese, che dopo l’emigrazione non sarebbe più il loro.
Il logoramento causato dalla guerra produce scivolamenti e rotture nel panorama politico e intellettuale dell’opposizione, segno di un esaurimento progressivo, di una mancanza di autorità morali universalmente riconosciute, di prospettive credibili.
Le posizioni cambiano, gli schieramenti iniziali si sfaldano; in questo momento anche essere contro la guerra ha un significato diverso da quello che aveva mille giorni fa. Se all’indomani dell’invasione tutta l’opposizione a una sola voce aveva rifiutato l’«operazione militare speciale», oggi che la guerra è una realtà di fatto da cui non si torna indietro, una parte dell’opposizione (soprattutto all’estero) spera nella resistenza ucraina fino alla vittoria, mentre un’altra parte, rappresentata da un oppositore storico come Lev Šlosberg (membro di Jabloko e pure lui dichiarato «agente straniero») ha abbracciato un pacifismo di stampo sovietico secondo il quale l’Ucraina, difendendosi, ha perso lo status di vittima e si è posta sullo stesso piano del suo aggressore.
E quindi: fermiamo i sacrifici umani senza condizioni, il che vuol dire pace subito cedendo alle ragioni del più forte e abbandonando l’Ucraina al suo destino.
Questa nuova posizione di Šlosberg (che ha suscitato un uragano di proteste) comporta anche sentimenti di disprezzo verso i russi che, dall’estero, avrebbero fatto la scelta bellicista sulla pelle degli altri; Šlosberg li chiama «il partito del sangue altrui», «gente debole. Mentre noi siamo forti… Quando la guerra finirà, loro non serviranno più a nessuno». Quando la pace e la libertà torneranno finalmente nel paese, e qualche transfuga deciderà di tornare, «dovrà affrontare un dialogo difficile col popolo, dovrà spiegare dov’era, cosa diceva e cosa faceva mentre il popolo soffriva e lui si faceva beffe della sua sofferenza. Sarà bene che cominci a pensare già adesso a quel che dirà».
Queste divisioni fanno sì che il bene e il male si confondano, che il sospetto intorbidi la causa comune, e che il dolore lasci il posto alla rabbia. Così nascono guerre collaterali che neanche il comune nemico, o la comune disgrazia aiutano a superare. Uno spettacolo sconfortante e terribile.
In mezzo a tutto questo, domenica 17 novembre a Berlino è stata organizzata una marcia contro la guerra in Ucraina, che è stata definita la prima grande manifestazione dei fuoriusciti russi. Vi hanno partecipato in prima fila Julija Naval’naja (che l’ha fortemente voluta), Il’ja Jašin e Vladimir Kara-Murza, oppositori ex detenuti scambiati con spie russe l’agosto scorso; e poi una grande varietà di organizzazioni e di bandiere, anarchici, gruppi di estrema destra e membri della Legione Russia libera, che combatte a fianco degli ucraini, gente dalla Siberia e dall’Ucraina.
Quasi in risposta alle esternazioni di Šlosberg, una giovane partecipante russa ha detto ai giornalisti: «Questa manifestazione serve proprio a ribadire che la Russia siamo anche noi, qui, nelle città europee».
Ma benché proprio l’unità fosse il filo conduttore dell’evento, non tutte le componenti dell’opposizione all’estero vi hanno partecipato. Un tentativo di allargare l’orizzonte oltre il panorama politico strettamente russo comunque è stato fatto, gli slogan scandivano: «libertà alla Russia, vittoria all’Ucraina!», «La vittoria dell’Ucraina è anche la nostra vittoria!»; tre le richieste principali: il ritiro immediato delle truppe dall’Ucraina, il processo a Putin come criminale di guerra e la liberazione di tutti i prigionieri politici in Russia.
Nessuno finora sembra avere in mano la ricetta per superare le divisioni, e molti si chiedono come sanare questo clima deleterio. Se guardiamo ai macro-schieramenti in gioco, che si creano e si sfaldano nel giro di poche ore, le prospettive non sono incoraggianti, la divisione sembra approfondirsi sempre più. Ma se spostiamo lo sguardo sulle persone, sui tanti singoli sconosciuti che fanno piccoli gesti di solidarietà, di coraggio, di dignità, che si ripetono costantemente in ogni istante e in ogni luogo, subito tornano il respiro e la speranza, perché accade esattamente quello che aveva scoperto George Eliot: «Il bene crescente del mondo dipende in parte da atti ignorati dalla storia; e se le cose per te e per me non vanno così male come avrebbero potuto, dipende anche da coloro che hanno vissuto fedelmente una vita nascosta e riposano in tombe che nessuno visita» (Middlemarch).
La stessa fede nell’uomo è professata da Memorial, non dobbiamo dimenticare che il suo motto era «l’uomo unità di misura della storia». Potrà sembrarci troppo poco rispetto al giganteggiare della distruzione e della tracotanza della forza, eppure la persona, il soggetto, è l’eterno punto di ripartenza, piccolo, sempre minoritario, inerme ma ineluttabilmente vivo e sorprendentemente capace di andare alla verità ultima delle cose e della storia di cui è stato e resta protagonista.
Il 17 novembre scorso, sulle pietre del lungofiume a San Pietroburgo è apparsa una scritta che è, consapevolmente o no, la risposta a quanto abbiamo raccontato fin qui: «In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas», e gli ignoti attivisti che hanno messo in circolazione la foto, commentano: «Oggi noi, società civile russa che comprende chi se n’è andato come chi è restato, dobbiamo capire che siamo tenuti insieme dai valori comuni della pace e della libertà. Stiamo tutti dalla stessa parte. Siamo liberi di discutere purché dalle nostre discussioni nasca la verità e non l’odio.
E la verità e la forza stanno sicuramente nella carità».
A fare quella scritta sul selciato, e a scrivere quel bellissimo commento, saranno state due, forse tre o quattro persone, e la domanda che sorge è sempre la stessa che era sorta nel 1968, quando otto temerari erano scesi sulla Piazza Rossa a protestare contro l’invasione di Praga: cosa può cambiare quel gesto isolato? Se non altro, risponde oggi Andrej Desnickij, ci permette di dire che «non tutto il paese era a favore». E considerando quello che è successo dopo, si può aggiungere che «le macine del Signore macinano lentamente»: se non ci fossero quei poveri Cristi che senza ambizioni eroiche si fanno mettere dentro per una parola fuori dal coro, se non ci fossero stati quei quattro gatti di allora, potremmo credere che il male sia ineluttabile e totale. Ma se quei pochi ci dimostrano che il male non è ineluttabile, o almeno non è sempre ineluttabile, in noi nasce la speranza di potergli resistere. «Al successo della nostra causa senza speranza», brindavano i dissidenti sovietici.
Anche il Muro, che era stato il grande simbolo negatore della speranza, cadde. Commentando il concerto improvvisato che due giorni dopo ne aveva celebrato il crollo, mentre ancora il Muro veniva fatto a pezzi, il grande violoncellista Mstislav Rostropovič aveva detto: «Quel maledetto Muro ha diviso la mia vita, è stata una lacerazione per il mio cuore. Nel 1974 [quando era stato espulso] l’Unione Sovietica mi ha buttato via come uno straccio, prima di allora non potevo suonare a Berlino Ovest, dopo non potevo andare a Berlino Est. Quando il Muro è crollato la mia vita si è riunita. Non volevo suonare per la gente, ma per ringraziare Dio di quello che era accaduto. Quando sono arrivato lì ho dovuto chiedere in prestito una sedia a un abitante di Berlino. Ho suonato arie con accordi maggiori perché ero felice, la mia vita si era riunita. Poi ho visto un giovane e ho pensato che per quel Muro erano morte molte persone. Allora ho suonato un’aria in re minore. Alla fine quel giovane si è messo a piangere».
Oggi Berlino, con la sua marcia, pur con tutti i suoi limiti, può tornare a essere un simbolo di cui vanno scoperte tutte le implicazioni, per la fedeltà a quel Dio che Rostropovič voleva ringraziare e a quel giovane che si era messo a piangere. E sono implicazioni che, nel dolore, parlano un linguaggio nuovamente pieno di speranza e di unità, non di odio e divisione.
«Sono andato alla marcia di Berlino – scrive padre Andrej Kordočkin, anche lui esule – e molti mi chiedevano: perché lo fai? …Io spiego che Berlino fra tutti è il luogo ideale per scendere in piazza assieme. Immaginate questa città alla fine degli anni ’40 e guardate com’è oggi.
Vuol dire che prima o poi viene il giorno in cui anche delle dittature più spietate, delle tragedie più orrende si comincia a parlare al passato.
Il Muro è uno dei simboli più parlanti di Berlino… Ma questa città ha anche un altro simbolo più recente, l’ospedale della Charité [dov’era stato ricoverato e salvato Naval’nyj dopo l’avvelenamento – ndr], parola francese che significa amore, ma non l’eros bensì la carità pietosa, compassionevole, pronta al sacrificio. Non importa quanto le persone siano stanche, quanto siano indignate, se non c’è la carità rimarranno solo rabbia e impotenza, qualcuno deve pur ricordarglielo».
Foto di apertura: SOTA Denis Galicyn
Marta Dell'Asta
Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».
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