18 Marzo 2023
Il paradiso è da condividere
Questo incontro con le monache di un eremo fuori Mosca risale a poco prima dell’inizio della guerra. Da allora molto è cambiato, ma non questa bellezza e questa pace. Nella carità verso le creature in nome di Dio affonda la radice sana di una cultura la cui memoria va conservata in ogni circostanza.
È una delle rare, abbaglianti giornate di sole che l’inverno russo regala, quando la temperatura scende di parecchi gradi sotto zero: in auto con alcune studentesse italiane al termine del loro stage universitario, ci siamo appena lasciate alle spalle i quartieri periferici di Mosca, e subito l’orizzonte ci regala bianche distese scintillanti e boschi di conifere dai rami carichi di neve sotto un cielo azzurro intenso, senza neppure una nube nell’aria trasparente, rarefatta. La nostra strada piega verso uno di questi boschi, che percorriamo con la sensazione, anche se siamo alle porte di Mosca, di essere entrate in un altro mondo, finché ci troviamo davanti a una cinta di mura, bianca come la neve in cui affonda. È la nostra meta, l’eremo di san Serafim e della Madre di Dio del Segno.
È difficile immaginarselo fra tutto questo silenzio e questa pace, ma anche l’eremo e le sue abitanti hanno vissuto nel XX secolo le dolorose vicissitudini toccate in sorte alla Chiesa russa: fondato nel 1912 da madre Famar’ (una principessa georgiana, al secolo Tamara Mardžanišvili), venne chiuso dopo poco più di un decennio di esistenza, nel 1924. Le monache furono disperse, in parte arrestate e in parte deportate. Solo nel 1999 il complesso (che nel frattempo era stato utilizzato in vari modi, come ospedale, colonia estiva per bambini, base turistica, e poi dagli anni ’70 abbandonato) è stato restituito al Patriarcato; dapprima è stata ripristinata la liturgia nella chiesa centrale e
nel 2000 è arrivato un coraggioso gruppetto di monache che ha ridato vita all’esperienza monastica, ricostruendo gli edifici sulle rovine lasciate da decenni di incuria e recuperando la memoria della santità che questi luoghi hanno visto e custodito.
Le suore ci aspettano, veniamo subito accompagnate in chiesa: un’incantevole costruzione realizzata su progetto dell’architetto Ščusev, che riprende lo stile dell’architettura a tenda del XVII secolo mostrando nel contempo tutti gli elementi del liberty, in voga all’inizio del XX secolo (fra i sostenitori di un progetto artisticamente tanto raffinato ci fu la principessa Elizaveta Fëdorovna, amica e consigliera di Famar’, che aveva scelto lo stesso architetto per il suo convento moscovita dedicato a Marta e Maria).
La chiesa è il cuore pulsante della vita dell’eremo: qui dal 2018 riposano le spoglie di madre Famar’, custodite con grande semplicità in una bara avvolta da un drappo verde e oro a destra dell’iconostasi. Di fronte, una grande icona di Irina Zaron raffigura Famar’ ormai in età avanzata, negli anni della deportazione, con il volto austero e uno sguardo carico di tenerezza e dolore.
Le scritte in georgiano e slavo ecclesiastico ci introducono a quello che sarà il fil rouge nella visita all’eremo: l’unità fra le due tradizioni ecclesiali vissuta nella persona di Famar’ e oggi coltivata dalle sue figlie come una supplica a Dio di fronte ai conflitti esistenti tra Russia e Georgia.
Madre Famar’ è una presenza viva nella comunità: lo si vede dall’affaccendarsi delle monache nella chiesetta (sono le 11, hanno già terminato gli uffici mattutini, pranzato, e ora inizia il tempo del lavoro), e anche dalla confidenza e tenerezza con cui madre Innokentija, l’igumena, una donnina minuta e vispa che ci raggiunge poco dopo, ci invita a venerarne le spoglie e poi, nel suo racconto, corre spesso con gli occhi all’immagine sacra.
Tamara Mardžanišvili nasce in Georgia nel 1868 in una famiglia dell’aristocrazia. Le cambierà la vita, nell’estate del 1888, una visita al monastero di Santa Nino a Bodbe – luogo di sepoltura dell’evangelizzatrice della Georgia – che era stato riaperto proprio in quei mesi dopo un lungo periodo di abbandono, grazie all’appoggio dello zar Alessandro III.
L’incontro con l’igumena, madre Juvenalija, che sarà per lei una madre per tutta la vita, e con la bellezza e armonia della liturgia e della vita monastica è decisivo: nonostante le resistenze della famiglia e la povertà in cui versa la comunità, Tamara abbraccia con gioia la vocazione monastica. È la prima vocazione locale, nel contesto tutt’altro che facile in cui la Chiesa georgiana era venuta a trovarsi dopo l’annessione del paese nel 1801 all’impero russo, e l’esautorazione del suo patriarcato, trasformato in esarcato della Chiesa ortodossa russa.
La vita di Tamara è una prova vivente dell’unità sempre possibile nell’esperienza cristiana: dopo quasi vent’anni a Bodle, di cui cinque alla guida della comunità che nel frattempo era arrivata a contare ben 200 monache, nel 1907 viene chiamata a Mosca, come igumena nel convento delle suore della carità della Protezione della Madre di Dio.
Un anno dopo, mentre sta esprimendo il suo desiderio di ritirarsi a vita contemplativa davanti a un’icona della Vergine, avverte per tre volte una voce che le sembra giungere dall’immagine sacra e le ordina di costruire un eremo che offra questa opportunità anche ad altre vocazioni. La nuova chiesa avrà due altari: uno dedicato alla Madre di Dio del Segno che le aveva «parlato», l’altro a Santa Nino, la patrona della sua amata natia Georgia.
Ma come, perché, dove trovare il denaro necessario all’impresa? Intimorita da un’impresa che le sembra superiore alle sue forze, Famar’ si spinge a chiedere consiglio allo starec Aleksej, celebre in tutta la Russia per la sua chiaroveggenza, che la tranquillizza: «Sarà la Regina celeste in persona a scegliere il luogo, a procurare i mezzi, e anche a curare la vostra crescita spirituale. Tu non dovrai essere che la sua ancella, il suo strumento…».
Il tono di voce di madre Innokentija, a questo punto del racconto, lascia intuire che non sta rievocando solo fatti del lontano passato:
quando ci dice, intrecciando le dita delle mani per spiegarsi meglio, che non esiste una vita dello spirito e un’altra della materia, perché in realtà sono strettamente legate, lo spirito fa capolino da tutte le parti nella materia,
sta parlando anche dell’avventura iniziata per lei una ventina d’anni fa, quando da un grande, ben organizzato monastero di Kolomna si era trasferita qui insieme ad alcune compagne, per obbedienza, senza avere idea delle montagne di difficoltà in cui si sarebbe imbattuta… Oppure di quando, recatasi in pellegrinaggio a Bodle, in Georgia, sulla sepoltura di santa Nino, ha avvertito una forza strana, misteriosa, che di botto le ha tolto la stanchezza e l’avvilimento che si portava dentro, l’ha rigenerata.
Lo sguardo di madre Innokentija si ferma sulla grande, preziosa icona della Vergine del Segno a destra delle porte regali, nell’iconostasi: era stata dipinta nel 1912, secondo il gusto del tempo, in occasione dell’apertura dell’eremo, e naturalmente era scomparsa insieme a tutte le altre suppellettili sacre quando l’eremo era stato chiuso.
«Sapete, ad un certo punto mi sembrava che i problemi fossero insormontabili – ci racconta, – così mi sono rivolta quasi disperata alla nostra madre Famar’, le ho chiesto un aiuto, un segno di benedizione che ci facesse capire che eravamo sulla strada voluta dal Signore. E la sera stessa è arrivata una vicina, una donna anziana con l’icona: era riuscita a portarla via prima che la chiesa fosse chiusa, l’aveva custodita intatta per tutti questi anni…».
La costruzione dell’eremo, divenuta possibile grazie a una cospicua donazione anonima, seguì un principio simbolico che avrebbe ispirato anche la futura vita monastica: tutto ruotava intorno alle cifre 33 e 12, gli anni di vita del Signore e i suoi apostoli, e all’idea della Gerusalemme celeste: «Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello… E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente… Il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21,14, 21-22).
La cinta monastica aveva forma quadrata, ogni lato misurava 33 sažen’, e lungo le mura sorgevano 12 casette, ciascuna dedicata a un apostolo, di cui portava la raffigurazione sulla parete esterna.
«La festa di ciascun apostolo era celebrata in maniera speciale nella relativa casetta, e di conseguenza nell’intera comunità – racconta ancora madre Innokentija. – Per statuto le monache non potevano superare il numero di 33. Oggi siamo in 18… e la vita di comunità non è sempre facile. Per Natale ho dato a tutte un compito: scrivere ciò che di bello e buono vedono nelle consorelle, e ne sono emerse delle cose molto sincere, più vere dei nostri bisticci: lo stesso sguardo con cui ci guarda il Signore».
Al centro dell’area cintata sorse la chiesa, coronata da una cupola sorretta da 32 elementi a cuspide: simbolo di Cristo capo della Chiesa, che a 33 anni dona la vita per essa e le apre il Regno dei cieli. A sottolinearlo c’è anche la raffigurazione di Cristo che entra in Gerusalemme, che affianca le porte d’ingresso all’eremo.
La comunità trovò un padre spirituale nel vescovo Arsenij Žadanovskij, che nel 1918 si rifugiò presso l’eremo insieme a monsignor Serafim Zvezdinskij; entrambi sarebbero stati martirizzati nel 1937. Arsenij diede alle monache questa consegna: «Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia». Questa consegna si dimostrò particolarmente preziosa quando, chiuso l’eremo, le monache furono disperse e si trovarono a dover continuare a vivere la loro vocazione «nel mondo»; Famar’ insieme a 10 monache e a padre Filaret Postnikov, a quel tempo loro cappellano, si stabilì a Perchuškovo, in provincia di Mosca, dove per qualche tempo la comunità visse in relativa tranquillità.
Tra il 1930 e il 1931 le monache furono tutte arrestate. Madre Famar’ fu condannata a 5 anni di deportazione in Siberia, in un villaggio della regione di Irkutsk, dove all’ormai anziana monaca fu offerta ospitalità da un contadino: «Vivo in un angoletto dietro la stufa, per pavimento ho la botola che porta in cantina; sì, e ringrazio Dio di aver trovato questo riparo…», scriveva nel settembre 1931. Nel 1934, ormai gravemente malata di tubercolosi, le fu concesso di lasciare la Siberia e di stabilirsi a Dubki, nei pressi di Mosca, dove morì nel 1936.
Sono rimasti tanti ricordi della bontà d’animo con cui madre Famar’ seppe conquistarsi l’affetto dei contadini siberiani e addirittura del commissario a cui doveva presentarsi periodicamente come confinata.
L’austera regola di preghiera e obbedienza che regnava nell’eremo aveva forgiato cuori traboccanti di amore a Dio in tutte le creature. Di questo amore, nella giornata radiosa di gennaio che stiamo trascorrendo, ci parlano tanti particolari: la pazienza di madre Innokentija nel farci visitare tutti gli ambienti dell’eremo (la chiesa superiore e quella inferiore, un piccolo santuario dove sono raccolte reliquie e icone georgiane; la cella di madre Famar’ – un piccolo museo che funge anche da biblioteca per la piccola comunità; la stalla con un vitellino e la mucca che dà latte, panna e burro); il pranzo – squisito nella sua semplicità – che ci serve insieme a un’anziana consorella, la quale per metterci a nostro agio sfodera qualche parola in uno spagnolo imparato chissà quanti anni fa.
Famar’ ci viene incontro come una donna che ha molto amato: oltre alle sue monache, si ricorda il suo affetto filiale per san Ioann di Kronštadt, che la incontrò e la benedisse più volte, per san Serafim di Sarov, di cui, in occasione della canonizzazione, le venne donata un’icona che si sarebbe rivelata in più occasioni miracolosa.
Madre Innokentija, che da ragazza aveva la passione dei cavalli, nel piccolo maneggio adiacente all’eremo ci mostra con orgoglio due puledri che rispondono prontamente al suo richiamo, e che le monache mettono a disposizione per corsi di ippoterapia e riabilitazione di ragazzi disabili; nell’eremo, questi ragazzi hanno anche una saletta riservata, dove possono giocare, disegnare, pregare.
«Siamo così poche, questi ragazzi sono il nostro futuro. Il paradiso va condiviso, non vi pare?», sorride ammiccando, mentre salutandoci ci tende due panetti di burro e alcuni opuscoli sulla storia di madre Famar’ e dell’eremo.
(foto d’apertura: sportishka.com)
Giovanna Parravicini
Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.
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