L’uomo che scolpiva l’Uomo

6 Agosto 2025

L’uomo che scolpiva l’Uomo

Miriam Zanoletti

Il centesimo anniversario della nascita di Ernst Neizvestnyj ci offre l’occasione per riscoprire la figura di un artista che ha espresso con l’arte e la vita una forte passione per l’Uomo e la sua complessa libertà. Il suo ultimo augurio ai russi.

Lo scultore Ernst Neizvestnyj nasce nel 1925 a Smolensk (l’attuale Ekaterinburg) da padre chirurgo e madre scienziata. La sua carriera segue in apparenza i canoni dell’ideale sovietico: frequenta l’esclusiva scuola d’arte di Leningrado e si arruola volontario a soli 17 anni nelle truppe scelte ai diretti ordini di Stalin. Gravemente ferito in guerra, viene dato per morto, alla madre arriva la notifica del decesso e riceve «postumo» l’ordine della Stella Rossa.

Al ritorno dal fronte si afferma come uno dei migliori allievi dell’Accademia d’arte della Lettonia, studia all’Istituto Surikov e all’Università Statale di Mosca e lavora per un periodo anche al Museo Russo. Il regime lo riconosce ufficialmente nell’Unione degli artisti e gli commissionerà opere importanti, come l’archivio di Stato turkmeno ad Aşgabat nel 1975, benché delle centinaia di sue creazioni solo quattro ricevano il sostegno del partito.

L’uomo che scolpiva l’Uomo

Ernst Neizvestnyj nel 2000. (wikipedia)

Questa biografia di successo nasconde però una personalità decisamente più complessa. Nell’intervista del 1982 a «Russia Cristiana» Neizvestnyj rivela che già durante gli anni universitari «rinacque in me come nuova quella struttura semantica che avevo acquisito nell’infanzia. (…) Sono sempre stato contraddistinto da una grande tensione spirituale. E a un tratto mi resi conto che il mio stato d’animo interiore non poteva contentarsi della scuola classica». Il padre, ex ufficiale bianco, aveva conservato nella sua biblioteca i testi proibiti dei filosofi religiosi russi (Berdjaev, Solov’ëv, Šestov, Frank, e Florenskij), e questa educazione clandestina ispirata anche alla tradizione cristiana sviluppa nel giovane Ernst quella sensibilità spirituale che sarebbe poi riemersa nella sua arte: «Per me la scultura è la prosecuzione del movimento interiore, spirituale dell’uomo. Non è un oggetto, ma la materializzazione interiore dell’anima», che per lui è complessa, «nucleo di tutti i problemi cosmici».
Tale visione metafisica si rivela però incompatibile con l’ideologia dominante per due motivi essenziali: il materialismo sovietico non può accettare il fondamento spirituale della sua arte, e il suo fascino per l’individualità, intesa come piena espressione della libertà fondamentale dell’uomo, si scontra con la visione ufficiale «essenzialmente monologica, dove l’uomo è chiuso in sé, misurato, e l’unico problema è quello di trovargli una collocazione nello spazio».

Lui stesso nel 1975 spiega come l’esperienza dell’irriducibile complessità umana sia il fondamento della sua arte: «L’esperienza iniziale che mi ha dato un nuovo sguardo sull’arte, e quindi sulla scultura, è stata la guerra. Nella guerra (…) era evidente una forza che, seppur inumana, diventava parte degli uomini e li spingeva a uccidersi a vicenda.

La guerra è un elemento estraneo al vivente, che lo porta alla morte… Il rapporto vita-morte è stato quasi un’ossessione per me nei primi anni di lavoro… La relazione tra vita e morte è il conflitto interiore più intenso in assoluto».

Da qui l’idea di un’arte «dialogica»: «Il principio del dialogismo significa per me la necessità di plasmare costantemente la materia scolpita come un combattimento dello spirito… I principi sono il bene e il male, il maschile e il femminile, la giustizia e l’ingiustizia, il freddo e il caldo, l’acuto e l’ottuso, e così via. (…) Non riconosco (almeno non come modello da seguire) una scultura monotematica, a una sola voce, in cui tutta la forza plastica sia dedicata a un’azione, a un atto. Mi sembra che in realtà nell’uomo e nel mondo non sia così. La lotta dei principi e quindi la polifonia come plasticità di questa lotta mi sembrano più vicine alla verità.»

L’applicazione pratica di questa teoria è evidente in una delle sue opere più celebri, il monumento funebre a Nikita Chruščev (1974), commissionatogli dai familiari: marmo bianco e nero si intersecano a simboleggiare la duplicità della figura storica. Prosegue: «Negli ultimi anni ho dedicato molti sforzi a creare il modello di un’opera scultorea (e architettonica) monumentale che spero possa diventare una realtà talmente straordinaria, che l’uomo possa a contatto con essa arrivare a sperimentare i problemi essenziali e profondi dell’esistenza. La bozza si trova nel mio laboratorio; il suo titolo è Il cuore dell’uomo».

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Particolare del monumento funebre per Nikita Chruščev al cimitero Novodevičij di Mosca. (wikipedia)

Questo diritto alla libera individualità nella vita e nell’arte è talmente sacro a Neizvestnyj, che non esita mai a difenderlo, anche a costo di risultare scomodo. Lo dimostra lo scambio avuto con Chruščev durante la mostra organizzata al Maneggio di Mosca nel 1962, in cui il capo del partito definisce le sue opere «arte degenerata» con termini pesantemente offensivi.
La risposta dell’artista è immediata: «E chi dei suoi assistenti le ha detto, Nikita Sergeevič, che lei si intende di arte?». La sua opposizione al sistema non deriva da motivazioni politiche e non c’è in lui alcuna volontà di contrastare intenzionalmente il governo: anche quando la spia che è stata incaricata di tenerlo sotto osservazione, affascinata dal suo comportamento noncurante della pressione psicologica, gli propone di collaborare per passare informazioni all’Occidente, lui rifiuta. Il suo dissenso è più profondo, nasce da una passione per la libertà umana, per ciò che non è predeterminato, e finisce così per contrapporsi naturalmente ad ogni ideologia volta a sminuire e incasellare l’uomo, sia in senso comunista che consumista.

Per questo il suo stile risulta «rivoluzionario» sia per il regime sovietico che per la realtà occidentale: «Mi sembra che l’errore fondamentale dei contemporanei sia quello di considerare la cultura artistica umanistica e intellettuale di oggi secondo le categorie di una cultura meccanica, positivistica, tecnocratica e pragmatica. Sì, la cultura è vista come una specie di «summa» di conoscenze e come progressivo movimento in una certa direzione. Tutto questo, però, non è corretto se applicato all’arte, perché l’esigenza che l’artista riesca ogni giorno a stupire il mondo è profondamente borghese. La legge del mercato, che esige continuamente nuove merci, il consumismo, sono in realtà impulsi tutt’altro che rivoluzionari, ma anzi profondamente controrivoluzionari e borghesi per l’artista (…) I miei predecessori credevano dunque nel progresso tecnico (…) In questo senso si muovevano dall’uomo alla macchina. Io, invece, mi muovo su un’altra direttrice, sulla spirale storica che porta dalla macchina all’uomo, cioè nella direzione esattamente opposta».

Neizvestnyj è consapevole che non sono tanto i soggetti delle sue rappresentazioni ma il «profumo di libertà» dei suoi lavori e la sua spontaneità nel fare esattamente ciò che desidera ad infastidire i critici. Fino a che il divario tra la sua volontà e il contesto diventa troppo ampio, e l’artista finisce per entrare in contrasto, involontariamente ma inevitabilmente, con le autorità sovietiche.Nel 1962 viene escluso dall’Unione degli artisti, non gli viene più garantito un laboratorio, nel corso degli anni gli diviene sempre più difficile reperire i materiali per le sue opere e con tali condizioni gli si impedisce praticamente di lavorare in autonomia.

Nel 1976 decide quindi, a malincuore, di lasciare il paese: «Guadagnavo bene, ma stavo lavorando su schizzi che avevo realizzato circa quindici anni prima. Quindi ero indietro di quindici anni. Per un artista questa è la morte. (…) Quello a cui sto lavorando ora non può essere fatto in Unione Sovietica, perché è arte metafisica, e nel nostro paese per definizione non credono nell’esistenza dell’anima, quindi la mia arte, così come la vorrei, ora lì non è richiesta».

Neizvestnyj muore nel 2016 a New York, senza rientrare mai stabilmente in Russia. Dopo il crollo dell’URSS si reca però di frequente a Mosca (vi festeggia anche l’ottantesimo compleanno) e realizza alcune opere da installare in patria, come la Maschera del dolore (1996) a Magadan (capitale dell’inferno dei lager della Kolyma), dedicata alle vittime del Gulag e toccante esempio della monumentalità ed espressività della sua arte: un enorme volto di pietra alto 15 metri piange dall’occhio sinistro lacrime in forma di piccoli volti, mentre l’occhio destro è rappresentato dalla finestra con le inferriate di una tipica cella di prigione riprodotta all’interno. I lineamenti della maschera compongono una croce, che sul retro fa da sfondo ad un uomo crocifisso senza volto; ai suoi piedi, una donna inginocchiata si copre il volto con le mani in pianto. «Ciò che sopravvive nell’arte di Ernst Neizvestnyj è il tentativo di esprimere plasticamente la verità sull’Uomo e sul mondo» ha scritto di lui Nikolaj Novikov.

L’uomo che scolpiva l’Uomo

Particolare della Maschera del dolore. (wikipedia)

Concludiamo con un breve estratto da un’intervista rilasciata all’inizio del 1977, poco dopo il suo arrivo in America. La sua risposta alla domanda del giornalista su che cosa desideri per i suoi cari e connazionali per il nuovo anno, è un sincero augurio di umanità che vale ancora oggi.

«Sono sempre stato un personalista, ho sempre difeso il diritto al proprio Io, e

la prima e più importante cosa che vorrei augurare ai miei connazionali è di essere, in una parola, più uomini, Uomini con la maiuscola, e meno sudditi, di sentirsi meno vincolati da false illusioni e falsi doveri.

Auguro ai miei connazionali la libertà. Libertà di movimento e di creatività in qualsiasi lavoro, da quello di operaio, di contadino, a quello di intellettuale. Infatti, la libertà genera iniziativa e l’iniziativa genera buon lavoro. Per questo auguro ai miei connazionali non schiavitù, ma iniziativa.

Sognavo di vedere l’Italia, sognavo di vedere il mondo; ho visto molto, ma per questo ho dovuto fare qualcosa in fondo di pazzesco, ovvero rompere con tutto ciò che avevo di più caro, con la mia famiglia, con i miei amici, con il luogo per cui avevo combattuto. Auguro loro di poter viaggiare in futuro senza dover fare scelte così tragiche, senza drammi. Sogno che mia figlia, come la figlia di qualsiasi egiziano, spagnolo, americano, francese, semplicemente in quanto giovane artista, il giorno che lo vorrà possa viaggiare e vedere l’arte francese e italiana. Il mondo è uno, la cultura del mondo è una, e vorrei che questa situazione normale arrivasse finalmente in Unione Sovietica, in modo che possano muoversi non solo i privilegiati, ma tutti. (…)

E ai leader della Russia auguro di pensare ai propri figli e ai propri nipoti. Perché oggi forse i loro figli possono godere dei benefici della libertà di circolazione e della ricchezza materiale, ma con il sistema attuale sappiamo tutti che domani ne saranno privati, proprio come i figli dei leader di ieri. E chiedo loro di pensare al futuro dei propri figli, se non vogliono pensare al futuro di mia figlia e a quello dei miei amici. Voglio che siano buoni padri e nonni. (…) Agli amici che hanno lavorato con me nel laboratorio, auguro di continuare il nostro lavoro comune, di non desistere, di continuare a essere artisti, a lavorare nella vera arte e non arrendersi all’arte commerciale. Inoltre desidero rivederli tutti e auguro loro questa possibilità. Miei cari compatrioti, familiari, amici, a tutti voi auguro felicità, prosperità e, soprattutto, libertà e pace interiore».


(Immagine d’apertura: monumento la Maschera del dolore a Magadan, wikipedia)

Miriam Zanoletti

Nata nel 1999, ha studiato all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Albert-Ludwig di Friburgo, conseguendo la laurea magistrale in Lingue e Letterature tedesca e russa.

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