29 Agosto 2023

L’icona nel paese dei soviet

Giovanna Parravicini

Un’operazione paradossale e spregiudicata del giovane Stato sovietico: promuovere in Occidente una colossale pubblicità dell’icona, a dispetto dei propri principi atei e antireligiosi, per crearle un mercato internazionale e pagare così i costi dell’industrializzazione.

Un’agile pubblicazione di Elena Osokina, Le sorti delle icone nel paese dei soviet. Anni ’20-30, ha il merito di focalizzare un fenomeno paradossale, di cui finora si è parlato poco: com’è nato il mercato dell’icona, solo pochi decenni fa sconosciuta ai più in Occidente come genere artistico e considerata in Russia un oggetto di culto privo di valore estetico?

L’icona nel paese dei sovietAnni di ricerche negli archivi russi hanno condotto la studiosa, docente di storia all’Università del South Carolina, ad affermare che proprio la necessità di ricavare ingenti mezzi finanziari per sostenere l’industrializzazione indusse, alla fine degli anni ’20, il regime sovietico a orchestrare una vasta campagna pubblicitaria dell’icona in ambito internazionale, così da preparare un mercato che potesse assorbire, pagandoli lautamente, gli innumerevoli capolavori dell’arte iconica che la Russia aveva prodotto nei secoli. Se questo progetto, in realtà, non ebbe un esito economico così rilevante come avrebbero voluto i suoi promotori, servì tuttavia a far conoscere e apprezzare l’icona russa in tutto il mondo.

Approfittando della presenza della studiosa in Russia, il 4 luglio il volume è stato presentato alla Biblioteca dello spirito di Mosca. L’interesse dell’autrice – che ha già dedicato al tema una pubblicazione più volte rieditata, L’azzurro celestiale delle vesti degli angeli, Mosca 2018 – è esclusivamente storico, restano quindi sullo sfondo le tematiche connesse alla nazionalizzazione delle proprietà private, comprese le collezioni di icone raccolte da studiosi e cultori dell’arte; alle persecuzioni religiose, con le conseguenti espropriazioni dei beni ecclesiastici, chiusure di chiese e monasteri; agli aspetti più propriamente legati alla riscoperta e al restauro delle icone. Tuttavia, gli imponenti numeri del fenomeno presentato nel volume di Osokina (le migliaia di opere d’arte sacra acquisite in pochi anni dal Fondo Museale Statale),

i drammi vissuti da quanti operavano nell’ambito di musei e centri di restauro, le peripezie a cui andarono incontro le icone, concorrono efficacemente a delineare, da una prospettiva pressoché inedita, il quadro della Russia post-rivoluzionaria.

Il lettore assiste al formarsi di grandi collezioni museali di icone, alle alterne sorti dei musei, che vedono repentinamente arricchirsi e depauperarsi i propri fondi a seconda del corso della politica statale, delle scelte ideologiche e delle esigenze economiche del giovane Stato sovietico.

L’icona nel paese dei soviet

Icone russe in mostra a Colonia (1929). (Galleria Tret’jakov)

Sullo sfondo delle vicende di quegli anni emergono grandi figure di studiosi e restauratori come Aleksandr Anisimov, Igor’ Grabar’, Pavel Jukin, Grigorij Čirikov e così via, che si trovano a combattere una battaglia disperata e rischiosissima per conservare l’integrità del patrimonio artistico del paese e per salvare le collezioni di musei e istituti di cui avevano la responsabilità, assecondando in parte gli spregiudicati progetti dello Stato di mettere in vendita il patrimonio di icone della Russia pur di far conoscere a livello internazionale il valore dell’icona, di ristabilire un rapporto con gli studiosi di tutto il mondo e, in particolare, di organizzare la grandiosa esposizione che avrebbe visto nel 1929-1932 i capolavori russi in mostra nei più prestigiosi musei d’Europa e d’America.

Anisimov

A. Anisimov in un ritratto di B. Kustodiev (1915). (wikipedia)

Emblematica la sorte di Aleksandr Anisimov, negli anni ’20 responsabile della sezione di cultura religiosa del Museo Storico di Mosca, che a quel tempo possedeva la più grande collezione di icone, successivamente passata alla Tret’jakov. La sua «disgrazia» inizia dalla pubblicazione di un saggio dedicato all’icona della Vergine di Vladimir (di cui aveva diretto il restauro) a Praga, presso il Seminarium Kondakovianum, sorto nell’emigrazione per opera di uno dei massimi esperti di icone del tempo, Nikodim Kondakov, in cui lavoravano molti degli antichi colleghi dello stesso Anisimov, emigrati in seguito alla rivoluzione.

È impressionante seguire la sua frenetica, appassionata attività di ricercatore, i suoi tentativi di opporsi alla spogliazione della sezione di cultura religiosa avvenuta nel 1927-1929, sull’onda dalla grandiosa campagna antireligiosa realizzata dall’«Unione dei senzadio», le sue franche e candide dichiarazioni di non avere nulla contro il marxismo, ma di essere personalmente idealista, di riconoscere l’esistenza dello spirito e di considerare la religione una grande forza culturale. Licenziato nel 1929 dal museo, Anisimov viene arrestato nell’ottobre 1930. La sua richiesta, all’atto dell’arresto, è che non gli venga confiscata la collezione di icone, perché ne avrebbe avuto bisogno per lavorare allo scadere della condanna.

In realtà, non avrebbe più fatto ritorno dai luoghi di pena: in quanto «professore iconologo, senza fissa occupazione», e perdipiù con una visione chiaramente antisovietica, viene condannato a 10 anni di lager, che sconta dapprima nell’ex monastero delle Solovki e poi nei cantieri del Canale mar Bianco-mar Baltico. Dalle memorie dell’accademico Lichačev e dal suo fascicolo processuale sappiamo che

Anisimov non rinunciò neppure in lager a parlare ai suoi compagni di reclusione della pittura russa antica e, senza far mistero del suo malcontento per la politica del potere sovietico, godeva di «immensa autorità» fra di essi,

tanto da essere giudicato dall’amministrazione dei campi una «zavorra dannosa per il lager». Di qui la sentenza della Trojka dell’NKVD della Carelia, che ne decretò la fucilazione il 2 settembre 1937.

Qualche mese prima che fosse arrestato, Maksimilian Vološin gli aveva dedicato un poema incentrato appunto sulla Madre di Dio di Vladimir, scrivendo nell’epigrafe: «Fedel guardiano e fervido seguace / della Madre nostra di Vladimir, eccoti / due chiavi: aurea, che ne conduce alla dimora, / e rugginosa, verso la nostra amara sorte».

All’arresto di Anisimov ne sarebbero seguiti altri, dal 1931 al 1934, tra i restauratori e gli studiosi di pittura medievale. È dunque tanto più straordinario vedere, sul filo del pericolo quotidiano che correvano, l’impegno di queste personalità per la salvaguardia del patrimonio iconico e la loro lotta serrata con gli enti statali «Antikvariat» e «Torgsin», che non si facevano alcuno scrupolo di vendere in Occidente perfino i massimi capolavori artistici presenti nel paese.

Se era abbastanza semplice trovare un mercato per le opere pittoriche occidentali – e in effetti vennero venduti innumerevoli capolavori dell’Ermitage – non così era per le icone, poco conosciute e quindi non debitamente apprezzate.

L’icona nel paese dei soviet

Icona della Dormizione, appartenuta alla Galleria Tret’jakov, messa in vendita nel 1936 e acquisita dal Menil Museum di Houston. (art-and-houses.ru)

Paradossalmente, come fa notare l’autrice del volume, fu proprio lo Stato sovietico ateo a sponsorizzare una grandiosa mostra di icone, che Osokina definisce «serva di due padroni», perché almeno in linea di principio i due ministeri che la organizzarono, il Commissariato per il commercio e il Commissariato per la cultura, perseguivano finalità opposte: «Gli esponenti del commercio vedevano nella mostra una possibilità di reclamizzare la merce ed esigevano che si mostrassero quanti più possibile capolavori, nutrendo la speranza di vendere qualcosa già in mostra oppure in margine a essa. Gli esponenti della cultura invece dovevano salvaguardare il patrimonio artistico nazionale e propagandare esclusivamente aspetti culturali e scientifici, far conoscere all’Occidente l’arte russa antica, una scoperta di rilievo mondiale recentemente avvenuta nel loro paese». Protagonisti di questo evento epocale furono Aleksandr Anisimov, Igor’ Grabar’, allora direttore dei Laboratori centrali di restauro (sarebbe andato in pensione anticipatamente, nel 1930, per sfuggire a sua volta all’arresto), e il primo presidente di «Antikvariat», Abram Ginzburg.

In una lettera di Grabar’ alla Camera di Commercio sovietica dell’8 agosto 1928 è ben visibile il gioco dello studioso, che fa balenare la possibilità di un ingente numero di acquirenti all’estero, in quanto «nello studio dell’icona russa è racchiusa l’unica speranza di gettare un raggio di luce sull’epoca più buia della pittura europea, l’alto Medioevo», di cui in Occidente si conservavano ormai solo poche opere pittoriche.
Per questo, secondo Grabar’, occorreva coinvolgere gli ambienti scientifici e museali occidentali, aprire un dibattito internazionale sul valore dell’icona russa; la mostra, nella sua intenzione, doveva essere il più possibile scientifica: nelle sale si doveva mostrare anche il processo di restauro, e all’esposizione occorreva affiancare convegni scientifici e conferenze divulgative, pubblicazioni curate da esperti russi e occidentali.

Grabar

I. Grabar’. (wikipedia)

Un mese dopo, scrivendo al presidente di «Antikvariat», Grabar’ insisteva unicamente sugli aspetti economici e remunerativi dell’impresa. Un vero e proprio azzardo, perché il rischio che le opere inviate in mostra all’estero non tornassero era altissimo… Lo stesso Anisimov, nell’estate del 1930 (dunque, alla vigilia dell’arresto), mentre si dava da fare per scegliere le opere per la mostra, era ben consapevole che parte delle icone esposte sarebbe stata messa in vendita, ma – come risulta dalla lettera di una funzionaria del museo di Vologda, Ekaterina Fedyšina – cercava almeno di far sì che venissero vendute «quelle di cui ne abbiamo migliaia, tipo san Giorgio…».

Qualche mese prima, in una lettera a Nikolaj Beljaev, studioso di storia dell’arte emigrato a Praga, aveva scritto:

«…è giunto il momento di mostrare al mondo la grande, autentica arte russa, di fargli incontrare l’anima russa, arricchendo così la sua anima di nuovi rivoli di grazia umana;

e di donare a tutti voi, che siete separati dalla patria ma avete nei suoi confronti gli stessi diritti degli altri russi, di vedere ciò che vi appartiene e immergervi nelle fonti della sua tradizione. Per questo non mi sono fermato davanti a niente e ho lavorato, ho lavorato per tre mesi di fila, lasciando da parte tutto il resto».

La mostra, che comprendeva oltre un centinaio di icone antiche di grandissimo pregio e copie esatte di alcuni sommi capolavori (tra cui la Trinità di Rublëv e la Madre di Dio di Vladimir), fu inaugurata nel febbraio 1929 a Berlino, poi passò a Colonia, Monaco e Amburgo; in autunno approdò a Vienna e in novembre-dicembre al Victoria and Albert Museum di Londra. Le fervide lettere di Grabar’ alla moglie ci danno un’idea dell’entusiasmo vissuto in quei giorni: «È venuta dannatamente bella. Naturalmente, in Russia non avevamo mai visto niente di simile, bisognava venire in Germania per vederla. La parete di fronte all’entrata è di tale effetto da lasciare senza fiato…» (Monaco, 7 maggio 1929).

L’icona nel paese dei soviet

Prestigiose icone esposte al Boston Museum of Fine Arts: da sin., si riconoscono l’arcangelo Gabriele, dal Monastero del Salvatore di Jaroslavl’; san Paolo, opera di Rublev e Černyj, e san Cirillo di Beloozero con scene della vita, opera di Dionisij. (E. Osokina)

Nella primavera del 1930 il prezioso carico salpò per gli Stati Uniti, dove avrebbe viaggiato di città in città per circa un anno e mezzo. Ad Anisimov venne negata la possibilità di accompagnare la mostra nella sua tournée, ma anche ai restauratori Grabar’, Evgenij Brjagin (autore di alcune copie), e Pavel Jukin, che in Germania avevano tenuto lezioni, visite guidate e dimostrazioni di restauro, fu negato il permesso di partire per l’America (in quei mesi Grabar’ fu coinvolto nel processo di Anisimov, anche se ne uscì senza conseguenze, mentre Jukin fu arrestato a sua volta il 3 marzo 1931).

Di fatto, i tentativi più volte messi in atto dagli enti sovietici di vendere le icone durante la mostra non ebbero fortuna, perché le compagnie assicurative prevedevano la restituzione delle opere al termine dell’esposizione, che era stata ufficialmente dichiarata un’operazione culturale e non a scopo di lucro.
Tuttavia, la scoperta dell’icona avvenuta in occasione della mostra avrebbe aperto le porte al suo studio e addirittura a una certa «moda» dell’icona in Occidente.

Indubbiamente, nei decenni successivi si sviluppò un mercato antiquario dell’icona, complice anche il fatto che numerosi emigrati russi, che lasciando la patria si erano portati con sé le icone di famiglia, mossi dalla necessità si trovarono a metterle gradualmente in vendita. In ogni caso, se oggi l’icona russa è conosciuta e apprezzata in Occidente, i grandi capolavori della pittura medievale russa continuano a restare unicamente patrimonio dei musei russi.


(foto d’apertura: russiainphoto.ru, collezione S. Burasovskij)

Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

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