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1 Novembre 2025
La voce solitaria di Anatolij Marčenko nell’estate che soffocò Praga
Nell’estate del 1968, mentre i carri armati sovietici si preparavano a soffocare la Primavera di Praga, l’operaio russo Anatolij Marčenko scrisse una lettera di protesta in cui affermava il ruolo della coscienza individuale contro il conformismo di regime. Un grido di verità di cui avrebbe pagato le conseguenze.

A. Marčenko nel 1974. (Memorial)
Nell’estate del 1968, mentre i carri armati sovietici si preparavano a soffocare la Primavera di Praga, da un piccolo centro della provincia russa partì una lettera destinata a non essere mai pubblicata. Il suo autore, Anatolij Marčenko, operaio e «dissidente», aveva scelto di compiere un gesto apparentemente inutile e certamente pericoloso: opporsi pubblicamente, con nome e cognome, all’aggressione – prima verbale e poi militare – della Cecoslovacchia da parte del Patto di Varsavia. Non si trattava di un appello alla resistenza collettiva, né della speranza ingenua di fermare la macchina del potere, era qualcosa di più radicale e insieme di più fragile: l’affermazione della propria coscienza individuale contro l’unanimità fabbricata dal regime.
Erano due anni che Marčenko era stato rimesso in libertà, dopo aver scontato la pena per aver tentato di fuggire in Iran dopo il suo rilascio da un campo di lavoro, dove era stato recluso in seguito a una ingiusta condanna. Nel novembre 1966, quando fu rilasciato, era ormai «un oppositore del potere sovietico ben preparato, risoluto e convinto», come ha scritto Aleksandr Daniel’ nell’introduzione alla trilogia che ne raccoglie gli scritti.
La sua lettera, datata 22 luglio 1968 (un mese prima dell’invasione), si apre con un’osservazione sul meccanismo totalitario: «Nella recente sessione del Soviet Supremo russo, i deputati si sono soffermati sugli avvenimenti cecoslovacchi e hanno espresso all’unanimità il sostegno al plenum del Comitato centrale, e altrettanto unanimemente hanno approvato la lettera di Varsavia», ossia il monito stilato a metà luglio dai cinque leader di Unione Sovietica, Germania Est, Ungheria, Polonia e Bulgaria riuniti a Varsavia, in cui esprimevano la preoccupazione per il «deterioramento della situazione» e mettevano in guardia la Cecoslovacchia dalle conseguenze dell’«allontanamento» dal marxismo-leninismo. Quell’unanimità – apparentemente naturale, quasi automatica – nascondeva in realtà un processo di falsificazione sistematica della volontà popolare: la linea politica «è stata approvata all’unanimità dai deputati del Soviet Supremo della Russia, che rappresentano gli elettori, cioè la popolazione, la cui stragrande maggioranza (me compreso) non è comunista».
«È bastato che Brežnev etichettasse gli sviluppi in Cecoslovacchia come “intrighi dell’imperialismo”, “minaccia al socialismo”, “avanzata di elementi antisocialisti”, perché tutta la macchina propagandistica si mettesse in moto», prosegue Marčenko, e osserva con sarcasmo:
«Non credo né alle mitiche trame dell’imperialismo contro la Cecoslovacchia né all’offensiva delle forze della reazione interna, e penso che non ci credano nemmeno gli stessi autori dei suddetti miti».
Le lettere dei lavoratori ai giornali, le risoluzioni dei collettivi sono «solo la ripetizione di formule preconfezionate dall’alto, e non l’espressione di un’opinione indipendente basata sulla conoscenza dei fatti».
Marčenko si rifiuta dunque di accettare la narrativa che in agosto avrebbe portato a compiere e a giustificare l’invasione, e di prestare la propria voce a questa finzione collettiva, di lasciarsi rappresentare da chi parla nel suo nome: «Per quel che mi riguarda, io la penso in un certo modo e voglio esercitare il diritto garantito dalla Costituzione di esprimere la mia opinione».
Inoltre egli confronta l’atteggiamento sovietico verso la Cecoslovacchia con quello degli Stati Uniti verso la Repubblica Dominicana: «Probabilmente gli autori di queste lettere, approvando la politica del Comitato Centrale del PCUS, non hanno pensato anche al fatto che assomiglia in modo impressionante alla politica degli Stati Uniti nei confronti della Repubblica Dominicana». L’attivista si riferisce all’operazione Power Pack, avviata nel ’65 dagli Stati Uniti che intervennero sull’isola mentre era in corso la guerra civile; lanciata ufficialmente per proteggere i cittadini, l’azione mirava a impedire una svolta comunista nel contesto della Guerra fredda. Secondo Marčenko, la differenza tra l’intervento americano e quello sovietico è puramente lessicale: gli uni convinti di «proteggere la democrazia», gli altri di «difendere il socialismo», ma la sostanza era identica, si avallava la negazione della sovranità nazionale in nome di interessi egemonici.
Tantopiù che l’invasione dell’agosto ’68 fu presentata non come un’aggressione, bensì come un’operazione di sostegno ai «comunisti fedeli» «che sarebbero stati denigrati e sottoposti a “terrorismo morale” dagli antisocialisti cecoslovacchi»: è il gioco di negare la legittimità dello Stato sovrano dividendolo artificialmente tra una parte «sana» e una «antisocialista».
«Se la Cecoslovacchia riuscirà davvero a instaurare un socialismo democratico – osserva ancora l’attivista, – allora non ci saranno più giustificazioni per l’assenza di libertà democratiche nel nostro paese,
e allora chissà, anche gli operai, i contadini e gli intellettuali vorranno la libertà di parola nella pratica, e non solo sulla carta». Il vero problema non era tanto e solo ciò che stava accadendo in Cecoslovacchia – un paese che, con tutti i limiti e le contraddizioni, stava tentando una propria via – ma ciò che questo esempio rappresentava per il mondo sovietico, cioè la possibilità che un paese satellite dimostrasse che era possibile costruire una società diversa, più libera, più aperta.
Se i cechi e gli slovacchi potevano protestare, cambiare i propri governanti, perché i sovietici non avrebbero potuto fare altrettanto? «I nostri leader sono davvero preoccupati per ciò che sta accadendo in Cecoslovacchia? A mio parere, non sono solo preoccupati ma spaventati. E non perché sia una minaccia allo sviluppo socialista o alla sicurezza dei paesi del Patto di Varsavia, ma perché gli eventi in Cecoslovacchia potrebbero minare l’autorità dei leader di quegli stessi paesi e screditare i principi e metodi di governo prevalenti nel blocco socialista».

Dal 3 al 5 novembre a Milano si terrà il primo Convegno scientifico internazionale in memoria di Marčenko.
Un altro tema centrale è la questione della rimozione della responsabilità storica di chi detiene il potere. Marčenko scrive che «è comprensibile che i nostri leader si affrettino a difendere personaggi come Urválek [giudice dei processi-farsa degli anni Cinquanta, particolarmente inflessibile – ndr] – o Novotný [primo segretario e presidente cecoslovacco fino al ’68 – ndr]: il precedente [di contestare la] responsabilità personale di figure del partito e dello Stato nei confronti del popolo è pericoloso e contagioso». L’autore elenca con amarezza i crimini che in URSS venivano pudicamente chiamati «“errori”, “eccessi” o, in modo ancora più blando e vago, “difficoltà ormai superate del nostro eroico passato”», mentre in realtà si tratta di «milioni di persone ingiustamente condannate e uccise, di torture avvenute tra le mura del KGB, di intere popolazioni dichiarate nemiche, della catastrofe dell’agricoltura nazionale e di bazzecole simili». Il precedente cecoslovacco apriva dunque la possibilità che anche in URSS un giorno si sarebbe potuto chiederne conto ai carnefici, e questo era intollerabile per chi aveva costruito la propria carriera politica sulla violenza e sulla menzogna.
«Mi vergogno del mio paese – dichiara con dolore Marčenko, – che ancora una volta assume l’indegno ruolo di gendarme d’Europa». Il suo non è un rifiuto astratto, ma proprio perché ama il suo paese non può accettare che diventi nuovamente «il gendarme d’Europa»: «Vorrei anche ricordare eventi storici del passato, come il valoroso esercito russo che, dopo aver liberato i popoli europei da Napoleone, altrettanto valorosamente soffocò nel sangue la rivolta polacca».
È l’accusa dell’idea imperiale, che cioè l’URSS avesse il diritto, anzi il dovere di controllare ciò che accadeva nei paesi vicini in nome di una visione che era sopravvissuta ai regimi e alle cesure storiche perché radicata in una concezione particolare del rapporto tra Stato e società, tra potere e individuo, e che non era mai stata messa in discussione. Perciò Marčenko voleva spezzare la tentazione di reiterare il peccato imperiale della Russia.
«L’obbedienza, a quanto pare, non è la virtù civica più preziosa», annota ancora l’attivista con un colpo di penna radicalmente «sovversivo», perché il regime esigeva obbedienza, disciplina, unità monolitica, mentre secondo la sua visione queste non sono virtù, ma strumenti di oppressione, e rivolge un monito a coloro che applaudono meccanicamente: «Agli autori delle lettere, ai partecipanti alle manifestazioni e alle riunioni a sostegno della politica del Comitato Centrale, vorrei ricordare che tutti i cosiddetti errori e le deviazioni nella storia del nostro paese sono avvenuti tra applausi scroscianti e prolungati che si trasformavano in ovazioni, tra le grida di approvazione unanime dei nostri cittadini così coscienziosi».
Non era la prima volta infatti che in URSS una decisione politica gravida di conseguenze era accompagnata da manifestazioni di entusiasmo popolare accuratamente orchestrate, basti pensare all’«entusiasmo» per la collettivizzazione forzata, al «furore» durante i processi-farsa ai politici caduti in disgrazia, alle «lettere spontanee» di cittadini che chiedevano la pena di morte per i «nemici del popolo», ecc. La complicità delle masse era costruita attraverso la persuasione, l’intimidazione sottile, la normalizzazione di ciò che era abnorme. E nel ’68 si stava ripetendo lo stesso copione.
Quanto di questo sostegno era genuino e quanto era costruito attraverso la propaganda, la censura, la paura? Marčenko scrive:
«Mi vergognerei anche del mio popolo se credessi veramente nel suo sostegno unanime alla politica del Comitato Centrale. Ma sono sicuro che in realtà non è così, che la mia lettera non è l’unica, solo che lettere del genere qui non vengono pubblicate.
Anche in questo caso l’unanimità dei nostri cittadini è una finzione, creata artificialmente violando la stessa libertà di parola che si esercita in Cecoslovacchia. Ma anche se fossi l’unico a pensarla così, non rinuncerei alla mia opinione. Perché è stata la mia coscienza a suggerirmela. E la coscienza, secondo me, è più affidabile della linea del Comitato Centrale che subisce continui cambiamenti, e delle decisioni delle varie sessioni, adottate in base alle oscillazioni della linea generale».
Pochi giorni dopo la diffusione della lettera, Marčenko fu arrestato e condannato a un anno di reclusione – lo stesso giorno dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia! – con l’accusa di aver violato le norme sui passaporti.
La sua vicenda – conclusasi poi tragicamente nel dicembre 1986 dopo ripetute condanne – ci testimonia che la speranza non sta tanto nella possibilità di fermare l’invasore con le parole, di convincere il potente con gli argomenti della ragione, quanto piuttosto nel fatto che voci come la sua esistono, resistono, testimoniano. E che un giorno qualcuno le rileggerà e saprà che non tutti hanno applaudito, che non tutti erano complici, che la coscienza individuale ha continuato ad esistere anche quando sembrava soffocata dalle circostanze.
«Ma anche se fossi l’unico a pensarla così – scriveva Marčenko, – non rinuncerei alla mia opinione. Perché è stata la coscienza a suggerirmela».
È la lunga catena di coloro che hanno preferito la Siberia al silenzio, il confino alla complicità. E che hanno dimostrato, con la propria esistenza, che anche in un sistema totalitario esiste ancora uno spazio – minuscolo, «pericoloso» – di libertà: quello della coscienza capace di dire no.
(foto d’apertura: wikipedia)
Angelo Bonaguro
È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.
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