
23 Giugno 2025
Cercando l’Ararat: la patria diventa domanda
Un documentario russo dal titolo «Patria» (2024) che non la celebra, ma ne mette in discussione la concezione stessa. La vita di padre Giovanni Guaita e altre storie di emigrazione e identità complesse suscitano domande irriducibili.
Un documentario russo intitolato Patria che non celebra la patria, anzi, la mette in discussione fino alle fondamenta. È il paradosso del documentario di Aleksandr Archangel’skij e Tat’jana Sorokina uscito nel 2024, che propone una coraggiosa riflessione su un concetto tanto attuale quanto abusato dall’ideologia. I registi non si sono fatti frenare dalla difficoltà di un tema spesso rigettato per vergogna o sofferenza; dal potenziale fiasco economico di alcune scelte controtendenza (come porre un sacerdote nel ruolo centrale), né dall’ostracismo della censura: «Restando in Russia, accettiamo di rispettare le leggi vigenti. Detto questo, la libertà interiore nessuno ce l’ha tolta», afferma Sorokina.
«Quando parole importanti vengono contaminate, bisogna purificarle o mostrare che sono contaminate»,
spiega Archangel’skij in un’intervista per Radio France Internationale. Per farlo in libertà, la produzione è rimasta indipendente dalle sovvenzioni statali finanziandosi attraverso un crowdfunding che ha coinvolto migliaia di persone. Allo stesso modo, il documentario non ha ricevuto l’autorizzazione statale per la proiezione nei circuiti pubblici, ma è stato possibile mostrarlo in alcuni circoli privati dove si sono radunate centinaia di spettatori.

Da sin., il regista A. Archangel’skij e p. Guaita.
«Abbiamo pensato a questo film per porre innanzitutto a noi stessi delle domande, senza dare alcuna risposta – prosegue il regista, – quindi le persone che vogliono risposte pronte non riusciranno a guardare il nostro film, perché non ci sono risposte preconfezionate».
Cos’è la patria nell’epoca dell’emigrazione di massa? Cosa significa per chi la lascia, volontariamente o involontariamente? E cosa significa per chi ritorna? Sono alcuni degli interrogativi aperti che fanno da sfondo alle molteplici voci che si intrecciano negli incontri con la figura centrale, padre Giovanni Guaita.
La sua storia introduce già alla complessità del tema. Sardo di origine, durante l’infanzia ha conosciuto il disagio nel rapportarsi con l’idea di patria stravolta dal fascismo nei decenni precedenti. Trasferitosi durante gli studi prima a Firenze, poi in Svizzera e infine a Mosca, si definisce uno «straniero professionista»: «Non direi che sono russo, ma dire chi sono è difficile anche per me. Io amo la Russia tanto quanto l’Italia, né di più né di meno», racconta.
Consacrato ieromonaco sotto il patriarcato di Mosca, Guaita vive oggi in prima persona il dramma della guerra, percependo anche una responsabilità particolare nel suo essere non cittadino russo né di nazionalità russa, ma «russista» che ha abbracciato volontariamente la Chiesa ortodossa russa. Questa condizione gli permette di affrontare la crisi senza fuggire né lasciarsi travolgere, ma avendo ben chiara l’urgenza della domanda da cui prende le mosse tutta la riflessione: «Come porsi, come vivere, quando ti sta franando la terra sotto i piedi? Esiste una patria, una terraferma, quando un nuovo diluvio universale di portata biblica si è abbattuto sul mondo?» chiede Archangel’skij.
Proprio nella sofferenza di un rapporto attualmente difficile con la sua istituzione ecclesiastica, Guaita propone una prospettiva nuova nel rapporto con la propria «patria d’adozione», la Chiesa ortodossa russa:
«Non ho mai pensato di voltarle le spalle. Quest’anno è morta mia mamma e di colpo ho capito: se tua mamma sta morendo tu che fai, la abbandoni perché è malata? Così io non posso lasciare la Chiesa. Perché per me è come una madre. Anche se penso che in questo momento stia compiendo degli errori molto gravi».
Un amore gratuito che non nega la crisi, ma la attraversa con uno sguardo trasfigurante che restituisce la possibilità e il senso di un rapporto con essa.
Così la relazione continua a persistere anche dopo l’allontanamento dalla Russia nel 2024, che diventa per lui occasione di condividere l’esperienza di Cristo, costretto a fuggire bambino in Egitto per motivi politici e ritrovatosi a sua volta nell’incertezza di non sapere se e quando sarebbe potuto ritornare.
In quest’ottica Guaita si dice grato di condividere il destino e la sfida dei russi costretti a lasciare la propria terra. Al tempo stesso, sente che la recente emigrazione abbia rafforzato ulteriormente il suo legame già intimo con il popolo armeno. Da studioso armenista e assiduo frequentatore dell’Armenia, rivede ora nella diaspora armena un modello di riferimento: l’esempio di un popolo che ha saputo custodire le proprie radici valoriali e culturali anche in terra straniera, continuando a percepirsi come autentici patrioti del paese lontano. Per questo motivo nel documentario sono numerosi gli incontri con persone armene, dai quali scaturiscono riflessioni profonde sul significato di patria e appartenenza. Guaita esprime infatti il desiderio che la Chiesa ortodossa russa possa un giorno ricoprire un ruolo di sostegno all’identità dei russi nella diaspora così come fa la Chiesa armena per la sua gente, senza che il tratto etnico prevalga pericolosamente sull’appartenenza all’universale fede cristiana. Nel dialogo con lo ieromonaco Michael Gevorgjan, priore del monastero di Tatev (Armenia meridionale), riflette: «Gesù ha invitato gli apostoli a seguirlo lasciando tutto, madre, padre, famiglia, e in un certo senso il proprio nucleo originario, la propria patria». Il monaco, in particolare, dev’essere un «profugo interiore», perché «nel profondo della sua anima lui non deve essere legato a nulla, per cui neanche al suo paese, alla sua patria».
Questa irriducibile complessità che emerge nel rapporto con la patria è l’essenziale realismo intorno al quale ruota tutto il documentario, perché la vita è «più stravagante dell’arte» dice Archangel’skij, come testimoniano le coincidenze casuali durante le riprese: la scena emblematica del taxi che corre davanti ai manifesti «La Madrepatria è orgogliosa di voi! La vittoria sarà nostra!» mentre alla radio suona la canzone del gruppo rock DDT: «Cosa succederà alla madrepatria e a noi?».

P. Giovanni con un ospite della Casa del Faro.
Il patriottismo ideologico si sgretola di fronte alla realtà da vivere. Come quella della madre ucraina con un figlio disabile incontrata da Guaita alla fondazione Casa del Faro, costretta a rimanere a Mosca perché non ha altro posto dove andare. «È bello ideologicamente sostenere che, come patriota ucraina, non dovrebbe rimanere in Russia – commenta il regista – ma è arrivata da Doneck, è troppo difficile per lei andare oltre, e sopravvive qui come meglio può».
Queste storie che nel lungometraggio Guaita raccoglie come un confessore, riflettono le più diverse esperienze di patria. C’è Gor Grigorjan, che si è arruolato volontario per combattere in Artsakh nonostante non sia originario di quelle terre, perché «Patria per me è la terra dove sono seppelliti gli antenati di mia moglie, (…) dove parlavano armeno, pregavano in armeno». Ma c’è anche Aram Pachčanjan, tornato in Armenia per migliorare il sistema scolastico dopo anni di studio a Mosca, convinto che «la concezione della cultura nazionale è un mito», esiste solo «grazie alla mescolanza di persone, grazie alle relazioni, al dialogo, alla migrazione e ai rimpatri»
Un abitante di Gyumri (Armenia settentrionale) spiega che il rapporto con la patria ha segnato addirittura il suo modo di concepirsi e di stare al mondo: nonostante il crollo dell’Unione Sovietica abbia trasformato la sua immensa patria in «un piccolissimo fazzoletto di terra», per lui è rimasta intatta «la vastità di pensiero, l’idea che da te dipende qualcosa in questo mondo».
E Naira Muradjan, nata e cresciuta a Erevan, racconta di un legame quasi viscerale con il proprio paese, dato che dopo appena tre giorni di assenza prova una nostalgia per la sua città incomprensibile anche per lei stessa.
Infine c’è il giornalista pietroburghese Arsenij Vesnin, che con la moglie Ksenija dal marzo 2022 ha deciso di lasciare la Russia e ha intrapreso la sua personale odissea: da allora vive in barca, in un lungo viaggio verso casa: «La tua Itaca è ciò che ti sprona, ti spinge ad andare avanti, ti mantiene in cammino. Però non dico mai che torno in Russia. Torno a San Pietroburgo» – ma una San Pietroburgo che oggi ancora non esiste.
Padre Guaita si lascia attraversare da queste domande, dalla sofferenza della ricerca e dell’incertezza. «Nella Bibbia è scritto che alla fine si arriverà all’Ararat (al Paradiso). Mosè ha condotto il suo popolo fuori dalla schiavitù dell’Egitto, però non è mai arrivato lui stesso alla terra promessa. Io sono convinto che alla fine ci saranno gioia e realizzazione, ma sulla via ci sono molti ostacoli, tra cui quella sensazione di andare in tutt’altra direzione» riflette.
«Non avete l’impressione che ci troviamo in un nuovo diluvio, in cui l’Ararat si vede, ma pensare che ci sia un nuovo ramo d’ulivo, che si possa arrivare a quella terraferma, sembra impossibile?». Per il monaco,
«l’Ararat è una sorta di luogo spirituale, che innanzitutto è dentro di te. È un po’ come la terra promessa, che non è da nessuna parte, ma è qui».
La sfida è non perdere la speranza che viene dalla fede anche nel mezzo della tempesta: «Ogni tanto mi immagino Noè che alla fine del diluvio sta sulla prua dell’arca per vedere se si vede l’Ararat. Mi sembra che anche noi dovremmo stare sulla prua della nave della nostra vita e sperare che la colomba torni con il ramo d’ulivo. Ma mentre aspettiamo dobbiamo darci da fare, fare la pace, perché è la cosa più importante».
(foto d’apertura: makalu, pixabay; foto interne: screenshot dal video)
Miriam Zanoletti
Nata nel 1999, ha studiato all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Albert-Ludwig di Friburgo, conseguendo la laurea magistrale in Lingue e Letterature tedesca e russa.
LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI