
14 Maggio 2025
Padre Malecki, il don Bosco di Pietroburgo
Monsignor Antoni Malecki, grande educatore di ragazzi abbandonati a Pietroburgo e pastore irriducibile durante la rivoluzione russa. La sua sofferenza è stata quella di vedere dispersi i propri figli. Si sta per aprire la causa di beatificazione.
Nella lista dei martiri della Chiesa cattolica russa c‘è anche monsignor Antoni Malecki, grande educatore, noto anche come «il don Bosco di San Pietroburgo», che dal 1926 fu amministratore apostolico di Leningrado (nome di San Pietroburgo dal 1924 al 1991 – nda).
Nascita e giovinezza (1861-1884)
Antoni Malecki era nato il 17 aprile 1861 a San Pietroburgo, da una famiglia di militari di origini nobili. La famiglia proveniva dalla regione (allora polacca) di Vilna (l’attuale Vilnius), ma viveva da vari decenni nella capitale dell’impero russo. I Malecki facevano parte della comunità parrocchiale di Santa Caterina d’Alessandria, dove Antoni ricevette il battesimo. Sin da ragazzo mostrò grande rispetto per qualsiasi persona, a prescindere dalla sua condizione sociale. Studiò alla scuola di Sant’Anna, annessa al tempio luterano evangelico che si trova sulla prospettiva Nevskij, dove si potevano apprendere i fondamenti della fede da un sacerdote della propria confessione religiosa; poi, in previsione della scuola secondaria, i genitori lo iscrissero a un collegio preparatorio all’Accademia Imperiale degli Ingegneri «Nikolaevskij».
Ma Antoni non manifestava grande interesse per questo tipo di studi, e nel 1879 entrò nel seminario della diocesi cattolica di Mohylew appena aperto a San Pietroburgo. Nella sua scelta ebbero un peso sia l’educazione religiosa ricevuta che lo spettacolo della grande povertà in cui vivevano molte famiglie della capitale. Davanti a questa situazione, il giovane Antoni decise di consacrare la propria vita al servizio dei bambini poveri e dei giovani.
Il 25 aprile 1884 fu ordinato sacerdote dall’arcivescovo metropolita di Mohylew Aleksander Kazimierz Gintowt-Dziewałtowski, che lo inviò come curato alla chiesa di Sant’Antonio di Vitebsk, dove rimase solo pochi mesi. Alla fine del 1884, Antoni Malecki cominciò il suo ministero come sacerdote vicario nella cattedrale della Beata Vergine Maria a Minsk su nomina del metropolita, superando l’opposizione del governatore della città, perplesso per l’età troppo giovane del sacerdote.
Nel 1886, il giovane sacerdote si trovò coinvolto nella contrapposizione tra il governo e l’episcopato cattolico. La determinazione di Malecki a obbedire unicamente alle decisioni dell’autorità ecclesiastica suscitò l’ostilità del governatore di Minsk, che considerava tale comportamento una grave violazione del dovuto rispetto verso l’autorità civile. Nel maggio 1886, su ordine del governatore di Minsk, Malecki venne arrestato e condannato a sei mesi di reclusione nella prigione per sacerdoti cattolici del monastero domenicano di Aglona (in Lettonia).
Alla fine del periodo di detenzione fu nominato vicario della parrocchia di San Stanislao a San Pietroburgo. A quel punto, giunto il momento di poter realizzare il suo vecchio sogno di prendersi cura dei giovani cattolici senzatetto della capitale, il giovane sacerdote volle fare conoscenza diretta col suo ispiratore, don Giovanni Bosco, e intraprese un viaggio fino a Torino, dove visitò le scuole per apprendisti fondate dal santo torinese.
Le prime fondazioni (1889-1917)
Nel 1897, padre Antoni Malecki fu nominato vicario della parrocchia di Santa Caterina e ispirò i membri della comunità cattolica ad aprire in città un orfanotrofio per bambini cattolici. Il primo venne aperto il 20 marzo 1889 in una casa che Malecki prese in affitto. L’iniziativa non era priva di rischi, poiché l’opera non era stata registrata ufficialmente e quindi poteva essere chiusa in qualsiasi momento.

La chiesa di Santa Caterina all’inizio del Novecento. (pastvu.com)
Seguendo l’esempio del santo fondatore dei Salesiani, padre Malecki intendeva offrire ai giovani non solo un’educazione cristiana ma anche una buona formazione professionale, in modo che potessero guadagnarsi da vivere.
Nel 1896, per sostenere lo sviluppo dell’orfanotrofio, la società di beneficenza cattolica-romana della chiesa di Santa Caterina acquistò una grande proprietà che comprendeva una casa di legno a due piani, alcune dependance (tra cui una cappella) e un terreno adiacente. Nel nuovo complesso fu possibile organizzare per i ragazzi dei laboratori di falegnameria, una legatoria e un’officina. Entro il 1901, l’orfanotrofio ospitava 121 ragazzi.
Sotto la guida di Malecki, la scuola di apprendistato e l’orfanotrofio continuarono a svilupparsi. Nel 1906, padre Antoni aprì quella che veniva chiamata Scuola Polacca. All’interno dell’istituto per l’infanzia si formarono due sezioni, una di studio e una professionale, ciascuna con il proprio convitto; nella seconda, i ragazzi sopra i 14 anni imparavano diverse professioni.
Nel 1912, l’ingegnere Michail Stanislavovič Kerbedz donò dei fondi agli istituti di padre Malecki per poter costruire una casa in muratura. Con questo denaro venne costruito un edificio di quattro piani, inaugurato il 30 ottobre 1913: c’erano i laboratori, la scuola, il convitto, la mensa e la biblioteca. I laboratori funzionavano come una piccola fabbrica e oltre agli allievi vi lavoravano anche 50 operai assunti. A quell’epoca, l’orfanotrofio ospitava circa 150 ragazzi, per la cui istruzione Malecki assunse insegnanti ed educatori.
Quando poi, con grande dolore, padre Antoni si rese conto che la salute dei suoi giovani allievi peggiorava sempre di più, con l’aiuto finanziario dell’amico V. Bil’skij acquistò un terreno nella località termale di Luga (a 130 km da San Pietroburgo), dove fece costruire una casa-vacanze per i ragazzi con problemi di salute.
Nel 1912, inoltre, aprì a Strugi-Belaja, oltre 200 km da Pietroburgo, una scuola agricola per i suoi ragazzi. L’iniziativa ebbe grande successo e fu inaugurata nel 1917, poco prima della rivoluzione. In pratica, in 30 anni di ministero Malecki si trovò a dirigere tre istituzioni educative (a San Pietroburgo, Luga, Strugi-Belaja), cosa che lo obbligava a continui spostamenti. Oltre alla formazione professionale, si preoccupava infatti costantemente di accompagnare spiritualmente i suoi assistiti.
La rivoluzione e i primi sconvolgimenti (1917-1922)
La rivoluzione bolscevica del novembre (ottobre) 1917 portò una serie di sconvolgimenti nella vita della Chiesa. Il nuovo potere emise una serie di decreti che privarono la Chiesa dei diritti fondamentali (tra cui quello di persona giuridica) e quindi della possibilità di possedere qualsivoglia bene, di effettuare transazioni immobiliari, di concludere accordi legali.
Dopo aver completamente esautorato i sacerdoti, il potere permise di trasmettere la gestione e la proprietà dei beni ecclesiastici ai parrocchiani, a condizione che questi ultimi firmassero un accordo con le autorità e si impegnassero ad assumersi la responsabilità della manutenzione di tali beni.
L’arcivescovo Eduard von der Ropp, metropolita di Mohylew (1917-1226), ritenendo imminente la caduta del nuovo regime, autorizzò i sacerdoti a firmare l’accordo. Tuttavia, constatando che, al contrario, il potere si rafforzava, i sacerdoti posero la questione dell’osservanza del diritto canonico e del fatto che era inammissibile fare qualsiasi accordo con i bolscevichi. Proprio in quel momento, era il 1919, il metropolita fu espulso dalla Russia e la questione della legittimità dell’accordo rimase in mano alla nuova gerarchia cattolica: monsignor Cieplak, amministratore apostolico della diocesi e i suoi collaboratori, tra cui padre Antoni Malecki, il prelato Konstantin Budkiewicz e padre Jan Troigo.
Malecki, come padre fondatore, non accettò di buon grado la secolarizzazione delle sue opere. Senza contare l’umiliazione di vedere i bolscevichi aprire una scuola comunista polacca tra le mura del suo istituto, rischiando la morte spirituale dei suoi ex alunni. Ma accolse gli eventi con umiltà. Grazie all’intervento dei parrocchiani, la cappella della scuola fu preservata e il sacerdote poté continuare a svolgervi la sua attività religiosa.

(vkontakte)
Tuttavia, le autorità sovietiche cominciarono una campagna aggressiva per costringere i cattolici a firmare l’accordo, pena la privazione dei diritti e il sequestro delle loro proprietà. Nel 1921-1922 ci fu un lungo periodo di negoziati, scambi e scontri tra il governo e le autorità religiose, le quali erano in dubbio se firmare o meno la cessione delle proprietà della Chiesa.
Il potere sovietico fece molte pressioni sui vertici religiosi per farli cedere. Ma il clero di Pietrogrado (nome di San Pietroburgo dal 1914 al 1924 – nda), attraverso il suo vicario generale, il prelato Budkiewicz, prese una posizione ferma e rifiutò di firmare questi accordi, affermando che la proprietà della Chiesa apparteneva ai fedeli e non poteva essere alienata in nessun caso.
Alla fine, il 20 ottobre 1919 i parrocchiani e padre Malecki, che era in quel momento rettore della chiesa del Sacro Cuore della Beata Vergine Maria, firmarono l’accordo richiesto dalle autorità, come fecero molte altre parrocchie. Questa firma sollevò forti critiche da parte di monsignor Budkiewicz, e provocò il declino dell’autorità del padre Malecki tra il clero di Pietrogrado. In seguito, Malecki ritirò la propria firma e durante il processo del 1923 dichiarò di aver preso questa decisione secondo coscienza e rispondendo al suo dovere. In quello stesso periodo, fu aperto un seminario clandestino sotto la sua autorità.
Persecuzioni e ritorno a Leningrado (1922-1930)
Nel maggio del 1922, le autorità bolsceviche iniziarono la confisca dei beni ecclesiastici; secondo la versione ufficiale fu per prestare soccorso alle vittime della carestia che imperversava in alcune regioni dell’URSS.
Quando, col decreto del 5 dicembre 1922, tutte le chiese di Pietrogrado furono chiuse, padre Malecki e tutti i sacerdoti in città presero a dir messa clandestinamente. Il fatto di essersi opposti alla firma dell’accordo sulla requisizione dei beni ecclesiastici, ma ancor più la forte protesta contro la chiusura delle chiese alla fine del ’22, furono poi usati come motivazione per istruire un processo contro il clero cattolico.
Inizialmente, il 10 novembre 1922, fu consegnato a monsignor Cieplak un testo preliminare nel quale il Tribunale rivoluzionario di Pietrogrado lo incriminava, assieme ai suoi collaboratori il prelato Budkiewicz, padre Malecki ed altri (come l’esarca Leonid Fëdorov e padre Troigo), in base al nuovo Codice Penale della Repubblica socialista di Russia. Erano accusati di attività controrivoluzionarie e di propaganda antisovietica, come pure di resistenza agli organi del potere. Onde evitare la reazione della comunità cattolica di Pietrogrado, il processo si celebrò a Mosca; per questo il 3 marzo 1923 monsignor Cieplak insieme a 14 sacerdoti di Pietrogrado (compreso Malecki) e un laico furono convocati all’udienza del Tribunale rivoluzionario di Mosca.
Nel contempo, la stampa sovietica scatenò una campagna di calunnie contro i sacerdoti. Come base degli atti d’accusa vennero usati i verbali delle assemblee del clero latino di Pietrogrado, dove si era discusso di cosa avrebbe fatto la Chiesa in caso di inasprimento della legislazione sovietica e dell’eventualità di dover difendere i beni e i diritti della Chiesa.
Il processo (21-26 marzo 1923)
Il processo fu presieduto da un ex prete ortodosso di nome Michail Galkin, che aveva fatto ufficiale atto di apostasia. Tra i rappresentanti dell’accusa troviamo Nikolaj Krylenko (allora presidente del Tribunale rivoluzionario e vice-ministro del Commissariato del popolo alla Giustizia, procuratore).
L’accusa non inserì padre Malecki tra i principali colpevoli, per questo motivo, nella sentenza finale, fu condannato a tre anni di reclusione, a differenza di monsignor Cieplak e del prelato Budkiewicz, condannati entrambi alla pena capitale. In realtà, a seguito delle vibrate proteste della comunità internazionale, la pena capitale di Cieplak venne commutata di 10 anni di relegazione, prima che fosse espulso dall’URSS; mentre Budkiewicz fu giustiziato la notte di Pasqua, fra il 31 marzo e il 1° aprile 1923.
Malecki scontò la sua pena nelle carceri di Mosca, dove ebbe un primo infarto.

I sacerdoti implicati nel processo del 1923. Padre Malecki è il terzo seduto da sinistra. (vaticannews.ru)
Una volta liberato, nel 1925, tornò a Pietrogrado e si mise a disposizione della parrocchia del Sacro Cuore, oltre ad occuparsi della giovane comunità del Terz’ordine francescano, fondata nel 1920.
Il 7 luglio 1925, conformemente alle istruzioni precedenti e alla direttiva inviatagli da Eduard von der Ropp (che restava pur sempre il vescovo ordinario) venne nominato vicario generale, locum tenens dell’arcivescovo. Nel frattempo, la Santa Sede decise di costituire una nuova amministrazione ecclesiastica nella diocesi di Mohilew, «dividendo» la diocesi in diverse amministrazioni apostoliche.
Nel 1926 monsignor d’Herbigny, sulla base del motu proprio di papa Pio XI Plenitude potestatis e al decreto Quo aptius del 10 marzo 1926, riorganizzò la struttura ecclesiastica in URSS. Sul territorio dell’arcidiocesi di Mohilew furono istituite cinque amministrazioni apostoliche, ciascuna guidata da un vescovo: Bolesław Sloskans fu nominato amministratore apostolico di Mohilew e consacrato il 10 maggio 1926 (in carcere dal 10 agosto 1927); Pie Neveu divenne amministratore apostolico di Mosca il 21 aprile 1926; il vescovo Antoni Malecki fu nominato amministratore apostolico di Leningrado il 1° settembre 1926; padre Vincent Il’gin fu nominato amministratore apostolico di Charkiv il 15 agosto 1926 (in carcere per la fede dal dicembre 1926); il sacerdote Michail Jodokas, in carcere per motivi religiosi dall’aprile 1929, fu nominato amministratore di Kazan’, Samara e Simbirsk.
Padre Malecki fu nominato amministratore apostolico di Leningrado, che comprendeva gran parte del nord-ovest del paese. Il 1° settembre 1926, nella chiesa di Nostra Signora di Lourdes, il vescovo d’Herbigny, responsabile della commissione pontificia Pro Russia (creata da Pio XI nel 1925 con lo scopo di seguire da vicino i tragici avvenimenti in URSS e sovvenire ai bisogni della Chiesa clandestina, nda) consacrò segretamente vescovo Antoni Malecki (con sede titolare a Dionysiana).
Dopo la consacrazione episcopale, lo stile di vita di monsignor Malecki non cambiò affatto, continuò a vivere in modo frugale, in condizioni materiali modeste, dedicandosi totalmente al servizio dei parrocchiani. Quando i Servizi di sicurezza vennero a conoscenza del suo status episcopale fu messo sotto sorveglianza; tuttavia, rendendosi conto della disastrosa carenza di sacerdoti (la maggior parte dei quali era stata arrestata o espulsa dal paese), riorganizzò sotto la propria responsabilità un seminario clandestino, che iniziò con sei candidati.
Nel 1927, sotto pressione delle autorità, fu costretto a un esilio «volontario» ad Archangel’sk; intanto, il moltiplicarsi degli arresti e degli esili forzati fra i sacerdoti produsse una drammatica diminuzione del numero dei preti cattolici a Leningrado. Malecki, tornato in città, dovette sopperire alla penuria facendo il parroco in diverse parrocchie. In questa veste rischiava di essere arrestato ed esiliato in qualsiasi momento. La GPU lo teneva sotto stretto controllo; fu oggetto di provocazioni ed ebbe continue convocazioni per interrogatori. Il vescovo viveva nella costante paura, senza appoggi materiali né morali poiché molti cattolici erano stati arrestati. Si trovò a sperimentare una tragica solitudine.
Arresto, esilio e morte (1930-1935)
Il 12 novembre 1930 Malecki fu accusato di intrattenere rapporti segreti con le alte gerarchie cattoliche all’estero, come pure con i rappresentanti diplomatici di Polonia e Francia. Fu accusato di ricevere illegalmente sussidi finanziari e testi religiosi dall’estero, di insegnare di nascosto la fede ai bambini, nonché di ordinare clandestinamente i sacerdoti. A quel punto la GPU prese la decisione di regolare i conti in maniera extra giudiziaria.
Il 29 novembre 1930 il vescovo fu arrestato con l’accusa di opporsi all’applicazione dei decreti governativi e di svolgere attività antisovietica; fu mandato al confino per 3 anni nel villaggio di Dubynino, in Siberia orientale, a 460 km a nord-ovest di Irkutsk, dove giunse il 16 febbraio 1931, dopo un viaggio fatto in parte sotto scorta. In quel luogo Malecki non poté svolgere nessuna attività d’apostolato (in assenza di fedeli cattolici e persino di una chiesa cattolica o ortodossa); gli indigeni parlavano poco il russo mentre monsignor Malecki non conosceva le lingue locali. Inoltre, i bolscevichi cercarono di limitare i suoi contatti con il mondo esterno e con i suoi parrocchiani a Leningrado (chi tentava di aiutarlo veniva arrestato). Diceva messa di notte.
Ormai anziano e in cattiva salute, cercò di leggere e comprendere il proprio esilio con uno sguardo di fede, ma il suo cuore era dilaniato dalla lontananza e dall’idea di aver lasciato il suo popolo senza un pastore. Le condizioni di vita a dir poco austere, aggravate dal clima eccessivamente rigido si ripercossero sulla sua salute, che declinò rapidamente.

(wikipedia)
In seguito a trattative segrete fra le autorità polacche e sovietiche, monsignor Malecki fu infine liberato. Il suo ardente desiderio era restare fino alla morte nell’«amata Pietroburgo», come scrisse in una delle sue lettere. Tuttavia, dopo un breve soggiorno a Leningrado, durante il quale riuscì a incontrare i suoi parrocchiani, fu inviato a Varsavia, dove il 28 aprile 1934 fu accolto dal nunzio apostolico, monsignor Marmaggi.
Stremato da anni di persecuzioni e di pressioni psicologiche, l’anziano vescovo trascorse gli ultimi mesi nell’ospedale delle suore di Santa Elisabetta, dove si spense il 17 gennaio 1935. Le sue spoglie furono traslate nella cattedrale di Varsavia per l’ufficio funebre, che si svolse nella notte tra il 19 e il 20 gennaio 1935. Fu poi inumato nella cripta della cattedrale.
Al suo funerale presenziarono i rappresentanti di quasi tutti i vescovi polacchi oltre a numerosi fedeli che vollero onorare la sua memoria. Papa Pio XI inviò un telegramma di condoglianze. Malecki non lasciò alcun bene personale, la sua croce pettorale fu inviata al Santo padre, secondo le sue ultime volontà.
Uomini e donne come Malecki sono come dei lumi posti sul nostro cammino per risvegliarci dalla nostra fiacchezza e torpore, e ricordarci l’unità e la bellezza del Vangelo in azione. La vita, la fede e il coraggio di questi uomini e donne è pari a ciò che compirono i discepoli di Cristo nei primi secoli dell’era cristiana. Il martire è un testimone: mette in pratica ciò che ha visto. Ciò che ha visto è la verità del Vangelo, che ha voluto preservare da ogni corruzione umana.
La storia della Chiesa è piena di colpi di scena. Tra il IV e il XVI secolo, salvo rare eccezioni, abbiamo avuto un grande inverno di testimonianze di sangue. Ciò non significa che questo lungo periodo sia stato privo di santi, tutt’altro, ma questi santi hanno reso omaggio a Cristo in una forma diversa dal sangue.
Quello che osserviamo è che dall’epoca moderna in poi, e con un’accelerazione nel XX secolo, stiamo tornando ai fondamenti martiriali della vita della Chiesa; i martiri sono i pilastri, senza i quali non possiamo stare in piedi. Sant’Agostino aveva riassunto questa verità con la formula: martyres non facit poena sed causa (Enarrationes in Psalmos, ps. 34, sermo 2, n.13), il martire non dipende dalla pena ma dalla motivazione della pena (l’odium fidei).
L’odio della fede ritorna periodicamente nella storia, poiché la fede è un tesoro che dà senso alla vita, e la coscienza ne è la porta d’ingresso. In effetti, la coscienza è la grande questione del nostro tempo, perché è un santuario, il santuario della via di Dio iscritto nell’intimo dell’essere umano, ciò che lo aiuta a cercare Colui che è, senza il quale il cuore dell’uomo è inquieto, come diceva il maestro di Ippona. Come tutti i santi, questi martiri avevano una coscienza, che hanno interrogato nelle varie tappe della loro vita. La risposta non era sempre chiara, poteva assumere sfumature diverse che a volte ingeneravano un conflitto interiore, cui era difficile dare una risposta, come sappiamo dai tempi di Antigone. La Chiesa ha quindi il dovere non solo di fare memoria di questi uomini e donne, ma anche di additarli come modelli di fede, speranza e carità per tutte le generazioni e le culture.
(Immagine d’apertura: Monica Volpin, pixabay.com)
Olivier Peyron
Nato nel 1973, sacerdote della diocesi di Valence. Ha studiato storia e scienze politiche e successivamente al seminario francese a Roma. Dottore in scienze ecclesiastiche orientali presso il Pontificio Istituto Orientale, insegna all’Università Cattolica di Lione ed è postulatore della causa dei martiri russi.
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