13 Dicembre 2017
Fratel Alberto il rivoluzionario
Tra un umile fraticello polacco e Lenin, deus ex machina della rivoluzione, chi è il vero rivoluzionario? Il servizio ai fratelli, capace di annullare le barriere sociali contro l’idea bolscevica, intrinsecamente paternalista e borghese.
Adesso tutta questa rabbia deve esplodere.
Specialmente se è grande.
E durerà, perché è giusta
La storia di fratel Alberto (al secolo Adam Chmielowski), detto il san Francesco polacco, è già nota, ben raccontata tra gli altri da padre Antonio Maria Sicari nel suo Quindicesimo libro dei ritratti dei santi[1], ma sullo sfondo del centenario della «rivoluzione sociale» russa la sua umiltà francescana si staglia in tutta la sua vera potenza. Nato nel 1845 a Igołomia, a una ventina di chilometri da Cracovia, come molti giovani polacchi della sua generazione partecipa all’insurrezione del 1863 contro l’impero russo, venendo gravemente ferito; fatto prigioniero dall’esercito nemico, subisce l’amputazione di una gamba (a ricordo della dolorosa operazione porterà una pesante protesi metallica per il resto dei suoi giorni). Riesce ad evitare la condanna a morte solo grazie a un’avventurosa fuga all’estero, e si stabilisce prima a Parigi, poi a Gand e a Monaco, dove frequenta l’Università e le Scuole di Belle Arti, dimostrando una grande predisposizione per la pittura.
Tornato in patria dopo un’amnistia, diviene ben presto pittore di grido e frequentatore dei salotti letterari; e tuttavia, il repentino successo non è sufficiente a tacitare le molte inquietudini che lo agitano. La sua carriera in ascesa mal si concilia con le sofferenze che vede attorno a lui, la sua risposta d’artista non sembra adeguata alla povertà e al disagio di buona parte del suo popolo. Così, dopo un periodo di depressione, decide di entrare nell’ordine terziario dei Francescani con il nome di frate Alberto e inizia a occuparsi dei poveri di Cracovia. Vende molti dei suoi quadri, si dedica alla carità anima e corpo, ma neppure questo sembra bastare a scacciare le sue inquietudini. Decisiva nel riconoscimento della sua vocazione è la visita a uno degli ospizi comunali della città, in cui viene duramente colpito dalle terribili condizioni di vita in cui versano i ricoverati, in particolare dalla loro solitudine ed emarginazione; più ancora, lo sconvolge il loro odio per i «benefattori», i gentiluomini che solo di tanto in tanto si affacciano alla porta per gettare le briciole della loro benevolenza. Tanto grandi sono la miseria e solitudine di quegli emarginati, tanto inconsolabili la disperazione e l’umiliazione della loro umanità ferita, che egli, intuendo in loro il suo stesso vertiginoso bisogno esistenziale, decide di non limitarsi a un aiuto materiale, ma di farsi loro compagno e «fratello», ad immagine dell’Ecce Homo – il Cristo kenotico, Divina Miseria che si umilia fino a toccare il fondo per abbracciare e redimere la miseria umana – che già da artista lo aveva tormentato, ispirandogli un quadro per lungo tempo rimasto incompiuto.
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Giacomo Foni
Ricercatore e traduttore presso la Fondazione Russia Cristiana, vincitore nel 2015 del premio Russia-Italia attraverso i secoli per la traduzione di Lettere ai Nemici del filosofo Nikolaj Berdjaev. Fra i suoi interessi la letteratura e la cultura filosofica russa, la storia della Chiesa, i problemi legati ai rapporti religiosi tra Oriente e Occidente.
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