18 Dicembre 2025
I 123 bielorussi liberati e il prezzo della libertà
La liberazione di 123 detenuti bielorussi – tra cui figure emblematiche come Kolesnikova e il Nobel Bjaljacki – rappresenta una vittoria, ma solleva questioni complesse sul rapporto tra diplomazia umanitaria e compromessi con regimi autoritari. Restano in carcere oltre mille persone, potenziali pedine di futuri scambi diplomatici.
Il 13 dicembre scorso 123 prigionieri politici bielorussi sono stati rilasciati e hanno potuto attraversare il confine che li separava dalla libertà. Tra loro figurano alcuni dei nomi più emblematici della resistenza democratica come Marija Kolesnikova, leader delle proteste del 2020, Viktor Babariko, ex candidato alla presidenza, e Ales’ Bjaljacki, cattolico e premio Nobel per la pace 2022. La loro liberazione è giunta al culmine dei negoziati condotti dall’amministrazione Trump, in cambio della revoca delle sanzioni statunitensi sulle esportazioni di fertilizzanti potassici.
L’accordo con Washington rappresenta l’ultimo capitolo delle manovre di Lukašenko tra diversi centri di potere: il leader bielorusso, infatti, al potere dal 1994, quest’anno ha autorizzato varie liberazioni nel tentativo di migliorare le relazioni con l’Occidente dopo anni di isolamento dovuto al suo sostegno all’invasione russa dell’Ucraina. L’inviato americano Coale ha dichiarato che è «probabile» che ulteriori liberazioni di prigionieri possano avvenire nei prossimi mesi, senza tuttavia fornire dettagli specifici.
A differenza delle precedenti liberazioni, che avevano visto i prigionieri trasferiti in Lituania, questa volta solo 9 dei liberati – tra cui Bjaljacki – sono stati portati nel paese baltico, mentre la maggior parte degli altri 114 – tra cui anche cittadini provenienti dai paesi baltici, da Inghilterra, USA, Australia e Giappone – è stata condotta in Ucraina grazie a un accordo con i bielorussi che non volevano contatti con altri paesi dell’Unione Europea. La maggior parte di loro è stata rilasciata senza documenti, e sia a Babariko che all’avvocato Znak sono stati confiscati i manoscritti di sceneggiature, opere teatrali, quaderni di poesie composti durante la detenzione.

La conferenza stampa a Černihiv. Da sin.: Labkovič, Babariko, Kolesnikova, Feduta. (YouTube)
Il giorno dopo la liberazione, a Černihiv si è svolta una conferenza stampa alla quale hanno partecipato Kolesnikova, Babariko, Feduta e Labkovič. Tutti gli attivisti hanno espresso profonda gratitudine al popolo ucraino per l’accoglienza calorosa ricevuta, sottolineando quanto sia stato straordinario ricevere un simile supporto da un paese in guerra. Kolesnikova, con il suo caratteristico rossetto rosso, simbolo della resistenza del 2020, oltre a Trump e Zelenskij ha voluto ringraziare anche Lukašenko «per aver reso possibile la nostra liberazione», e ha aggiunto che «il trasferimento, da parte bielorussa, è avvenuto in modo estremamente corretto». Un gesto che ha sorpreso alcuni osservatori, eppure è il segno che anche in un sistema totalitario esistono margini di comportamento civile, e che riconoscerli non significa legittimare l’intero sistema.
Quando le è stato chiesto se si sarebbe candidata alla presidenza se avesse saputo di finire in carcere, ha risposto di non avere rimpianti per aver fatto quella scelta difficile, in quanto «ero e rimango assolutamente sicura di aver sostenuto l’idea giusta», un approccio condiviso anche dagli altri attivisti.
Durante la conferenza stampa sono emerse domande sulle condizioni della detenzione, ma nessuno dei quattro ha voluto entrare nei dettagli perché – ha spiegato Kolesnikova – «all’interno del sistema carcerario rimangono molte persone per le quali ci saranno conseguenze positive o negative a seconda di ciò che diremo». Inevitabile in questo senso che il pensiero di Babariko sia andato alle sorti del figlio Eduard, ancora detenuto in una colonia di massima sicurezza a Orša: «Sono molto orgoglioso di lui per il fatto che stia sopportando degnamente questa prova», ha detto, allargando però lo sguardo oltre il proprio dolore personale:
«Sarebbe un grave tradimento da parte nostra se dimenticassimo che oggi ci sono ancora centinaia di persone in carcere». Secondo Vjasna, infatti, in Bielorussia al 16 dicembre 2025 ci sono ancora 1.109 prigionieri politici,
tra cui diversi cattolici come padre Grzegorz Gawel e il giornalista Andrzej Poczobut, quest’ultimo appena insignito del premio Sacharov per i diritti umani.
Dopo il rilascio, il desiderio naturale di ciascuno di loro è quello di riallacciare i contatti con familiari e amici. Dal punto di vista dell’impegno più strettamente «politico», invece, Babariko ha dichiarato che la situazione è cambiata, e lo spiegava con un esempio: «Prima, se eri un musicista di talento, potevi farti conoscere entrando in una grande orchestra. Ora, perché una grande orchestra ricominci di nuovo a suonare, è necessario trovare musicisti di talento». Su questo, avranno tempo di confrontarsi con gli altri attivisti in esilio.

Sul bus che li ha portati in Ucraina. (Choču žit’)
Riguardo al conflitto russo-ucraino, i bielorussi hanno spiegato ripetutamente di aver avuto accesso solo a informazioni unilaterali dalla televisione nazionale e di non poter quindi esprimere giudizi informati. Babariko ha aggiunto che ovviamente «la guerra è sempre negativa e causa di sofferenza, in primo luogo per i paesi coinvolti e per le persone, ma la cosa più terribile è che è una realtà divisiva».
Sul sostegno ai volontari bielorussi che combattono a fianco degli ucraini, Babariko ha risposto dicendo che tutto ciò che viene commesso contro l’umanità è disumano e non può essere sostenuto, e che non si può giustificare la violenza anche se la si commette in nome della giustizia. Da parte sua, Kolesnikova ha affermato di condividere «profondamente il dolore dell’Ucraina, della Russia e di tutti coloro che soffrono per questa situazione».
Bjaljacki da Vilnius ha descritto la sua esperienza con parole che mescolavano fede e stupore, definendo l’accaduto «un miracolo di Dio». L’attivista sessantenne, che ha diretto l’organizzazione Vjasna fino alla sua messa fuori legge nel 2003, era stato condannato a 10 anni di colonia penale nel marzo 2023 per «contrabbando» e «finanziamento di azioni di gruppo che violano gravemente l’ordine pubblico», accuse che esperti delle Nazioni Unite avevano definito persecutorie.
A Vjasna ha raccontato di essersi trovato in una situazione paradossale: «Pur senza agire, continui a fare il tuo lavoro. Dopotutto, il fatto stesso che un difensore dei diritti umani sia in carcere è già un chiaro indicatore della mancanza di diritti e di democrazia nel paese. Quindi, siamo stati una sorta di indicatore del livello di assenza di democrazia. (…) È fondamentale trasmettere questo messaggio alla comunità internazionale:
bisogna porre fine alla repressione in Bielorussia, e il semplice rilascio dei prigionieri politici non è sufficiente, altrimenti questo commercio di detenuti continuerà all’infinito».
Ha dichiarato inoltre che in prigione i cattolici non potevano pregare insieme, né ricevere visite da sacerdoti, mentre al clero ortodosso era permesso far visita ai reclusi almeno una volta alla settimana.
Bjaljacki ha espresso gratitudine anche per le iniziative del Vaticano, riferendosi in particolare alla visita del cardinale Gugerotti a Minsk, che aveva preceduto la liberazione di due sacerdoti cattolici: «Le parole del Vaticano possono cambiare le cose, e sono certo che queste ultime liberazioni devono molto ai recenti colloqui».
Il suo rilascio – ha scritto Vjasna in un comunicato – «ha un significato enorme non solo per la comunità dei difensori dei diritti umani e la società civile, ma anche per tutti coloro che continuano a lottare per i diritti umani in condizioni di repressione.
È la conferma che la solidarietà internazionale, la pressione e la posizione di principio degli Stati democratici possono portare a risultati concreti.
È un’opportunità per riprendere il dialogo interno in Bielorussia». Allo stesso tempo, Vjasna sottolinea che la gioia per la liberazione di Bjaljacki non può oscurare il fatto che più di mille prigionieri politici, «tra cui gli attivisti Marija Rabkova e Valentin Stefanovič, rimangono ancora dietro le sbarre, sottoposti a maltrattamenti, limitazioni dei diritti, pressioni e isolamento».

Bjaljacki davanti al murale che lo ritrae, su un edificio di Vilnius di fronte all’ambasciata bielorussa. (nashaniva)
L’opposizione in esilio, guidata da Svetlana Tichanovskaja, ha espresso sentimenti contrastanti: «La diplomazia umanitaria salva le vite – ha scritto su X, – ma non possiamo dimenticare che un regime illegittimo terrorizza ancora il nostro popolo e sostiene la guerra della Russia. Il nostro obiettivo rimane invariato: libertà per tutti i prigionieri politici e una Bielorussia democratica e indipendente».
Dal punto di vista del regime – ha dichiarato il politologo Aleksandr Morozov, – l’esilio forzato dei prigionieri liberati serve anche a indebolire la loro influenza sulla società e a ridurne la «pericolosità» per il sistema. La vicenda solleva interrogativi, perché negoziare il rilascio di individui in cambio di concessioni a un regime autoritario mina i principi dei rapporti tra democrazie e sistemi totalitari: «Lukašenko non libera le persone grazie alle pressioni, lo fa come parte di un accordo, si tratta di uno scambio, un’interazione reciprocamente vantaggiosa». La preoccupazione è che si crei un meccanismo perverso per cui i cittadini in ostaggio diventano merce di scambio per ottenere concessioni economiche o politiche a livello internazionale, anche se di fronte al destino concreto di esseri umani che soffrono in prigione, passa in primo piano l’imperativo di salvare vite.
(foto d’apertura: spring96.org)
Angelo Bonaguro
È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.
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