Il sacerdote e il poeta

28 Agosto 2024

Il sacerdote e il poeta

Andrzej Draguła

Una riflessione in merito alla Lettera di papa Francesco sul ruolo della letteratura nella formazione del credente. Parola divina e parola umana sono organicamente unite. Aiutano a dare un nome alle cose, oltre la superficie della vita.

Nella sua Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione sacerdotale e cristiana, papa Francesco non si limita a sottolineare il valore «utilitaristico» della letteratura come fonte di conoscenza del mondo e dei suoi problemi, cosa che avviene frequentemente nell’insegnamento dell’omiletica, dove le belle lettere – accanto ad altre fonti – sono trattate come «materiale utile». Certo, ritiene il papa, la letteratura è come il «telescopio» citato da Proust perché focalizza il nostro sguardo «su esseri e cose», permettendoci così di superare la distanza tra l’uomo e l’ampia prospettiva offerta dal mondo.

Grazie alla letteratura, ci ricorda Francesco, facciamo esperienza del mondo e possiamo entrare in dialogo con le altre culture, come mostra l’attività di san Paolo all’Areopago di Atene, dove l’apostolo «raccoglie» le parole sparse nei testi letterari a cui fa riferimento1. Sembra però che le connessioni profonde che nascono dalla «misteriosa e indissolubile unione sacramentale tra Parola divina e parola umana» – come scrive il papa – siano più importanti di questo rapporto «utilitaristico» tra teologia (predicazione) e letteratura.

È l’unità della Parola con la parola che crea un’analogia organica tra letteratura e teologia, tra il poeta (lo scrittore) e il sacerdote. La Lettera di Francesco è un buon punto di partenza per interrogarsi sul valore non solo utilitaristico ma anche teologico della letteratura.

Nelle sue riflessioni sul rapporto tra teologia e letteratura, il papa segue le orme di Karl Rahner, il quale sosteneva che le parole del poeta sono «porte che si aprono sull’infinito, porte che si spalancano sull’immensità. Esse evocano l’ineffabile, tendono verso l’ineffabile». Allo stesso tempo, però, il poeta è soggetto a limitazioni. La parola poetica «si affaccia sull’infinito, ma non può darci questo infinito, né può portare o nascondere in sé colui che è l’Infinito».

Ciò è, infatti, proprio solo della Parola di Dio, ed è per questo che, continua Rahner, «la parola poetica invoca dunque la parola di Dio», in un certo senso si apre ad essa e la esige come complemento. Si può dire, sostiene Francesco, che la parola veramente poetica partecipa analogicamente alla Parola di Dio, e

la letteratura è «ascoltare la Voce attraverso tante voci».

È qui che il papa scorge la fonte dell’analogia tra sacerdote e poeta. «La potenza spirituale della letteratura – scrive il papa – richiama, da ultimo, il compito primario affidato da Dio all’uomo: il compito di “nominare” gli esseri e le cose (cfr. Gn 2,19-20). La missione di custode del creato, assegnata da Dio ad Adamo, passa innanzitutto proprio dalla riconoscenza della realtà propria e del senso che ha l’esistenza degli altri esseri. Il sacerdote è anche investito di questo compito originario di “nominare”, di dare senso, di farsi strumento di comunione tra il creato e la Parola fatta carne e della sua potenza di illuminazione di ogni aspetto della condizione umana».

Il compito del sacerdote e del poeta è quello di «dare il nome» e quindi di rivelare significati. Tuttavia, queste funzioni non sono uguali, ma analoghe, complementari. Infatti, il poeta e il sacerdote utilizzano strumenti diversi nel loro lavoro sulle parole: uno accede all’ispirazione, l’altro alla grazia sacramentale. Ma sono davvero ordini completamente diversi?

Il sacerdote e il poeta

(Angelegea, pixabay)

Vale la pena citare a questo punto l’opinione di Novalis, autore romantico tedesco vissuto alla fine del XVIII secolo, che scrisse: «Poeti e sacerdoti erano in origine una cosa sola, e soltanto epoche successive li hanno disgiunti. Il vero poeta è però rimasto sempre un sacerdote, come il vero sacerdote è sempre rimasto un poeta. E perché il futuro non dovrebbe riportare la vecchia condizione delle cose?»2.
È possibile questa unità?

Elmar Salman, filosofo, teologo e benedettino tedesco, risponde alla domanda nel saggio intitolato Letteratura e teologia3, sostenendo l’autonomia sia dell’ordine della conoscenza che di quello che «dà il nome» al mondo. Infatti, è necessario sottrarsi da un lato all’estetismo, «che pretende che la poesia [ergo la letteratura – ndA] sia la forma più autentica per realizzare la parola divina»; dall’altro, da un «dogmatismo esclusivo (che ritiene la letteratura una forma spuria, soggettivistica di parlare che non avrebbe nulla a che fare con il discorso della verità cristiana e teologica)».

In altre parole, entrambe le forme di egemonia reciproca sarebbero un riduzionismo totalizzante. Così, tutta la letteratura non può essere considerata teologia, né si può negare alla letteratura il suo potenziale teologico.

«Nell’interpretazione della realtà vissuta», come dice Salman, hanno compiti e ordini propri. Ciascuno percepisce ciò che è inaccessibile all’altro.

Salman sostiene quella che lui stesso ha definito una «gara aperta fra teologia e letteratura», perché «il God-talk, il parlare con e di Dio ha bisogno di ambedue i linguaggi. E, forse, l’immagine più adatta per caratterizzare il loro rapporto è la gara aperta, la con-correnza che verte su una delle poche cose che contano: chi sa esprimere meglio il mistero dell’uomo, chi coglie le condizioni dell’esistenza, l’intreccio fra silenzio e parola, dolore e felicità, morte e vita in modo più conveniente: lo Jahwista o Omero, la tragedia greca o la storia biblica, Shakespeare o Bossuet?».

Cosa può darci una simile competizione? Per questa via, aggiunge Salman, ci saranno «tante forme di completamento reciproco: potremmo leggere i testi teologici con gli occhi dei letterati e la letteratura con le lenti del linguaggio biblico-teologico conservando in ambedue un senso di autodistacco e della profondità e ampiezza sconfinate della realtà nonché del linguaggio».

Ryszard Koziołek, studioso di letteratura polacco, aggiunge che «la letteratura è un esercizio di immaginazione teologica per i non teologi. All’interno di tale esercizio, si può infilare il piede della letteratura tra le porte sbattute dalla teologia»4. Potremmo aggiungere: non in modo che le porte della teologia stritolino il piede della letteratura, ma in modo che esse si aprano di più, o almeno che quel piede non permetta loro di chiudersi.

Usando questa metafora del professor Koziołek, bisognerebbe dire che tutta la Lettera di Francesco parla proprio della necessità vitale che la letteratura rappresenta per la teologia, come aveva già scritto san Basilio il Grande – ricordato dal papa – nel suo Discorso ai giovani.

 C’è un altro punto di contatto interessante tra il pensiero di Salman e la teoria della letteratura che Francesco propone nella Lettera. Ebbene, il teologo tedesco definisce la posizione del lettore in relazione al testo biblico come «la comunità [che] scrive se stessa nel libro che legge».

In un passaggio molto intrigante della Lettera, riferendosi ad Antonio Spadaro, il papa scrive similmente: «Si capisce così che il lettore non è il destinatario di un messaggio edificante, ma è una persona che viene attivamente sollecitata ad inoltrarsi su un terreno poco stabile dove i confini tra salvezza e perdizione non sono a priori definiti e separati. L’atto della lettura è, allora, come un atto di “discernimento”, grazie al quale il lettore è implicato in prima persona come “soggetto” di lettura e, nello stesso tempo, come “oggetto” di ciò che legge.

Leggendo un romanzo o un’opera poetica, in realtà il lettore vive l’esperienza di “venire letto” dalle parole che legge.

Così il lettore è simile ad un giocatore sul campo: egli fa il gioco ma nello stesso tempo il gioco si fa attraverso di lui, nel senso che egli è totalmente coinvolto in ciò che agisce».

Il sacerdote e il poeta

(Angelegea, pixabay)

Le riflessioni di Francesco sul testo letterario definiscono molto bene il rapporto tra il racconto biblico e il suo lettore. La letteratura non è solo un modo di «conoscere» qualcosa. «La letteratura ha così a che fare, in un modo o nell’altro, con ciò che ciascuno di noi desidera dalla vita, poiché entra in un rapporto intimo con la nostra esistenza concreta, con le sue tensioni essenziali, con i suoi desideri e i suoi significati. (…) La letteratura ci aiuta a dire la nostra presenza nel mondo, a “digerirla” e assimilarla, cogliendo ciò che va oltre la superficie del vissuto; serve, dunque, a interpretare la vita, discernendone i significati e le tensioni fondamentali».

In relazione alla nostra esistenza, la letteratura svolge un ruolo di confronto, verifica e interpretazione. Lo stesso vale per il testo biblico, che invita il lettore a scrivere la sua biografia personale nella Storia della salvezza, la sua storia individuale nella grande Storia, la sua voce individuale nella Voce.

Trasferendo queste considerazioni nell’ambito della didattica omiletica, va detto che uno degli esercizi fondamentali del futuro predicatore dovrebbe essere la lettura delle belle lettere – romanzi, teatro o poesia – per imparare a entrare nel mondo del testo, nelle relazioni dei suoi personaggi, nel metodo poetico di «dare un nome» alla realtà, un metodo che permetta non solo di vedere l’invisibile – come suggerisce Paul Celan, citato da Francesco – ma anche di esprimere il non detto, come nel caso di Jon Fosse5. Apprendendo questa capacità non si deve sopravvalutare la letteratura, ma senza questa capacità è impossibile entrare correttamente nel testo della Bibbia, che in fondo è prima di tutto letteratura.


(fonte:Więź; immagine d’apertura: Angelegea, pixabay)

Andrzej Draguła

Nato nel 1966, sacerdote, professore di Teologia pratica all’Università di Stettino, membro del Comitato di Scienze Teologiche dell\’Accademia Polacca delle Scienze. Pubblicista, collabora con le riviste «Więź» e «Tygodnik Powszechny». Ha al suo attivo numerose pubblicazioni.

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