18 Luglio 2024
La pace (im)possibile
Nell’attuale contesto di guerra il tema del perdono, nella sua apparente impossibilità, è cruciale e da non confondere con un inaccettabile relativismo né col sentimentalismo. Durante il festival “Bergamo Incontra” due testimoni dalle storie personali diverse (un sacerdote ortodosso e un medico italiano) hanno testimoniato che il lavoro per la pace non è solo «qualcosa che si deve fare, ma un modo di stare nella vita». Pubblichiamo il testo dell’incontro il cui video si trova sul canale YouTube di Bergamo Incontra.
Adriano Dell’Asta: L’incontro di questa sera ha un titolo che può sembrare provocatorio: «La pace (im)possibile», dove questo «im» messo tra parentesi significa che in certi momenti la pace, e ancor più il perdono, sembrano davvero impossibili. Ma quella della pace e della capacità di perdonare è una sfida che innanzitutto tocca noi. Ogni momento dobbiamo chiederci se è possibile (e la fede dice che lo è), e quali sono le condizioni perché lo sia. Solo così fede e ragione collaborano per superare un apparente vicolo cieco.
I testimoni di questa sera sono Alberto Reggiori, un medico italiano che dal 1985 al 1996 ha lavorato in Uganda, e che continua anche oggi a portare il proprio contributo alla pace in una delle missioni della nostra marina militare. E padre Aleksej Uminskij da diversi decenni uno dei sacerdoti più in vista della Chiesa ortodossa russa; è stato lui, ad esempio, a celebrare i funerali di Michail Gorbačëv. Recentemente padre Aleksej è stato sospeso a divinis e ridotto allo stato laicale, perché non pregava per la vittoria ma per la pace. Appunto, una pace che si paga con la propria responsabilità. Padre Aleksej per la grazia di Dio e la magnanimità della Chiesa indossa ancora le vesti sacerdotali, perché è stato riaccolto nel suo stato sacerdotale dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Li ringrazio per la loro presenza.
Comincio con una domanda a padre Aleksej: quando ha scelto di non recitare la preghiera per la vittoria, ma quella per la pace, perché lo ha fatto? Era un modo di schierarsi contro il governo, contro la guerra? O c’era qualche altra considerazione in gioco?
Padre Uminskij: Non ho neanche dovuto troppo riflettere sulla preghiera per la vittoria, perché il testo era scritto in modo tale da stravolgere il senso di quello che noi celebravamo in chiesa. Era pieno di falsità. In particolare, parlare nella preghiera della vittoria della Santa Rus’ apriva un tema di cui non si capiva neanche il senso. Inoltre, la preghiera parlava delle minacce di presunte forze malvagie che dall’esterno avevano attaccato la Russia e la volevano distruggere. Chiaro che il riferimento era all’Europa occidentale, il cosiddetto «Occidente collettivo». E quindi la preghiera invocava l’aiuto di Dio perché desse la vittoria alla Russia contro queste forze definite demoniache, mentre la realtà diceva esattamente il contrario, cioè che era stata la Russia ad aver attaccato un altro paese. Quindi io come sacerdote non potevo recitare una preghiera che contraddiceva il buon senso e la verità. Per come la capisco io, in qualsiasi conflitto la Chiesa deve sempre guardare alla pace. E quindi ogni domenica, con i miei parrocchiani, ho cominciato a recitare dopo la liturgia un moleben, cioè un ufficio di suffragio per la pace.
AdA: Chiedo ora ad Alberto Reggiori: quando si aiutano le persone di una parte, come si fa a non schierarsi contro qualcuno? È possibile anche in questa situazione mantenere la pace?
Reggiori: Quando il 7 ottobre si è scatenato quello che ben sappiamo, un peso tragico mi è sceso sul cuore, e la nostra natura in qualche modo fa sì che non possiamo essere felici se qualcuno vicino a noi non lo è. E avendo io già vissuto come medico situazioni critiche a livello umanitario, mi chiedevo se potessi fare qualcosa. Poi ho appreso di questa missione organizzata dalla Marina militare italiana tramite la nave-ospedale «Vulcano» che partiva per soccorrere le vittime della guerra della striscia di Gaza, e ho pensato di dare la mia disponibilità. All’inizio non è stato immediato, ma quello che mi ha spinto a scegliere per questo tipo di azione è stato il fatto che nel cuore c’è qualcosa di insopprimibile, il desiderio che la nostra vita abbia un’utilità per noi e per il mondo, che abbia un senso.
Io sono un chirurgo, e sapevo benissimo che sulla nave avremmo trattato i pazienti palestinesi, perché i soldati israeliani non vengono a farsi curare sulle navi italiane. Quando sono salito a bordo, l’impatto con la gente è stato devastante. Erano solamente donne e bambini, agli uomini non era concesso uscire da Gaza. L’incontro con un dolore così acuto nell’immediato mi ha quasi tolto la speranza. Ovviamente io tento di guardare le cose con gli occhi della fede (anche se la mia è un po’ zoppicante), e questa mi ha sempre insegnato che anche un dolore ha un senso, che tutto viene salvato, che alla fine della storia c’è la resurrezione. Eppure, questo sguardo non era così facile da applicare, doveva veramente farsi carne. Quello che ho voluto fare nei primi giorni, oltre al lavoro medico, è stato parlare molto con le persone tramite gli interpreti, guardare negli occhi il dolore, tentare di immedesimarmi. Anche se immedesimarsi in qualcuno che ha perso la mamma, i figli, la gamba, la casa, che ha ferite devastanti, che rimarrà invalido per il resto dei suoi giorni, è veramente difficile. Capivo però che mi era chiesto.
Aldilà di questo, ho vissuto la questione dello schierarsi in questi termini: il personale militare con cui collaboravo era composto da persone che propendevano per una delle due parti, come è normale, come accade anche nei nostri ambienti di lavoro. E i primi tempi dopo lo scoppio del conflitto anche io cercavo di capire da che parte stare. Ma poi lo schieramento ideologico, e direi quasi la tifoseria da bar in cui spesso si scadeva, mi stavano stretti. Così, quando mi chiedevano, «ma tu da che parte stai?», io rispondevo che stavo dalla parte di chi soffre, di chi ha bisogno di una vicinanza umana e, nel mio caso, di un aiuto professionale. Poi ovviamente c’è un giudizio storico e geopolitico che ha un suo senso, ma io avrei curato assolutamente nella stessa maniera chiunque fosse capitato su quella nave.
L’incontro fra persone può rimanere qualcosa di teorico, ma a un certo punto ti imbatti con la realtà, e io mi sono imbattuto in gente concreta con storie terribili, persone che salivano sulla nave accompagnate da ambulanze egiziane, magari pagando 5000 dollari alla mafia. E davanti a loro ho capito che l’incontro si gioca nell’istante.
È proprio l’istante che decide come ci si dona, come si accoglie l’altro, come si sta dalla sua parte, e non dalla parte del suo partito, del suo Capo di Stato.
AdA: Io credo che cercare di «superare il livello del tifo da bar» sia una cosa che dobbiamo richiamarci a fare continuamente. Padre Aleksej, Alberto ci parlava di persone, però come è possibile non sentire nemici quelli che hanno commesso un’evidente ingiustizia? Come distinguere la Chiesa come corpo di Cristo e l’istituzione che si carica di colpe così gravi?
Padre Uminskij: Penso che sia la questione più difficile che una persona deve affrontare quando avvengono divisioni così gravi. Questa domanda è rivolta non solo a me, ma anche al gran numero di persone che dopo che io sono passato a un’altra Chiesa ha preso a odiarmi, a darmi del traditore della patria; si vede che quello che le tiene insieme è la difesa accanita dei fondamenti del patriottismo. Purtroppo, la nostra Chiesa, che da qualche decennio ormai gode di libertà dopo la caduta del sistema sovietico, non ha saputo usare questa libertà per rievangelizzare il popolo di Dio. Viceversa, ha cominciato subito a cercare ogni via per avvicinarsi allo Stato. E quindi più che predicare Cristo, ha cominciato a predicare l’ideologia statale, la religione civile. Lo Stato ormai non combatte più la Chiesa, anzi la sostiene in tutti i modi, e c’è un immenso numero di cristiani che non vede alcun problema nell’amicizia fra lo Stato e la Chiesa, e che quindi appoggia la guerra tranquillamente.
Di conseguenza, chiunque parli contro questa guerra diventa automaticamente nemico sia dello Stato, sia della Chiesa.
Per questo nella Chiesa oggi è in atto un processo di divisione davvero tragico. E non solo nelle parrocchie, ma anche nelle famiglie, nelle singole persone. E quindi uno che è contro la guerra fa fatica a trovare supporto e consolazione anche all’interno della Chiesa, perché oggi nella Chiesa è assente la carità. E la predicazione nella maggior parte dei casi non è più una predicazione evangelica, ma a sostegno dello Stato. Forse anche nella storia italiana ci sono stati episodi del genere. Per queste ragioni, partecipare all’eucarestia è diventato un grandissimo problema, perché i fratelli e le sorelle non sono più fratelli e sorelle.
Quando si è saputo in giro che io pregavo per la pace e non per la vittoria, parrocchiani di altre parrocchie hanno cominciato a riempire la mia chiesa. Quando però ho cominciato a confessarli, ho capito che era gente straziata interiormente. Dicevano che non riuscivano a pregare per quelli che erano a favore della guerra, che non trovavano dentro di sé la forza spirituale per superare questa inimicizia. Quindi la Chiesa oggi vive una situazione tragica, perché incominciano ad andarsene le persone che vorrebbero vivere secondo il Vangelo, e rimangono quelli che invece non cercano Cristo ma approvano la propaganda. Cosa ne sarà di questa Chiesa? Questo è il problema più grosso a cui non saprei trovare una soluzione. Mi fanno sempre la stessa identica domanda: si può pregare per il nostro governo, si può pregare per il patriarca Kirill che ha scritto quelle cose? Io rispondo: dovete farlo! E ricordo che il metropolita di Mosca Filipp, ucciso da Ivan il Terribile, pregava per lui, ma in faccia lo accusava di quello che faceva. E questo è anche il nostro diritto di cristiani: dire la verità. Il nostro patriarca è il capo legittimo della nostra Chiesa, e quindi noi dobbiamo rispettare in lui l’autorità, questo non vieta che però gli diciamo dove sbaglia. E lo stesso per il nostro governo: il governo, come dice san Paolo, è permesso da Dio e quindi va rispettato, ma senza smettere di dire la verità. E questa è una cosa molto difficile da comprendere, da portarsi dietro nella vita. Bisogna ricordare che oggi in Russia ci sono più di 500 detenuti politici condannati a lunghe pene soltanto perché hanno detto di essere contro la guerra. Semplicemente per essere usciti in strada con un foglio di carta dove era scritto «no alla guerra» gli danno 7 anni di prigione.
Per quanto riguarda me personalmente, Dio mi ha dato una consolazione, io non provo nessun sentimento di offesa, di rancore per le persone che mi hanno cacciato dalla mia Chiesa, prego molto per loro, non è un merito, ma così è successo. Sono convinto che la pace inizi da questo:
quando incominciamo a pregare per le persone che ci hanno fatto del male, che ci hanno cacciato, che ci vogliono umiliare, quando cominciamo a pregare così quello che loro ci vorrebbero fare non funziona più, non riesce.
AdA: Alberto, tu prima parlavi del desiderio di essere utili che nasce dallo stare di fronte alla realtà, ma come si fa a non restare spiazzati di fronte al fatto che nonostante tutto il desiderio, e gli strumenti che uno può avere, poi la propria azione si scontro con la sconfitta? In un’altra occasione avevi detto: «salvi una vita, ma ne perdi tante altre», allora perché il dolore?
Reggiori: Per rimanere all’esperienza della nave-ospedale, direi che certamente nei tre mesi in cui la nave è rimasta attraccata alle coste egiziane, pur avendo curato 200-250 persone, non si è occupata di altre centinaia di migliaia di feriti; quindi, il suo operato può sembrare la classica goccia nel mare. Talvolta prevaleva il senso di impotenza, la preoccupazione di fare una cosa che non fosse adeguata alla realtà. Io allora pensavo che prima di tutto dovevo accettare di non essere onnipotente, e di essere imperfetto, perché l’essere umano è così. Allo stesso tempo, come uomini, dobbiamo prendere coscienza che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio, e che quindi abbiamo nel cuore una scintilla, un punto infinito mai comprimibile che ci definisce, e che è la nostra umanità. Abbiamo a che fare con queste due situazioni che sembrano quasi opposte: il limite e il fatto che abbiamo qualcosa di infinito nel cuore. Io quando inizio un intervento chirurgico, anche il più banale, dico sempre una preghiera. Lo scopo non è cercare il miracolo, ma ridimensionarmi, mettermi nella posizione di essere creatura. E questo fa affrontare anche le cose che sembrano insufficienti. Dall’altra parte occorre ricordare che ogni azione che facciamo, anche dare un bicchiere d’acqua, come ci è stato detto, ha un valore eterno.
Dal punto di vista medico, questa cosa mi ricorda il momento in cui in Uganda per la prima volta (erano gli anni ’85, ’86 e io ero un giovane medico), è arrivato l’AIDS, e ovviamente non era curabile. Quando in ospedale arrivavano delle persone coi sintomi (tra cui giovani o neonati), sapevamo già che sarebbero morte. E lì ho capito che, come medico, il risultato dell’azione non era necessariamente quello di guarire, ma anche semplicemente quello di prendersi cura. Di fare gli ultimi passi della vita insieme a questi pazienti. Quindi, non con la presunzione di dire ho in mano il tuo destino e lo modifico grazie alle mie capacità, ma ti accompagno, mi prendo cura di te.
Sul dolore direi che è evidente che si tratta di qualcosa che non ci toglieremo mai di torno, perché ci accompagna. Io l’ho incontrato nella mia professione medica, ma ho capito realmente cosa vuol dire quando una quindicina di anni fa il mio terzo figlio ha avuto un incidente gravissimo, è rimasto in coma, e non sapevamo se ce l’avrebbe fatta. Quel dolore vissuto mi ha fatto capire qualcosa di importante: a volte riteniamo inutile il dolore, ma in realtà è inutile solo per chi non l’ha mai provato, solo per chi ne parla teoricamente. Quando il dolore entra nella nostra vita, se noi lo accettiamo, facciamo sempre l’esperienza di essere accompagnati da Dio, è qualcosa di inoppugnabile. E io l’ho provato in maniera non preventivabile, e come me molti altri.
La questione del dolore poi ha sempre implicazioni personali. Rispetto alla tragedia di Gaza qualcuno si è chiesto «ma dov’è Dio?», una domanda che era già emersa dopo l’Olocausto, e la risposta di Benedetto XVI in un famoso discorso ad Auschwitz, così come quella del cardinale Pizzaballa, dicono che la risposta non è Dio. La colpa, infatti, non è di Dio, Dio è lì nel nostro cuore, nella nostra libertà, nel nostro decidere di fare il bene, di pregare, di non odiare. La domanda vera è «dov’è l’uomo?». Credo che nel tema del dolore ci sia quindi una questione di grande responsabilità personale rispetto al dolore. E poi dobbiamo sempre ricordarci che qualcuno alla fine questo dolore l’ha accettato e l’ha abbracciato, gli ha dato un senso, e questo non possiamo dimenticarlo.
AdA: Lei, padre, prima ci diceva che dobbiamo imparare a superare l’inganno che mette un’idea di Dio e di Cristo al posto di Dio e di Cristo. E questa idea divide. E poi indicava una via per superare la divisione che è ritornare a conoscere la storia della Chiesa, per vedere che questa divisione è già successa ma è possibile superarla. Allora come facciamo a fare memoria di questa storia, come non farla diventare un ricordo intimistico? Come sperare oggi?
Padre Uminskij: Mi viene in mente un pensiero di Charles Péguy che ha riflettuto molto sulla speranza, la chiamava «bambina». Diceva che amare è facile, credere è necessario, ma sperare è difficile. La nostra speranza scappa spesso nel futuro, mentre deve essere qui, adesso. Perché noi crediamo oggi, e amiamo oggi, e quindi dobbiamo anche sperare oggi. Questa speranza può risiedere nella nostra solidarietà. Quando Cristo parla ai discepoli della fine del mondo, parla di una sciagura che colpirà il mondo, e parla anche di guerre. Ed è interessante perché ogni epoca ha i tratti dei tempi ultimi, del tempo della fine. E questo vale anche per noi oggi, noi viviamo nell’epoca in cui Cristo viene, non dobbiamo pensare che Cristo verrà un domani. Ci sono punti del Vangelo in cui Cristo dice: «molti sono chiamati, ma pochi gli eletti». Tutto il mondo è stato toccato dall’appello di Cristo, pochi sono quelli che lo hanno ascoltato, ma è grazie a questi che le sofferenze avranno termine e che la pace arriverà. E la sensazione è che nel mondo, in Russia, siano poche le persone che vogliono veramente la pace e fanno qualcosa per questo. Ma sono persone solidali fra loro. Questa solidarietà che si manifesta nella preghiera comune, nel tentativo di fare qualcosa perché il male finisca, è la nostra speranza. E quindi finché restiamo con Cristo questa speranza ci sarà sempre, perché Cristo viene continuamente nel mondo per amore di chi lo ascolta. Questo non vuol dire che esclude tutti quelli che non lo ascoltano, perché anche su di loro ha una speranza. Cristo spera in noi, che lo ascoltiamo perché noi con la nostra preghiera e il nostro lavoro cerchiamo di trattenere tutti quanti, quelli che ci odiano, quelli che remano contro di noi, quelli che non hanno nessuna speranza, quelli che inseguono altre idee. Le guerre prima o poi finiscono, ma quello che rimane dopo la guerra è l’odio. E noi cristiani possiamo fare qualcosa contro l’odio, e in questo penso c’è speranza.
AdA: Faccio la stessa domanda ad Alberto, che cosa può fare ciascuno di noi per dire che è possibile la speranza a fronte di un male incurabile, un dolore innocente o che non trova riscatto? Cosa può fare il singolo?
Reggiori: Apparentemente l’azione del singolo nel mondo sembra qualcosa di poco efficace. Io stesso a volte penso che se fossi nei panni dei politici sicuramente non direi «armiamoci» ma tenterei la via del dialogo. Ci rimane a volte un senso di impotenza, perché in fondo decidono gli altri. Ma non dobbiamo pensare che qualsiasi cosa sia inutile, altrimenti si cade nel cinismo. Non so esattamente cosa possiamo fare, ma credo che una possibilità che abbiamo è costruire dei luoghi di pace, e il fatto stesso che siamo qui e che ci siano persone che testimoniano una possibilità diversa può essere un inizio. La necessità che la mia vita sia utile è un pungolo che abbiamo nel cuore spesso soffocato dalle cose da fare, dall’inerzia, o dall’egoismo, ma questo pungolo rimane e ci richiama.
Qualcuno mi chiedeva se sulla nave mi sentivo un eroe: no; credo che l’unica cosa sia dire di sì, questo rende chiunque un vero uomo, una vera donna, e colloca nella posizione giusta. Dire sì non è frutto di una capacità, ma va imparato. Le decisioni che mi è capitato di prendere prima di una partenza non sono mai state prese a tavolino, ma erano frutto di un’adesione alla realtà che mi attraeva per il fatto che ci intravedevo un compimento per la vita. E uno vive e soffre per quello. E questo si può imparare dalla comunità cristiana, dalla moglie, dagli amici.
Quindi, dov’è la speranza? Nel fatto che uno aderisca a quanto di bene intravede, e umilmente lo segua. E questo fa la differenza.
Se guardiamo alla storia ci sono state persone (penso a san Francesco, a Giovanni Paolo II, a Nelson Mandela solo per citare alcuni), che con la loro decisione personale, frutto di un bene che hanno intravisto e che hanno voluto perseguire, hanno cambiato la storia.
AdA: Grazie, mi colpisce che nelle vostre testimonianze siano emersi temi come la giustizia, la verità, l’uomo come portatore di un valore che mai può essere ridotto. È risuonato in maniera evidente anche il tema della coscienza del limite che dobbiamo avere, ma che non è una limitazione, bensì è un riconoscere che abbiamo bisogno di aiuto, che abbiamo bisogno di perdono; se capisco questo, capisco che posso dare a mia volta il perdono.
Un’ultima cosa mi colpisce: padre Aleksej diceva che la domanda sulla speranza è quella più difficile, poi rispondendo ha citato un autore occidentale, e poi ha parlato di solidarietà, cioè di un lavoro insieme che potrà superare il male attraverso, – e questa è una cosa che ripeteva spesso padre Romano Scalfi – non un santo, ma una comunità di santi che sapranno superare l’odio e costruire luoghi di pace.
Entrambi avete parlato del fascino di una vita, di una consolazione offerta per sé e per gli altri, della consolazione come uno stile di vita. Noi non abbiamo programmi, possiamo provare a farli conoscendo i nostri limiti, ma abbiamo qualcosa di più: uno stile di vita che mendica il perdono e si regge sulla solidarietà. Finisco citando un personaggio della storia della Chiesa russa del secolo scorso, il metropolita Antonij di Surož: a chi chiedeva «che cosa dobbiamo fare?», rispondeva che non dobbiamo limitarci a stare ai piedi della croce, ma dobbiamo salire sulla croce con Cristo. Ciascuno sceglierà poi il modo.
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