19 Settembre 2022
Voci dall’Ucraina. Pronti a ricostruire
Ci aveva detto che chi odia, perderà questa guerra. A distanza di sei mesi la voce di Kristina, giovane artista fuggita e poi rientrata in Ucraina, ci testimonia la fatica quotidiana di combattere l’odio.
Sono passati circa 6 mesi da quando sei fuggita dall’Ucraina, ci puoi raccontare che cosa hai fatto in questo tempo e dove sei stata?
Ho vissuto in Italia 4 mesi, e quando la situazione a Kiev si è più o meno stabilizzata, sono tornata a casa e ci sono rimasta quasi tutta l’estate. Lì ho continuato a lavorare, mi occupo di fotografia e teatro, e faccio dei training per una scuola online. Sostanzialmente sono tornata alle mie attività di prima, solo in un formato diverso che doveva adattarsi alla situazione di guerra, in particolare alle regole per la sicurezza, che sono molto rigide.
Perché hai deciso di tornare?
Quando ero qui in Italia ero molto più angosciata di quando poi sono tornata in Ucraina. Cioè quando leggi solo le notizie, ti sembra che sia reale solo l’incubo. Quando invece sono tornata a casa, mi sono detta: «Sì, è spaventoso, ma non così tanto». Certo, la vita in Ucraina ora è diversa, bisogna adattarsi al fatto che ci sono gli allarmi aerei, che devi correre nei bunker, che c’è il coprifuoco, che ci sono dei luoghi più pericolosi di altri. È chiaro che sei sempre sotto pressione. Ma ti rapporti a tutte queste cose in modo un po’ più sereno, perché sei a casa tua.
Ovviamente se hai dei bambini è diverso, la loro sicurezza diventa la priorità. Ma anche lì, conosco famiglie che sono rimaste a Kiev la cui casa è ancora in piedi, e altre che sono partite e hanno perso la casa sotto le bombe. Perché è successo così? Lo sa solo Dio, non puoi sapere dove cadono i missili. Se percepisci che da qualche parte non sei al sicuro, meglio andarsene e non tornare, però è una questione molto personale. Alcuni scappano, e sperano di tornare, altri se ne vanno con un piano e concentrano tutte le energie per costruirsi un futuro da un’altra parte. C’è chi ha già trovato un lavoro, ha iscritto i figli a scuola, sta frequentando l’università, e chi, magari è da solo, e non trova il senso per iniziare a vivere in un altro paese. Io sento il richiamo della casa. Quando sono tornata in Ucraina, sono scesa dal treno a Leopoli, ho comprato un tè, molto caro perché erano saliti i prezzi, sono rimasta per un po’ su una panchina a berlo, vicino a un barbone, guardavo il sole, e mi sono detta: sono a casa.
Che cosa hai visto quando sei tornata? Tra la gente c’è speranza nella pace, nel futuro?
Non è una speranza, è una certezza: la certezza che vinceremo. Per noi ora non è solo una guerra per il territorio, per la nostra casa, per la nostra terra. È una guerra per la libertà di essere noi stessi. Questa battaglia dura da molto tempo: direi, da quando l’Ucraina era parte dell’Unione Sovietica e dell’Impero russo. Cioè, siamo sempre stati all’interno di qualcosa di più grosso di noi che ci schiacciava. Ed è proprio per questo che stiamo lottando adesso: per il diritto di essere noi stessi e vivere come vogliamo. E in questo senso la gente è sicura di non poter perdere.
Certamente, in Ucraina ho visto anche molto dolore, la guerra è sempre più vicina a tutti, perché tutti abbiamo fatto l’esperienza di aver seppellito qualcuno. E tutti viviamo immersi nelle notizie che parlano continuamente di nuovi paesi distrutti, di sparatorie, di gente che muore. Quando vedi le immagini di certi edifici sventrati, hai come l’impressione che sia passato un tornado senza senso, di cui tu vedi solo i danni.
Però adesso ci sono molte organizzazioni di volontari che raccolgono aiuti economici e che fanno sopralluoghi nelle zone distrutte per capire che cosa si può fare. La gente si è molto unita a dispetto della lingua e delle peculiarità regionali. La cultura del volontariato sta fiorendo e questo è un aspetto importantissimo. L’autunno e l’inverno saranno duri, ci chiediamo cosa faremo col riscaldamento e l’elettricità. Sarà difficile, ma supereremo anche i mesi freddi. C’è grande fiducia nelle persone, più che una speranza è una certezza.
La gente ha la sensazione che durerà a lungo?
Tutti adesso hanno capito che la guerra non finirà domani, e neanche dopodomani. È molto difficile fare pronostici sul futuro, al massimo si fanno piani per un mese, non di più, perché nessuno sa quale allarme aereo sarà l’ultimo. Forse la vera questione non è nemmeno la durata, ma il fatto che anche quando vinceremo, il nostro vicino non scomparirà. Ci sono tante persone convinte di fare un’opera buona, e che vivono nel paradigma dei liberatori. Capiamo che dobbiamo andare avanti tenendo presente che avremo sempre questo vicino di casa, e cercando di capire cosa fare affinché questo vicino non ci ripensi e non attacchi di nuovo.
Prima della guerra mi sono sempre sentita al sicuro, in qualsiasi momento potevo spostarmi da Kiev, partire, andare in Europa da amici, mentre adesso vivrò sempre sapendo che ci troviamo in una situazione di pericolo, e che in qualsiasi momento può volarmi addosso qualcosa. Personalmente mi sembra che la nostra condizione stia diventando simile a quella d’Israele, cioè di uno stato che non smette di trovarsi in un’atmosfera di guerra.
A marzo ci hai detto: «Se odio, perdo la guerra», a distanza di sei mesi sei riuscita a non odiare?
Diciamo che ogni tanto questo sentimento mi tenta, però l’importante non è quello che mi tenta, ma cosa scelgo di farci. Quando ti scontri col dolore, con la morte dei tuoi vicini, dei tuoi cari, a un certo punto la tentazione dell’odio ti invade. E allora incomincia la battaglia. È molto semplice abbandonarsi all’odio oggi, basta uno schiocco di dita per cominciare a odiare chi parla russo o chi ha un passaporto russo, per non parlare di chi sta in casa tua con le armi. Ma il nostro campo di battaglia è dire: «no, non voglio andare lì dove sta l’odio», perché l’odio genera soltanto odio. Perché tutto quello di cui viviamo sono semi: se semino odio, crescerà odio, se semino amore, crescerà amore. Per adesso è un processo difficile, un processo ancora in corso, però per il momento tengo duro. Mi tengo stretta a Dio e cerco di guardare al suo amore.
E poi credo sia una questione di scelta. Mi ricordo che a un certo punto mi sono detta che non avrei permesso al mio cuore di chiudersi o di pensare che il male è normale. L’Ucraina non è un paese ideale dove tutti sono buoni, onesti, acculturati. C’è tanta gente che odia e desidera la morte per tutti i russi. E io penso che la mia minuscola guerra personale sia proprio questa: non abituarsi alla brutalità, ma dire no, non siamo un paese che odia, siamo un paese che ama e che perdona, che ha la capacità di convertire il male in bellezza.
Se incominciamo a odiare, diventiamo come i nazisti che ci accusano di essere. Dire che «tutti i russi sono cattivi» è come dire che «tutti gli ebrei sono cattivi» o che «tutti i tedeschi sono cattivi». E a quel punto avremo perso la guerra.
Non appena diremo che chi ha un certo passaporto è cattivo, subito perderemo la guerra perché veramente arriveranno ad ammazzare dei nazisti. Lo saremo davvero. La guerra, per quel che mi riguarda, c’entra con questo adesso.
Negli ultimi mesi ho letto molto sul nazismo, e mi è capitato di andare in Germania in tournée con la mia compagnia teatrale. Lì ho avuto modo di parlare con alcuni tedeschi che hanno affrontato il periodo post-bellico, e si sono trovati a dover espiare la colpa del loro paese. E dialogando con queste persone ho capito una cosa: quando accade il male, tu non lo vuoi vedere, vuoi girarti dall’altra parte. Ti giustifichi dicendo: cosa posso fare io che sono una persona piccola? Ho la mia piccola vita, la mia famiglia da nutrire, il mio lavoro. Chi sono io per raccontare agli altri come dovrebbe essere uno stato?
Ed è lì che comincia la fine, è quello il punto che permette l’esistenza dei campi di concentramento, cioè tu che tradisci la tua coscienza e non hai nessuna giustificazione. Se uccidi una persona, la guerra non è una giustificazione; se sono un uomo, devo agire con la mia coscienza di uomo e non ci sono giustificazioni al male. Il problema è che ora la guerra ti permette di essere cattivo e tu senti di essere giustificato a fare delle cose che normalmente non faresti. Ti dici: «C’è la guerra, mi tolgono la casa, uccidono i miei figli, quindi ne ho il diritto». E qui non sto parlando dei soldati al fronte, ma dei civili. Quando da civile cominci a giustificare il male, è un’altra cosa, non è accettabile.
Qual è la tua relazione coi russi oggi? E con la cultura russa?
Mi sono fatta tanto questa domanda perché sono sempre stata legata alla cultura russa. E la mia risposta per adesso è arrivata a questo punto: se io amavo Čechov sinceramente, non posso sinceramente smettere di amarlo. E dire a me stessa che non lo leggerò più perché è russo vuol dire che non lo amavo sinceramente. Il paradosso è che noi per tutto questo tempo abbiamo creduto di lavorare con la cultura russa, di farla crescere in Ucraina. In realtà per me la cultura è frutto di un incontro con altre culture e di una reinterpretazione: cioè siamo noi ucraini che leggiamo la cultura russa, che le abbiamo fatto spazio nel nostro paese.
Quando leggo Dostoevskij sono io, ucraina, che leggo Dostoevskij, e sono io ucraina che traggo da lui i significati e i temi che a me come ucraina interessano, e che sono legati al mio spazio e al mio codice. Capisco che la gente possa aver avuto una reazione di rifiuto nei confronti della cultura russa, perché stava male e voleva eliminare qualcosa di doloroso.
Sono molto contraria all’idea di considerare tutto ciò che è russo come male. Quando diciamo che tutti i russi sono cattivi è come se dicessimo che nessuno è cattivo. Non credo nella responsabilità collettiva, ma credo nella responsabilità di ciascun individuo rispetto alle proprie azioni. Possiamo portare in tribunale le persone che hanno compiuto certe cose, ma non possiamo mettere in prigione una nazione. Lo stesso succede con la cultura.
D’altro canto, capisco anche che certe limitazioni hanno un senso, perlopiù quelle legate ad aspetti economici, perché se utilizzo certi contenuti russi è come se stessi sponsorizzando la guerra. Ma sono contraria al fatto di eliminare tutti gli autori russi. Diciamocelo, è impossibile diventare attori senza Stanislavskij e la sua metodologia. Non si può eliminare la tabella di Mendeleev come non si può negare la legge di Newton oppure le scoperte di Einstein, non funziona così in questo mondo. Ci sono cose che esistono oltre la politica degli uomini. Questo non vuol dire che io sia contraria alle misure che impediscono l’ingresso in Europa a musicisti o artisti che sostengono la guerra.
Un’altra cosa importante è che per esempio la gente dice: vietiamo la cultura russa così finalmente daremo impulso a quella ucraina. Non funziona così. Perché se crei un ottimo prodotto ucraino, il suo successo non dipende dalla quantità di prodotti russi presenti sul mercato. E questo ad esempio l’ha mostrato il centro culturale ucraino Dakh quando ha creato il progetto Dakha Brakha, ossia un gruppo musicale che fa tour in tutto il mondo, e che è più richiesto in America e in Europa piuttosto che in Ucraina.
Il punto è produrre qualcosa di bello e interessante, e non vietare il resto.
Le cose non funzionano come il deficit in URSS: non abbiamo nient’altro e allora siamo costretti a produrre noi il cappotto e l’unico cappotto possibile. Vorrei che ci fossero tanti cappotti diversi, ma che quello ucraino sia talmente bello che la gente scelga di prendere quello.
Rispetto alla lingua, io continuo a parlare russo, ma adesso ci sono tante persone passate alla lingua ucraina. Se loro vogliono parlare in ucraino con me nessun problema, passo all’ucraino. Ma io voglio lasciarmi la possibilità di scegliere la lingua che voglio e di essere chi voglio: non è importante in che lingua parlo, ma quello che dico. Se diciamo che l’Ucraina è il paese della libertà, questa libertà deve esserci. Perché sennò viviamo in un mondo ipocrita, dove diciamo una cosa però ne viviamo un’altra. E, grazie al cielo, io a Kiev non mi sono scontrata con nessun tipo di conflitto che riguardasse la lingua.
Molti dicono che ora non è possibile costruire ponti con la Russia, almeno finché i bombardamenti sono in corso. È almeno possibile costruire ponti tra le persone? Magari con i russi che condannano la guerra, rischiando per farlo.
Dipende dalle due parti. Io personalmente non ho niente in contrario a costruire ponti con quei russi che si dimostrano contrari alla guerra. Vedo che tante personalità russe, ad esempio del mondo dei media, hanno conservato un giudizio di buon senso, per cui io continuo a seguirle. Credo che centrale in questo discorso sia la questione dell’identificazione. Tutti ci identifichiamo in qualche cosa: con la nazionalità, la professione, la religione, la casa. Però questo fatto può essere rischioso e limitante, perché tutte le volte che io mi identifico può nascere lo scontro con gli altri. Se invece io mi percepisco come un essere umano, allora mi trovo di fronte a una morale che vale per tutti, perché qualsiasi persona capisce che uccidere è male. Invece se mi identifico con la nazionalità, ad esempio col fatto che sono ucraino, potrei arrivare a giustificare la morte del russo che mi ha invaso la casa.
Mi dico: io sono un ucraino e quindi per definizione sono bravo perché sono infelice, sono uno in gamba perché mi hanno aggredito, e tu invece sei russo e sei cattivo. E non ha importanza che cosa hai fatto, non ha importanza come ti comporti. Io su questo sono molto in disaccordo, perché mi voglio richiamare all’esperienza personale di ciascuno. È un cammino molto complesso quello di arrivare a capire che siamo persone, e non pacchetti di ruoli sociali, nomi, cognomi, passaporti. Perché se sono un ucraino che ha ammazzato dieci donne, sono una cattiva persona, e non c’è passaporto che tenga.
Tu ci hai raccontato che la preghiera ti ha aiutato, è cambiato il tuo rapporto con Dio negli ultimi mesi?
No, perché la guerra non la fa Dio, ma la fanno gli uomini. E io adesso prego perché il Signore faccia rinsavire tutti quelli che combattono. Tutti: ucraini, russi, siriani, georgiani. Tutti. E perché il Signore renda meno duri i nostri cuori. A essere sincera mi rendo conto di una cosa: io posso pregare in modo onesto solo per me stessa, perché anche quando prego per le persone care, lo faccio in modo un po’ egoistico, cioè di fatto prego per me, perché io non abbia perdite, dolore. In questa ottica, io prego anche per la pace in Ucraina. Prego perché sia un paese sicuro, perché i luoghi che io amo siano di nuovo splendidi. Mi rendo conto che tutte le mie preghiere per il momento sono per me stessa.
Però ringrazio Dio perché di fatto continuo a vedere i suoi miracoli che si dispiegano. Anche nell’imbattermi con la guerra, vedo una bellezza in ciò che accade. Vedo come le persone si aiutano a vicenda, come dei vicini di casa che in tutta la vita non si sono mai conosciuti, hanno cominciato a fare amicizia, come le persone si uniscono, cominciano ad ascoltarsi, come la gente ha smesso di rimandare la vita a domani, e tutto questo riguarda la bellezza. Riguarda il fatto che il mondo sta cambiando, naturalmente con fatica.
Ma io credo fermamente che qualsiasi male dell’uomo, Dio lo può trasformare in bellezza. È in questo che pongo la mia speranza, qualsiasi cosa succeda.
E anche quando commetto degli errori, dico: «Signore, se faccio degli errori e delle sciocchezze, ti prego, trasformale in bellezza. Io ho fatto queste cose, però tu rendile belle».
È possibile il perdono in questa situazione, e cosa si richiede per ripristinare i rapporti con i russi?
Probabilmente il perdono è possibile nel caso in cui ci sia una persona che chiede perdono. Oggi ci sono molte discussioni sul fatto se si debba perdonare o no. Ma noi discutiamo su cose che di fatto non ci sono, perché il perdono non è stato chiesto. Se nessuno viene a chiederlo si tratta di un vuoto filosofare.
Non si possono costringere gli altri a chiedere perdono, perché sennò ne uscirebbe una storia disonesta. Noi saremo pronti quando loro ci diranno: «Ragazzi, scusate». Ma per adesso chi dovremmo perdonare? Chi si sta scusando? E poi questo perdono è qualcosa di molto individuale perché per uno che ha seppellito tutta la sua famiglia, i suoi figli e sua moglie, probabilmente il perdono non è possibile, forse non ne ha nemmeno bisogno, perché per lui il fatto di non perdonare può essere l’unica risorsa per continuare a vivere, vivere di rabbia.
Credo che oggi dobbiamo fare i conti col fatto che abbiamo a che fare con un paese enorme, un enorme paese di persone infelici. Se uno è felice non vuole ammazzare, distruggere e rubare le patate al vicino. Ho viaggiato in Russia, sono stata a Mosca, sono stata in varie province, in città grandi e piccole, e ho visto il livello di vita che c’è. Capisco che se tu vivi per molto tempo nella rabbia, la rabbia per te diventa la norma. Se sei nato lì e hai vissuto lì per trent’anni, non hai altra realtà che quella.
Quando sono andata per la prima volta in Europa, ho visto un altro tenore di vita e ho detto: ah, caspita, allora si può anche vivere così. Che fare con tutta questa gente infelice? Cosa fare con l’Ucraina mi è chiaro: una volta finita la guerra possiamo sistemarci, rimettere in ordine, pulire, ricostruire, ma questo è un processo che incoraggia: ci sistemeremo! E la gioia sarà che a risistemare saremo noi, le giovani generazioni, di trenta, quarant’anni, e noi siamo diversi, non siamo più sovietici, sistemeremo le cose in modo diverso. Questo dà speranza.
Ma che fare con quel paese immenso? Noi adesso non lottiamo per la Russia, lottiamo per noi, per la nostra casa. Vinceremo, e poi? Cosa fare di questo non mi è chiaro, non capisco come si possa costruire un dialogo fra i due paesi in queste condizioni.
Ci sono alcuni russi, magari pochi, che già adesso stanno chiedendo perdono…
Certo, ci sono, in tutti gli ambienti, ma presi tutti insieme saranno 100.000 se va bene. Ma cosa sono su 140 milioni? Per quanto mi riguarda, ho pensato che io voglio vivere in Ucraina fino all’ultimo, ma se non ci sarà più l’Ucraina, se la Russia prendesse il potere, pur lasciando che l’Ucraina esista ma sotto il suo protettorato, direi loro: «No, scusate, ma io non sono disposta a vivere qui. Sono disposta ad andare in qualsiasi posto, ma non a vivere in un mondo che si atteggia a grande potenza…».
Si tratta ancora una volta di identificazione: se io mi identifico con il fatto che sono russo e che la Russia è una grande potenza, e quindi io sono un grande uomo, mentre invece vivo per tutta la vita in una casa popolare malridotta dei tempi di Chruščev con mia moglie e mi sfondo di alcol, che grande uomo sono? Sono uno che baratta il vuoto della sua vita con questa falsa “grandezza”. E questo naturalmente spiega perché la gente difenda la guerra con tanta facilità: noi siamo forti, a combattere siamo i migliori.
Pensi di tornare in Italia?
Vorrei moltissimo portare il gruppo di teatro con cui lavoro in Italia, nei luoghi di Dante perché il nostro teatro è stato salvato da Dante. Quando è incominciata la guerra, e c’erano bombardamenti pesanti su Kiev, la nostra regista era chiusa in casa con dei libri e si è messa a leggere la Vita Nova di Dante. Poi ci ha chiamati, dicendo che dovevamo leggerla tutti, e così abbiamo fatto. Abbiamo provato a interpretarla a voce alta. Poi abbiamo cominciato a leggere dei canti della Divina Commedia. Dante è diventata una grande guida, perché attraverso di lui passa una grandissima luce, e per noi è stata una luce molto importante nell’oscurità in cui siamo piombati. Ora stiamo cercando delle possibilità per portare Dante in Ucraina, per far sì che diventi più leggibile per tutti, per proporre degli spettacoli. In un certo senso, dopo la guerra è iniziata una vita nuova anche per noi.
Anche prima della guerra ci era capitato di lavorare un po’ su Dante e la Divina Commedia, con molta difficoltà per via della densità dei versi. Ma quando è iniziata la guerra, Dante ha cominciato a risuonare in modo diverso. Abbiamo anche incominciato a percepire in modo diverso l’idea del peccato: qui tradisco, qui odio, qui uccido. Cioè leggi e ti ritrovi nel testo. Capisci che più ti immergi nell’inferno, più sei vicino al purgatorio.
Kristina Ursuljak
Nata a Dnipropetrovsk nel 1993. Vive a Kiev, dove insegna teatro alle medie. Frequenta un corso di regia teatrale e recita in una piccola compagnia.
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