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2 Marzo 2021
Statue di santi, navigatori e carnefici
Statue abbattute, statue reinsediate, tutto in nome di un nuovo conformismo che distribuisce condanne e assoluzioni in base alle parole d’ordine del potere.
Oggi sembra vincente una nuova mentalità conformista, con un nuovo moralismo secolarista non meno bacchettone di quello tradizionalmente rimproverato ai cattolici. Di fronte a qualsiasi scontro di opinioni invece di discutere, obiettare, argomentare e, soprattutto, verificare la rispondenza al vero delle diverse opinioni si impongono nuovi tabù, ci si scandalizza, si lanciano anatemi per questioni spesso formali, a partire da «parole d’ordine» in voga. Ci vuole un’autorevolezza a tutta prova per osare mettere in discussione qualcuna di queste «parole d’ordine», come ha fatto ad esempio il presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso inaugurale: «Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi».
Tutto questo ricorda in modo impressionante il tipo di conformismo ideologico che dominava nei regimi totalitari, dove si usavano le parole d’ordine del potere come armi per colpire ed eliminare gli avversari. Così i preti non erano semplicemente «il clero» ma solo ed esclusivamente «il clero sfruttatore».
A quei tempi dire: il re è nudo era un atto di vero eroismo morale che aveva quasi sempre conseguenze spiacevoli, sino a toccare l’incolumità fisica. Oggi non si rischia la vita, ma la pesantezza del clima è tale da mettere in gioco la faccia, l’onore e la tranquillità.
Un addentellato importante di questa mentalità ideologica e conformista è una rivisitazione del passato che pretende di cancellare ciò che è stato, per sovrapporgli estrinsecamente gli slogan del momento. Come se la storia potesse essere continuamente riscritta non in seguito all’acquisizione di verità nascoste, ma per censura e riduzione. Ricordiamo la totale censura sovietica del passato prerivoluzionario, ad esempio la damnatio memoriae dell’universo religioso, per cui nei vocabolari sovietici non comparivano più parole come «starec», o «beato», o «concilio» ecc.
Avviene qualcosa di molto simile oggi quando assistiamo, ad esempio, all’odio improvviso, e del tutto gratuito, per le statue e la figura di Cristoforo Colombo, fatto oggetto di universale esecrazione. Assistiamo nel suo caso a un’assurda riduzione, che confonde la sua sfida all’ignoto per spingere più in là i limiti della conoscenza, con tutta la vicenda successiva, di cui non poteva essere responsabile, dalle violenze compiute nei confronti dei nativi alle forme di genocidio che la storia americana ha conosciuto. Dimenticando fra l’altro che proprio mentre la conquista dell’America muoveva i suoi primi passi, i teologi della scuola di Salamanca arrivavano a definire per la prima volta l’inviolabile dignità di ogni persona umana.
Nella vicenda di Colombo non siamo nel campo della conoscenza storica ma funziona un’istanza puramente ideologica, e moralisticamente ideologica. Se accettiamo questo approccio, alla stessa stregua dovremmo buttare a mare le piramidi e tre quarti della civiltà mondiale. Tuttavia per far questo bisogna cancellare molte, troppe cose.
Forse alla base di tutto questo c’è un insanabile senso di colpa, che invece di elevarsi ad autocoscienza ed interrogarsi seriamente sul senso della storia e delle vere responsabilità dei suoi protagonisti e dei loro eredi, cerca solo di «cancellare i volti» dal passato – come si faceva in URSS con le foto di famiglia – per sciogliersi da ogni parentela e responsabilità.
La «memoria storica à la carte» vede in questi giorni un nuovo revival in Russia, dove è partita una campagna d’opinione promossa dall’alto: in mezzo a piazza Lubjanka, nel centro di Mosca, c’è uno spazio vuoto che chiede un riempimento, cosa bisogna metterci?
La storia dell’URSS ricorda un altro simbolico caso di «vuoto da riempire», là dove era stata fatta saltare con la dinamite la grande chiesa di Cristo Salvatore, a Mosca, e per vent’anni non si era riusciti a riempire lo spazio beante con un mastodontico palazzo dei soviet, così che si finì per riempire il vuoto con il vuoto di una piscina scoperta.
Oggi l’intera piazza Lubjanka può essere letta come la rappresentazione simbolica della condizione morale del paese. Prima in mezzo si ergeva la grande statua di Dzeržinskij, creatore della Čeka e padre delle repressioni sovietiche. Da un lato della piazza sorge il palazzo della Lubjanka, ex sede del KGB e oggi dell’FSB: luogo sinistro e inquietante per il sangue che vi si è versato, e per i milioni di destini umani che ha annientato; sede di un’istituzione che ha cambiato nome ma non ha mai rinnegato il suo passato. Dall’altro lato della piazza, seminascosta in un giardinetto, c’è la pietra delle isole Solovki posta nel 1990 a memoria di tutte le vittime del totalitarismo: monito indesiderato ed emarginato ma ineludibile. E al centro rimane il cerchio vuoto lasciato dalla statua abbattuta nell’agosto del 1991. Da allora questo spazio è rimasto vacante, non solo per mancanza di una figura alternativa ma in generale per la mancanza di una scelta – di un giudizio – sul passato, che è anche una scelta sul presente.
Ora torna la grande domanda: cosa metterci? Un gruppetto di intellettuali ha chiesto che vi ritorni la vecchia statua; nella migliore delle ipotesi costoro non vogliono sapere né giudicare il passato, e preferiscono chiudere il discorso. Altri hanno detto che abbattere la statua era stato un errore perché non si può cancellare la storia, neanche il suo male; uno «storicismo» un po’ ambiguo che suggerisce una sorta di indifferenza etica.
Ol’ga Sedakova ha commentato che in fondo non c’è bisogno del Dzeržinskij di bronzo: con questa mancanza di giudizio il suo monumento già incombe su tutta la Russia.
L’importante sarebbe in realtà avere una memoria non censurata, non ideologica né mitologica ma viva, drammaticamente feconda, che dia gli strumenti per giudicare, non per un giustizialismo tranquillizzante ma per richiamare ciascuno alla propria responsabilità.
Da parte sua il Comune di Mosca, nell’anno in cui si celebrano il trentennio della caduta del regime comunista e gli 800 anni dalla nascita del principe sant’Alessandro Nevskij, ha lanciato un sondaggio sulla piattaforma «cittadino attivo», offrendo il santo come alternativa a Dzeržinskij. Intendiamoci: in questo sondaggio non si tratta del santo in quanto tale ma del feticcio patriottico a cui è stato ridotto con una rielaborazione mitologica che disegna un passato eroico e senza macchia: vincitore dei Cavalieri teutonici invasori e quindi simbolo militarista ed antieuropeo.
In sostanza, quella che si offre ai cittadini è una scelta che non è una scelta: mitizzare o riesumare, in questo caso, hanno la stessa implicazione mistificante.
Così, pur nella diversità dei contesti, Oriente e Occidente sono oggi travolti da una comune ventata di conformismo che crea nuovi tabù in base alle parole d’ordine generali e, soprattutto, in base alla volontà di ostacolare in ogni modo la rinascita di un giudizio indipendente dagli schemi imposti dal potere di turno. È una sfida ardua per la coscienza, perché è difficile mantenere la libertà interiore e sfondare il muro del perbenismo politico. A meno che non si trovi qualcuno che si lasci toccare dall’imponenza della realtà e che, tornando a gridare che il re è nudo, ci ridesti dal sonno.