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16 Gennaio 2017
L’unità della Chiesa secondo padre Men’
Tutto l’annuncio cristiano è intessuto dell’esigenza dell’unità. E gli uomini che più hanno vissuto la vicinanza con Cristo hanno recepito questa esigenza sino a farne una parte imprescindibile del proprio […]
Tutto l’annuncio cristiano è intessuto dell’esigenza dell’unità. E gli uomini che più hanno vissuto la vicinanza con Cristo hanno recepito questa esigenza sino a farne una parte imprescindibile del proprio io.
Così è stato per padre Aleksandr Men’, il grande pastore ortodosso morto martire nel 1990.
Un ricordo dissepolto di recente ce lo fa toccare con mano, con tutta la «semplice profondità» che contraddistingueva padre Aleksandr.
Si era negli anni ’60, gli anni del disgelo in URSS, ricorda Sergej Jurskij celeberrimo attore del cinema sovietico: «Come facevo spesso venni a Mosca da Leningrado per girare un film, e feci una capatina dal mio più caro amico, Simon. Quella volta mi aprì la porta e disse: “Entra presto, c’è qui un mio conoscente molto interessante, beviamo qualcosa insieme». Nella stanza sedeva padre Aleksandr Men’. Bevemmo del tè; lui rifiutò la vodka dicendo che entro sera aveva ancora varie cose da sbrigare. E cominciò la conversazione…
Era così strano: io che parlavo con un prete! (Padre Aleksandr vestiva l’abito talare). Parlò di tutto e di più: di cinema, di teatro, ma non di religione. Io e Simon eravamo lontanissimi dall’argomento. E la cosa davvero sorprendente era che parlava di temi assolutamente laici ma ne parlava in modo strano, come se tutto fosse illuminato di una luce nuova. Non riuscivo a capire quella strana luce che emanava da lui. Non potevo certo fare un’affermazione del genere in termini così aulici davanti a lui, mentre stavo seduto a tavola e mangiavo frittelle e aringhe. Dissi soltanto: “Che bello aver fatto la sua conoscenza. Lei è molto interessante”.
E lui subito di rimando: “Vuole proseguire la conoscenza?”.
“Con piacere”, risposi.
E lui “Sa, oggi è Natale!”.
Io, un po’ perplesso, scandii: “Na-ta-le? Ma come Natale? Non mancano due settimane?”. Era dicembre, il 25.
“Sì, il nostro Natale è il 7 gennaio – spiegò, – ma oggi è Natale per i cattolici e i protestanti. Vuole venire con me alla casa di preghiera dei protestanti?”.
Mai in vita mia ero andato in una chiesa. In assoluto. Ero nipote di un prete ma lo avevo scoperto molto tardi. Mio padre cercava non solo di non nominare mai il nonno, ma cercava di dimenticarlo del tutto, perché era pericoloso. Figurarsi che chiese conoscevo io, per non parlare di una casa di preghiera. Ma in quel momento sentii che volevo andare, e volevo andarci proprio con lui. E gli chiesi, perché ancora non capivo bene dove stavamo andando: “Cosa ci sarà?”.
E lui: “Ci sarà il Natale, andiamo, vedrà coi suoi occhi”. E andammo.
Era una casa di preghiera degli evangelici, mi sembra. Un edificio enorme dove erano raccolte almeno 500 persone, e forse più. Tutti pigiati. Padre Aleksandr Men’ fu il primo a portarmi in una chiesa. E lì sentii per la prima volta le parole del Vangelo. In russo e non in slavo ecclesiastico. Erano parole che raccontavano quello che era accaduto duemila anni fa a Betlemme, quando nel cielo si accese la stella. “Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”.
“Non c’era posto per loro nell’albergo”, queste parole, pronunciate in russo a Natale, nella casa di preghiera, mi bruciarono il cuore. “Non c’era posto per loro nell’albergo”. Oh com’era familiare! Com’era facile da capire! Ed era tutto così umano!
“…Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: ‘Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo’”.
Io ascoltavo il Vangelo e pensavo: “Perché non ne sapevo niente prima. Perché?”.
E chiesi a padre Aleksandr: “Ma lei non è un prete ortodosso?”.
“Sì – disse – sono ortodosso”.
“E noi adesso in che chiesa siamo?”
“Protestante”.
“Giusto, però lei è ortodosso… come la mettiamo?”.
“Sono ortodosso, ma se la gente festeggia io voglio felicitarmi con loro. Loro mi hanno chiesto di venire, e io ho portato anche lei – mi disse sorridendo, e aggiunse: – Quando verrà la notte fra il 6 e il 7 gennaio e ci sarà la nostra grande festa della Natività, loro verranno a felicitarsi con noi. Così dev’essere”.
Fu così che sentii dire per la prima volta quello che poi, in tutti i lunghi anni della mia vita, ho sempre ricordato come il senso dei rapporti con le altre confessioni. È sempre cristianesimo, solo in un’altra forma. Punto.
Ma più al fondo, è stato l’esempio di come porsi davanti all’altro in generale. L’esempio di come un prete ortodosso possa spalancare il cuore agli altri. Questo lo capii in modo bruciante quando in quell’enorme sala stavamo seduti insieme, spalla contro spalla, in mezzo a un’enorme massa di persone che due settimane prima del nostro Natale celebravano la stessa Natività del medesimo Gesù Cristo. Fu un colpo. E mi è rimasto impresso per tutta la vita.
Mi sono battezzato 25 anni dopo quell’Incontro. Era ormai un’altra epoca, io ero un altro, tutto ormai era cambiato. Ma durante il rito battesimale non potei non ricordare e non pregare in cuor mio per padre Aleksandr Men’, dal quale tutto era iniziato. Grazie a una frase ascoltata in una casa di preghiera protestante ho percepito da subito il cristianesimo come una religione che non divide gli uomini ma li unisce, che non li costringe ma gli spalanca davanti una strada nuova».