
27 Luglio 2025
Helsinki 1975: un fragile seme che ha dato frutti di libertà
Cinquant’anni fa la firma degli Accordi di Helsinki fu un momento cruciale per la distensione e la cooperazione tra Est e Ovest. Le clausole sui diritti umani, che l’URSS considerava una formalità, divennero la base legale per le rivendicazioni dei movimenti del dissenso.
Dal punto di vista politico, i primi quarant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale furono determinati fondamentalmente da due fenomeni: l’esistenza di un mondo bipolare diviso e il successivo scioglimento del blocco sovietico. Per tutto questo periodo l’URSS e gli USA ebbero un ruolo politico e militare sostanziale, rivaleggiando tra loro per il dominio mondiale e riflettendo questa competizione su tutta la vita politica, sociale ed economica del globo1.
La guerra fredda fu uno dei fattori decisivi che influenzarono le relazioni internazionali dalla fine degli anni ‘40 alla dissoluzione dell’impero sovietico nel 1989, una rivalità che ebbe varie fasi di intensificazione o attenuazione, ma non scomparve mai del tutto. Parte integrante e culmine di una di esse furono gli accordi di Helsinki e il successivo «processo», che divenne una pietra miliare nello sviluppo europeo e internazionale.
Dopo una prima metà degli anni Cinquanta molto tesa, nel 1955 l’assetto bipolare fu accettato come un dato di fatto al summit di Ginevra tra i rappresentanti delle quattro potenze vincitrici, mentre le due superpotenze si concentrarono sul consolidamento dei propri blocchi e sugli sforzi per impedire lo scoppio di una guerra nucleare. Le crisi di Berlino e di Cuba all’inizio degli anni Sessanta evidenziarono la necessità di relazioni pacifiche, e iniziarono a prevalere i tentativi di ridurre la tensione in Europa e ampliare i contatti reciproci.
I piani per una conferenza sulla sicurezza paneuropea emersero già negli anni Cinquanta, con una prima proposta sovietica nel 1954: le motivazioni sovietiche includevano il desiderio di ottenere la conferma internazionale dei risultati della Seconda guerra mondiale, incluse le modifiche territoriali e i nuovi confini che non avevano fondamento in accordi internazionali, assicurarsi la propria influenza sull’Europa centrale e orientale, rafforzare la posizione in Europa, migliorare la posizione internazionale, impedire l’unificazione della Germania sotto l’influenza occidentale, ottenere il riconoscimento della Germania orientale e limitare l’influenza americana in Europa.
Gli USA e i loro alleati, tuttavia, si rifiutarono a lungo di accettare queste richieste, riconoscendo lo status quo come risultato di sviluppi militari e politici ma senza volerlo formalizzare, mantenendo la questione della Germania divisa come punto controverso e ponendo condizioni negoziali considerate irrealizzabili dai sovietici. In Europa, tuttavia, la situazione di confronto era percepita in modo diverso rispetto a oltreoceano, ed entrambe le parti avevano interesse alla distensione: in particolare la Francia mostrò un atteggiamento più accomodante verso le proposte sovietiche, mentre i tedeschi nella seconda metà degli anni ‘70 conclusero una serie di accordi con gli Stati socialisti, esempio che spinse anche altri Stati occidentali ad allentare la tensione. A questo contribuì anche l’elezione (1969) di Nixon a presidente e di Henry Kissinger a consigliere per la sicurezza nazionale USA.
Nel 1966 i paesi del Patto di Varsavia diedero impulso alla convocazione di una conferenza internazionale sulla sicurezza, e nel dicembre 1971 a Bruxelles si tenne una riunione dei ministri dei paesi membri della NATO, dove fu concordata la loro partecipazione alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) che avrebbe dovuto svolgersi a Helsinki. Dopo lunghi negoziati preparatori, la Conferenza fu inaugurata il 3 luglio 1973. Ad eccezione dell’Albania, che fu l’unica assente, a Helsinki parteciparono i rappresentanti di tutti gli Stati europei (33), di USA e Canada.
Tematicamente, il negoziato fu diviso in tre «cesti». Il primo riguardava le questioni di sicurezza, il secondo la cooperazione in ambito economico, scientifico, tecnico e dell’ambiente, il terzo era dedicato alla problematica generale dei diritti umani, alla libera circolazione delle persone e alle questioni umanitarie. Durante i negoziati, complessi e durati due anni, furono proposte e formulate le linee guida generali e la forma finale del futuro accordo. L’interesse reciproco era la distensione e la stabilizzazione della situazione internazionale e lo sviluppo della cooperazione.
In una serie di questioni, tuttavia, gli interessi dei due blocchi divergevano: l’URSS e i suoi satelliti avevano interesse alla conferma dei confini esistenti, mentre per i partner occidentali in primo piano stavano i diritti umani e il libero scambio di informazioni.
L’Atto finale fu firmato il 1° agosto 1975 e segnò l’inizio del cosiddetto «processo di pace di Helsinki», che riguardò principalmente il controllo degli armamenti e proseguì con maggiori e minori successi anche negli anni successivi. Il percorso verso la creazione di un documento su cui si accordarono complessivamente 35 paesi non fu affatto semplice, e anche dopo la sua adozione sussistettero tra i firmatari alcune divergenze riguardanti l’interpretazione degli impegni assunti. Il risultato fu quindi un compromesso tra il blocco sovietico e gli Stati occidentali.

Da sin.: H. Kissinger, L. Brežnev, G. Ford e A. Gromyko all’ingresso dell’ambasciata americana a Helsinky, 30 luglio 1975. (fordlibrarymuseum.gov)
Nei 10 articoli dell’Atto furono riconosciuti tutti i cambiamenti politici e territoriali postbellici in Europa, furono garantiti fra l’altro l’inviolabilità dei confini e il rispetto dell’integrità territoriale, l’astensione dalla minaccia dell’uso della forza, la non ingerenza negli affari interni ed esterni, la risoluzione pacifica delle controversie, il controllo degli armamenti, la cooperazione tra gli Stati e l’adempimento degli obblighi del diritto internazionale.
Una parte significativa fu costituita dalla problematica dei diritti umani. I firmatari si impegnarono a non ostacolare il ricongiungimento familiare, la libera circolazione delle persone e delle informazioni e a non impedire i contatti tra i membri delle famiglie residenti dall’una e dall’altra parte della cortina di ferro; inoltre si impegnarono a rispettare i diritti individuali dei propri cittadini (libertà di pensiero, coscienza, convinzione e credo religioso) e delle nazioni (diritto all’autodeterminazione, uguaglianza tra le nazioni), e a promuovere i diritti umani e le libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.
Quello di Helsinki si differenziava da altri trattati simili per il fatto che non era un accordo una tantum, ma fin dall’inizio si prevedeva un processo a lungo termine, ovvero sui risultati si sarebbe continuato a lavorare sistematicamente e si sarebbe controllato il rispetto dei principi concordati.
Parte della sezione finale conteneva infatti la disposizione di tenere successivi incontri a Belgrado (1977-1978), a Madrid (1980-1983) e a Vienna (1986-1989). La problematica del rispetto dei diritti umani nei paesi del blocco sovietico fu tra le più controllate in questi incontri.
L’Atto era un accordo politicamente ma non legalmente vincolante, il che significava che le sue disposizioni erano impegni morali e politici piuttosto che leggi internazionali. Per l’Occidente questa soluzione di compromesso evitava il riconoscimento formale delle annessioni sovietiche, consentendo al contempo l’inclusione di disposizioni sui diritti umani. Per i sovietici, offriva l’apparenza di legittimità per i loro guadagni territoriali e per la cooperazione economica senza il peso legale del diritto internazionale.
Per questo l’URSS e i suoi satelliti considerarono i risultati dell’Atto finale come una vittoria, e la soddisfazione per il riconoscimento e la conferma dei cambiamenti territoriali postbellici fu per i sovietici così grande che ignorarono gli altri «cesti» e soprattutto i punti riguardanti i diritti umani e le libertà fondamentali e i diritti delle nazioni, considerandoli in fondo una semplice formalità, addirittura poco interessanti.
Del resto, non era possibile per l’URSS e i suoi satelliti seguirne le risoluzioni: se lo avessero fatto, avrebbero dovuto cambiare radicalmente il loro sistema politico. Era infatti evidente che gli impegni sui diritti umani si scontravano con la prassi politica interna e con i principi applicati nel mondo socialista. Paradossalmente, questa situazione fu facilitata dall’atteggiamento «benevolente» dei paesi occidentali, in cui nessuno si illudeva sulla applicabilità di quelle risoluzioni, tanto più che, secondo gli articoli IV e V, nessuno poteva intervenire negli affari interni degli Stati firmatari e che, dal punto di vista del diritto internazionale, il documento non aveva alcuna validità.
C’era anche il timore che qualsiasi scossa politica avrebbe potuto portare alla destabilizzazione di relazioni internazionali faticosamente stabilite: il segretario di Stato americano Kissinger nel ’74 considerò il processo di negoziazione preparatoria «una farsa» e in seguito dichiarò di essere indifferente all’Atto finale; perciò nell’interesse del mantenimento di buoni rapporti con Mosca, la delegazione americana cercò di evitare «disagi» all’URSS.

Il presidente americano Ford in visita in Polonia, accompagnato dal primo segretario polacco E. Gierek, luglio 1975. (fordlibrarymuseum.gov)
Un fallimento?
È pur vero che, nella seconda metà degli anni Settanta, il presidente americano Carter e il suo consigliere Brzezinski caldeggiarono maggiore attenzione nella politica internazionale al tema dei diritti umani, ma ciò non portò immediatamente dei cambiamenti nella situazione dell’Europa orientale. Le attività dissidenti non furono molto sostenute dai governi occidentali e anzi spesso erano considerate come elemento destabilizzante. In una certa misura e prima del pontificato di Giovanni Paolo II ciò valse anche per la Chiesa cattolica, in cui l’obiettivo era principalmente il ripristino della gerarchia ecclesiastica.
Anche in Occidente, i critici degli Accordi li considerarono un fallimento, perché secondo loro si era pagato un prezzo sproporzionato per il riconoscimento della sovranità sovietica sull’Europa centrale e orientale, senza ottenere in cambio nulla di tangibile. Lo stesso Solženicyn – espulso dall’URSS nel ‘74 – accusò gli Stati occidentali di aver deciso di seppellire l’Europa orientale, dove anche nei ranghi dell’«opposizione» prevalse inizialmente la delusione. Questa divergenza di percezione evidenzia una diversa comprensione della natura della minaccia sovietica: per i responsabili politici occidentali, si trattava principalmente di una sfida geopolitica, mentre per Solženicyn era un profondo male morale e spirituale che non poteva essere placato o gestito attraverso la diplomazia convenzionale. La sua appassionata richiesta di «interferire sempre di più» nei confronti di un regime considerato illegittimo, rappresentò per l’amministrazione americana una sfida diretta al principio della distensione, che cercava di gestire le relazioni senza ingerenze.
Da parte italiana fu Aldo Moro a firmare l’Atto finale e – ha ricordato il senatore Andreotti – «a chi gli contestò che era illusorio sottoscrivere un indirizzo così innovativo mentre da parte di Leonid Brežnev si affermava il permanere della “sovranità limitata” degli Stati amici dell’Unione, Moro rispose: “Il signor Brežnev passerà e il seme che tutti insieme abbiamo gettato darà i suoi frutti”». Inizialmente però il seme parve essere finito in mezzo ai rovi. Proseguiva infatti Andreotti: «Pochi mesi dopo (dicembre 1975) un articolo della Pravda, dal titolo Coesistenza pacifica e progresso sociale con la firma autorevole di Michail Suslov, respingeva ogni diritto ad ingerirsi nei loro affari interni, definendo gli impegni di Helsinki come concezioni borghesi del pluralismo e dei diritti dell’uomo, per il resto da loro già rispettati».
Anche sul quotidiano cecoslovacco Rudé Právo del 1° agosto 1975 si poteva leggere l’intervento del segretario generale del PCUS, pronunciato durante la fase finale della Conferenza. Con gran disinvoltura Brežnev – a 7 anni dall’invasione della Cecoslovacchia e 4 anni prima di quella dell’Afghanistan – sostenne che un importante insegnamento pratico per il futuro era che «nessuno, indipendentemente dalle considerazioni di politica estera, deve permettersi di dettare ad altri popoli come gestire i propri affari interni. Il popolo di ogni Stato, e solo il popolo, ha il diritto sovrano di decidere sui propri affari interni e determinare il proprio sviluppo interno. Un approccio diverso sarebbe una base fragile e pericolosa per la cooperazione internazionale». Non ci sono né vincitori né vinti – concluse: – «È una vittoria della ragione e tutti ne beneficiano, sia i paesi dell’Est che quelli dell’Ovest. (…) È una vittoria per tutti coloro che apprezzano la pace e la sicurezza del nostro pianeta».
Tuttavia, gli sviluppi politici nei successivi anni non diedero completamente ragione agli scettici: nel corso di pochi anni all’Est si formarono gruppi di opposizione organizzati, che si concentrarono soprattutto sulle richieste del rispetto dei diritti umani. Diversamente dalla visione di Solženicyn (ribadita nel famoso Discorso di Harvard del giugno ‘78 in cui accusava l’Occidente di avere un «approccio eccessivamente legalistico ai diritti umani»), all’interno della cortina di ferro personalità quali Andrej Sacharov scorsero negli Accordi uno strumento per guadagnare il sostegno internazionale al movimento del «dissenso». Così il 12 maggio 1976, proprio nell’appartamento di Sacharov, con la partecipazione di altri importanti oppositori (Jurij Orlov, Aleksandr Ginzburg, Elena Bonner, Vitalij Rubin, Anatolij Ščaranskij e Ljudmila Alekseeva), si tenne una conferenza stampa in cui fu annunciata la fondazione del Gruppo di controllo per l’attuazione degli accordi di Helsinki in URSS. Secondo la dichiarazione di Orlov, questo Gruppo Helsinki doveva raccogliere informazioni sui casi di violazione dei diritti umani, ricevere denunce dei cittadini e trasmettere tutte le informazioni ai governi e ai cittadini dei paesi che avevano firmato l’Atto finale. Anche la sezione moscovita di Amnesty International aderì al sostegno del Gruppo di Mosca, che fu la prima associazione pubblica sovietica informale.
Nel dicembre 1976 e nel gennaio 1977 nacquero altre due organizzazioni informali, strettamente legate al Gruppo Helsinki moscovita: il Comitato cristiano per la difesa dei diritti dei credenti e il Gruppo sull’abuso della psichiatria. Intanto Gruppi Helsinki nacquero anche in altre repubbliche sovietiche (Ucraina e Lituania nel novembre 1976; Georgia nel gennaio 1977; Armenia nell’aprile 1977), e la rivista samizdat Cronaca degli eventi correnti, che usciva già occasionalmente dal 1968, assurse a principale strumento informativo del dissenso sovietico che informava – in uno stile asciutto e puntuale – sui processi, sulla persecuzione degli attivisti ecc.
È interessante notare che ciascuno dei cinque gruppi Helsinki presenti in URSS aveva propri orientamenti e caratteristiche, a seconda della situazione delle singole repubbliche. Ad esempio, in Lituania, dove la Chiesa cattolica esprimeva già una forte posizione antisovietica, il gruppo non fu il centro principale delle attività informali. Gli ucraini si concentrarono invece sul problema dell’autodeterminazione nazionale, così come il gruppo armeno, che si dedicò anche alla documentazione della repressione della cultura e della lingua nazionali. Le forze di sicurezza sovietiche reagirono infatti a tutte le azioni e manifestazioni con estrema durezza, le persecuzioni culminarono negli anni 1977-1981 e la maggior parte degli attivisti fu condannata a lunghe pene detentive. Nel settembre 1982 gli ultimi attivisti rimasti a piede libero decisero di interrompere l’attività. In sei anni e mezzo di lavoro, il gruppo aveva diffuso 95 dossier di denuncia, alcuni dei quali finirono sul tavolo delle conferenze per la verifica degli Accordi, nel ‘77 a Belgrado e tre anni dopo a Madrid.

L’appartamento dei Sacharov a Mosca.
Nell’Europa orientale
Una situazione specifica si sviluppò in Polonia, dove c’era già una lunga tradizione di resistenza al regime e dove iniziò a formarsi un ampio fronte d’opposizione con la partecipazione di intellettuali, operai e della Chiesa cattolica. L’opposizione organizzata si formò nel 1976 con la nascita del Comitato per la difesa degli operai (KOR), che un anno dopo si trasformò nel Comitato per l’autodifesa sociale KOR (KSS KOR); nello stesso anno fu fondato il Movimento per la difesa dei diritti dell’uomo e del cittadino, finché nel 1980 si arrivò alla creazione del Sindacato autonomo indipendente Solidarność.
In Cecoslovacchia, la firma degli Accordi «contribuì» alla nascita dell’iniziativa informale Charta 77, che fin dall’inizio fu legata a quel processo e ai principi internazionali dei diritti umani: «Molte persone all’Ovest e all’Est – affermò il presidente Havel al summit dell’OSCE nel 1999 – fecero un passo importantissimo: presero in parola i governi comunisti e iniziarono a chiedere l’attuazione di ciò che avevano firmato». Nell’aprile 1975, quand’era un drammaturgo caduto in disgrazia, Havel si rivolse al primo segretario Husák con una coraggiosa Lettera aperta, in cui fra l’altro scrisse profeticamente del «ruscello segreto» della storia, capace nel tempo di lacerare il «pesante mantello» dell’inerzia totalitaria: un’immagine che riflette la visione a lungo termine di Havel sul potere della resistenza morale contro il totalitarismo, visione che avrebbe informato l’impegno di molti «diversamente pensanti» rispetto agli Accordi di Helsinki.
Il regime reagì contro Charta 77 con una forte repressione e cercò anche di screditarne pubblicamente i firmatari. Un documento declassificato del Ministero degli interni del 20 gennaio 19772 accusa gli Stati capitalisti di «usare in modo improprio» le conclusioni degli Accordi contro il sistema socialista. Questo «abuso» era visto come un’attività «ostile» coordinata da USA e NATO, che si esprimeva con la diffusione di stampa «dannosa» e l’attività delle stazioni radio. A ciò si aggiungevano i «circoli reazionari» dell’Occidente che sostenevano gli «elementi di destra» e «antisocialisti» all’interno del paese. Dal documento emerge un altro punto della strategia socialista: l’interpretazione selettiva e l’uso politico delle disposizioni dell’Atto finale. La reazione cecoslovacca è quella di cercare di soddisfare gradualmente e in modo selettivo solo quelle richieste che non ledono gli interessi dello Stato e, parallelamente, accusare lo stesso Occidente di non rispettare i diritti umani.
Diversamente, negli altri paesi dell’Europa orientale l’influsso del processo di Helsinki fu minore e limitato: in Ungheria, dove il regime non era così repressivo e le libertà personali e le sicurezze economiche erano migliori che altrove, i comunisti al potere tolleravano già una certa misura di libertà intellettuale e culturale, a condizione che i «diversamente pensanti» si astenessero dalla politica. Gli intellettuali ungheresi espressero sì sostegno ai firmatari della Charta 77, ma il tentativo di fondare (giugno 1977) un comitato che si richiamasse a Helsinki, fallì.
Gli Accordi ebbero il minimo effetto in Germania Est (sebbene tra il 1975 e il ‘76 si fossero svolte discussioni e fossero comparsi anche alcuni appelli alla loro attuazione); quanto a Bulgaria e Romania: solo una minima risposta venne al processo di Helsinki in Bulgaria, con la «Dichiarazione del 1978» che richiamava le disposizioni sui diritti umani. Dalla Romania invece venne un apprezzamento a Charta 77 con la lettera dello scrittore Paul Goma indirizzata all’attivista Pavel Kohout (gennaio 1977). Lo stesso Goma, insieme ad altri sette attivisti, inviò una lettera aperta ai partecipanti alla riunione di Belgrado, nella quale si invitavano gli Stati a fare pressione sul governo rumeno affinché iniziasse a rispettare gli Accordi e le convenzioni sui diritti umani. Il regime di Ceaușescu però non poteva tollerare queste uscite e agì con brutalità contro l’opposizione.
Gli Accordi di Helsinki rappresentano uno dei paradossi più interessanti della guerra fredda: ciò che inizialmente apparve come una vittoria diplomatica per l’URSS si trasformò in uno strumento di delegittimazione del sistema sovietico stesso. Il «seme» di cui aveva parlato Aldo Moro germogliò davvero, anche se attraverso percorsi – «ruscelli» –imprevisti. Così proprio quegli impegni sui diritti umani considerati dai sovietici «una semplice formalità» divennero la base teorica e morale per lo sviluppo dei movimenti del dissenso, che scoprirono di poter «prendere in parola» i propri governi, trasformando le promesse di carta in rivendicazioni concrete di libertà. Un processo che dimostra come la diplomazia, anche quando sembra accontentarsi di compromessi apparentemente sterili, può contenere in sé dinamiche imprevedibili.
(foto d’apertura: la firma dell’Atto finale, fordlibrarymuseum.gov)
Angelo Bonaguro
È ricercatore presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si occupa in modo particolare della storia del dissenso dei paesi centro-europei.
LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI