25 Marzo 2024
L’arte di essere liberi
È uscito nei mesi scorsi in Russia un volume che raccoglie numerosi saggi letterari di Marietta Čudakova (Testi nuovi e nuovissimi, 2002-2011), offrendo una lettura sistematica dell’universo letterario e culturale del XX secolo, alla luce di temi fondamentali come verità, dignità umana, libertà. La lucidità di alcune sue osservazioni e distinguo, che traspare dalla recensione che segue, costituisce un’interessante chiave di lettura anche per il contesto culturale odierno.
Il significato di Marietta Čudakova (1937-2021) per la vita intellettuale e sociale della Russia degli ultimi cinquant’anni è ancora da comprendere; con l’uscita di questo volume possiamo convincerci del grande valore dei suoi scritti per ricostruire la vera storia della letteratura russa del XX secolo, suddivisibile in tre filoni: quella ufficialmente consentita e pubblicata, quella vietata dalla censura e non pubblicata (samizdat), e quella pubblicata all’estero (letteratura dell’emigrazione).
Nota come grande studiosa dell’opera di Michail Bulgakov, Čudakova affronta in questo libro un vasto ventaglio di temi: si va dalle differenze tra le diverse generazioni di scrittori nella Russia sovietica e dai loro tentativi di aggirare la censura di Stato, fino alla mitologia anticristiana esistente in URSS e alla sublimazione del sesso in letteratura.
Fra i protagonisti del suo libro vi sono scrittori famosi come Bunin, Bulgakov, Mandel’štam, Pasternak, Achmatova, Šolochov, Gajdar, Tvardovskij, Simonov, Babel’, Sinjavskij, Solženicyn; meno famosi, come Berestov e Demidov; praticamente sconosciuti, come Barkanov e Mitrofanov; e molti altri ancora. Inoltre, il titolo dell’antologia può trarre in inganno, perché in realtà vi figurano anche alcuni saggi già pubblicati una prima volta alla fine degli anni Novanta. Il filo rosso che attraversa tutto il volume è la lotta degli scrittori della Russia sovietica per la libertà artistica. Nei vari periodi di esistenza dell’URSS e nelle vicende dei diversi letterati questa battaglia trovò modalità espressive diverse. Ad esempio, negli anni Trenta molti autori tentarono di sfuggire alle soffocanti catene ideologiche rifugiandosi nella descrizione della pura natura («flora e fauna senza traccia di esseri umani»).
Così esprime questa posizione Michail Prišvin nel suo discorso al plenum del comitato organizzativo del futuro congresso degli scrittori nell’autunno 1932:
«Ecco, mi scrivono un bigliettino da una redazione – non ci scriverebbe un raccontino sui cani o qualcosa del genere? Sembra che qualcosa stia cambiando, si respira una certa qual libertà. (Risate)». Come spiega Čudakova, «l’ultima frase fece ridere i letterati-ascoltatori, ma non poteva sembrare loro assurda. La libertà di scrivere sui cani era in un certo senso una conquista: il diktat relativo al tema si era un po’ allentato».
Venticinque anni dopo questo discorso, nella lettera del 12 luglio 1956 a Konstantin Paustovskij, Boris Pasternak si pronuncia in modo molto determinato sul compito dello scrittore contemporaneo:
«Vi bloccherà tutti l’inammissibilità del romanzo, penso. Mentre in realtà solo ciò che è inammissibile va stampato. Tutto ciò che è ammissibile è stato da tempo scritto e stampato».
Un anno dopo (il 23 agosto 1957) scriverà la stessa cosa a Simon Čikovani:
«Io non capisco come ci si possa figurare artisti e accontentarsi di ciò che è permesso, invece di rischiare su ciò che è grande, carico di gioia e immortale».
Nel periodo della stagnazione, relativamente più vegetariano ma ancora totalitario, il poeta Viktor Krivulin osservava:
«Parlare apertamente è impossibile, quindi bisogna creare un linguaggio nell’ambito del quale sia possibile dire tutto, ma in forma convenzionale. Si tratta però di un linguaggio molto ristretto, locale. Di fatto, un linguaggio cifrato, e dopo averlo decifrato ti accorgi di colpo che non conteneva nessun messaggio serio, nessun incremento di significato, era semplicemente il desiderio di qualcuno di dire le cose più semplici, dirle in una forma bella, forbita, e nulla di più».
Da questo punto di vista, Marietta Čudakova così descrive la differenza tra le epoche staliniana e brežneviana:
«Negli anni Trenta si aveva paura a esprimere le proprie idee non solo nella ristretta cerchia di amici, non ci si azzardava a prendere pienamente coscienza dei propri pensieri, sentimenti e giudizi neppure a tu per tu con se stessi. Nasceva una complessa, stratificata letteratura del celato, sottinteso, inconscio (o, come diciamo, la poetica dei problemi di facciata), a differenza della letteratura degli anni Sessanta-Settanta, che è una letteratura di allusioni, in cui ciò che non è consentito dalla censura non viene rimosso dall’inconscio, ma con piena coscienza (e perciò non di rado in maniera appiattita) si traduce in una sorta di linguaggio cifrato, volto a celare il pensiero dell’autore al censore, ma a svelarlo al lettore».
Uno degli articoli più penetranti della raccolta è dedicato ai letterati sovietici insigniti del premio Nobel. Michail Šolochov, che verso la fine della vita diverrà un personaggio odioso, nel 1931-1940 scrive, per usare le parole della Čudakova,
«un proprio “Arcipelago GULag”, con vivide figure di inquirenti sadici, tragiche sorti di arrestati (e torturati senza alcun arresto durante le requisizioni del grano), basandosi su materiali pervenutigli dalla sola provincia di Rostov, e invia il testo a un unico lettore», vale a dire Stalin. Fino all’inizio degli anni Novanta nessuno – né in Russia, né in Occidente – sapeva nulla del suo contenuto. L’autore di questo «GULag» rende noto un gran numero di vicende di persone ancora vive (in parte erano già state fucilate), e riesce a ottenerne la liberazione, fino al novembre 1940, e Škirjatov, Berija e Merkulov sono costretti a scrivere lunghe e ambigue risposte a Stalin».
Ad esempio, il 16 febbraio 1938 Šolochov riferisce al dittatore sovietico i metodi usati dai čekisti:
«Sputavano in faccia e ordinavano di non asciugare lo sputo, picchiavano a calci e pugni, gettavano in faccia mozziconi di sigaretta… Nel bel mezzo della notte arrivava l’inquirente Grigor’ev, e diceva cose del tipo: “Tanto non riuscirai a star zitto! Ti faremo parlare noi! Sei nelle nostre mani. Il Comitato Centrale non ha forse autorizzato il tuo arresto? Sì… Se non parli, se non ci consegni i tuoi complici, ti spacchiamo le braccia. E quando le braccia ti guariscono, ti spacchiamo le gambe. E guarite le gambe, ti romperemo le costole. Piscerai e cagherai sangue!.. Striscerai nel sangue ai miei piedi e chiederai il favore di morire. Allora ti uccideremo! Stileremo il verbale, è crepato, e ti getteremo nella fossa».
Mandare lettere del genere, nel pieno del Grande terrore, al suo principale fautore, era un atto di grande coraggio civico.
Pur comprendendo perfettamente il ruolo delle repressioni nell’instaurarsi e rafforzarsi del regime dei bolscevichi, al tempo stesso ciò che Šolochov temeva più di ogni altra cosa era trovarsi fuori del sistema comunista:
«Aspirava a diventare uno scrittore sovietico, le cui nobili azioni, a differenza dell’epoca di Tolstoj e Čechov, dovevano restare perlopiù nascoste: il darsi da fare per le decine di migliaia di suoi conterranei trasformati in schiavi, per quanti subivano arresti e torture, per il figlio di Andrej Platonov e altri ancora non poteva essere reso noto, a differenza della Russia del passato, e rimaneva nella maggior parte dei casi sconosciuto. La segretezza totale era molto importante: significava che non solo le lettere, ma anche tutte le sue arrischiate iniziative, la sua abnegazione si rivolgevano a una persona soltanto, escludendo così che si potesse porre il problema dello “scrittore e società”».
Un altro scrittore comunista, Aleksandr Tvardovskij, negli anni Trenta affrontò prove di resistenza non meno ardue. Nella sua lettera ad Anatolij Tarasenkov del 31 gennaio 1931 sui suoi genitori deportati come kulaki (contadini ricchi), riconosciamo uno dei segni caratteristici dell’epoca:
«Mi è stato proposto di riconoscere questo fatto e ripudiare i miei genitori, in questo caso non incontrerei ostacoli nella vita».
Negli studiosi Čudakova apprezzava soprattutto due elementi: la ragionevolezza e la chiarezza, considerandole a ragione «qualità rare nel campo degli studi umanistici russi». Quanto a lei, ha sempre scritto i testi con la massima chiarezza, senza per altro sacrificare la profondità del significato ad alcuna semplificazione. Del valore educativo delle sue opere avremo bisogno ancora per decenni.
(fonte: «Znamja»)
Nikolaj Podosokorskij
Nikolaj Podosokorskij è ricercatore presso il centro Dostoevskij e la cultura mondiale. Storico di formazione, si è specializzato in letteratura russa approfondendo in particolare il romanzo L’idiota di F.M. Dostoevskij.
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