
25 Settembre 2025
Da Nicea a Iznik
Alcune riflessioni ecumeniche nell’anniversario del concilio di Nicea. Al cuore di quel concilio tre compiti essenziali per la Chiesa: la pienezza della fede, la sinodalità di governo, la celebrazione comune della Pasqua. Compiti da assumere anche oggi.
Il concilio di Nicea del 325 viene spesso riassunto in tre aspetti: la proclamazione del simbolo della fede, l’inaugurazione della pratica sinodale come stile di governo nell’intera Chiesa, la determinazione di una data comune per celebrare la Pasqua. Fede, governo, liturgia: ritroviamo qui i tre compiti fondamentali della Chiesa che riflettono i tre «uffici» di Cristo (le tria munera): l’insegnamento (munus docendi), il governo (munus regendi), la celebrazione (munus celebrandi), a cui corrisponde la triplice unzione profetica, regale e sacerdotale che ogni cristiano riceve nel battesimo. A questi tre aspetti corrispondono anche tre termini su cui vorremmo soffermarci per riflettere sulle prospettive ecumeniche aperte dal 1700° anniversario del concilio di Nicea: il simbolo, il sinodo, la sinassi.
Il simbolo di Nicea come paradigma ecumenico
Per descrivere il simbolo di Nicea, la Commissione teologica internazionale ricorre alla bella immagine dell’«icona in parole». Con ciò intende dire che il simbolo della fede non è un discorso su Dio, ma una preghiera che ci permette di contemplare l’immensità del mistero divino, o meglio, che ci pone al cospetto di esso, come fa un’icona – che del resto è anch’essa «scritta».
Il Credo è innanzitutto un testo di glorificazione, un testo dossologico che assume tutto il suo significato quando viene proclamato dalla comunità durante la liturgia davanti a Dio, coram Deo, illustrando così il detto lex orandi, lex credendi: la legge della preghiera è la legge della fede. È significativo, del resto, che nella liturgia bizantina il canto del simbolo della fede preceda immediatamente l’anafora eucaristica.
Il 1700° anniversario del concilio di Nicea è l’occasione per tutti i cristiani di proclamare insieme, nella sua versione originale, il Credo che li accomuna. In questo modo, non recitano un’esposizione teorica degli articoli della loro fede, ma sperimentano ciò che si può chiamare un «ecumenismo dossologico». Lodare insieme Cristo vero Dio e vero uomo, glorificare insieme il Dio Trinità e la sua opera di Salvezza, è un modo privilegiato per i cristiani di sperimentare ciò che, al di là delle loro divisioni, li unisce già, e di affrettare la venuta della piena comunione.
Al di là della sua funzione dossologica, il simbolo di Nicea funge anche da «base comune» per la maggior parte dei dialoghi teologici tra cristiani che cercano di progredire nella comprensione comune della fede. Tuttavia, così come nessuna icona pretende di rappresentare esattamente il mistero di Dio, nessuna formulazione può esaurire il mistero indicibile della Salvezza.

S. Sofia di Iznik, oggi moschea. (F. Bini, wikipedia, CC BY-SA 4.0)
Il simbolo di Nicea, sebbene funzioni da regola di fede (regula fidei) normativa per tutti i cristiani, ha risposto a un contesto specifico, quello della crisi ariana, con un vocabolario particolare, alcuni dei cui termini sono ispirati alla filosofia greca. Il suo testo non è l’oggetto ultimo della fede, come afferma la famosa formula di san Tommaso d’Aquino: «l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà espressa». Per questo motivo, come ha chiesto papa Giovanni XXIII aprendo il concilio Vaticano II, è importante distinguere sempre il linguaggio in cui sono espresse le formule della nostra fede dalla realtà di cui esse rendono testimonianza.
È alla luce di questa distinzione tra ciò che viene detto e ciò che viene significato che il dialogo teologico tra cristiani ha fatto progressi negli ultimi decenni.
Infatti, molte controversie tra cristiani hanno riguardato le parole: si pensi al titolo «Theotokos» del concilio di Efeso (431), ai termini «ipostasi» e «due nature» del concilio di Calcedonia (451), al «Filioque», che fu al centro della controversia tra greci e latini, e alla comprensione della dottrina della «giustificazione» tra cattolici e luterani.
Gran parte del dialogo ecumenico consiste nell’interpretare il linguaggio. Una formulazione può essere compresa solo se si conoscono l’intenzione dei suoi autori, il contesto a cui hanno voluto rispondere, il linguaggio che utilizzano, l’approccio che hanno scelto.
Grazie a questo sforzo interpretativo, si acquisisce una maggiore consapevolezza non solo del fatto che una stessa espressione può avere diversi significati, ma anche che espressioni diverse, persino contraddittorie, possono esprimere una stessa realtà, una stessa fede.
È grazie a questa metodologia ermeneutica che, alla fine del XX secolo, gli accordi cristologici tra Chiesa cattolica e le antiche Chiese orientali hanno permesso di risolvere controversie vecchie di quindici secoli sui concili di Efeso e Calcedonia.
Questi accordi sono stati possibili perché, come il simbolo di Nicea, avevano anche una dimensione kerigmatica. Il simbolo di Nicea è kerigmatico, non solo perché la maggior parte delle sue espressioni riprende il kerigma evangelico, ma anche perché non ha esitato a utilizzare, per farsi capire, un termine della filosofia greca del suo tempo, l’aggettivo «consustanziale» (homoousios), per spiegare l’unione radicale di Gesù Cristo con Dio. Lungi dall’essere una «ellenizzazione» del cristianesimo, come sosteneva un tempo lo storico Adolf von Harnack, si può affermare che si tratta piuttosto di una cristianizzazione dell’ellenismo. Come sottolinea Aloys Grillmeier: «Non sono stati i greci a fare Nicea, ma è stata Nicea a superare i filosofi greci». In un certo senso, i Padri di Nicea sono riusciti a “inculturare” la fede cristiana utilizzando le categorie filosofiche dell’epoca, rompendo al contempo con il pensiero neoplatonico.
Questo dovrebbe essere anche l’obiettivo di ogni dialogo ecumenico: non solo risolvere le polemiche storiche, ma anche testimoniare insieme la stessa fede in un linguaggio comprensibile ai nostri contemporanei.
La risoluzione delle controversie del passato è facilitata quando i cristiani sono uniti dal desiderio di proclamare insieme il Vangelo oggi. Come affermava in modo ammirevole nel 1990 l’accordo cristologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa malankarese: «Il contenuto della fede che le nostre due Chiese professano è lo stesso. Tuttavia, nel corso della storia, sono emerse differenze terminologiche e di accento nella formulazione di questo contenuto.
Siamo convinti che queste differenze siano tali da poter coesistere nella stessa comunione e quindi non debbano o non dovrebbero dividerci, soprattutto quando proclamiamo Cristo ai nostri fratelli e sorelle in tutto il mondo in termini facilmente comprensibili».

S. Sofia di Iznik, tracce di affreschi dell’epoca di Giustiniano (VI sec.). (F. Bini, wikipedia, CC BY-SA 4.0)
Dal simbolo al sinodo
Il termine greco Symbolon significa innanzitutto raccolta o collezione. In senso teologico, il simbolo della fede è dunque un riassunto delle principali verità della fede cristiana che si articolano e si armonizzano tra loro secondo il principio della «gerarchia delle verità». Ma il simbolo ha anche un significato ecclesiologico: oltre alle verità, unisce i credenti. Nell’antichità, la parola greca symbolon indicava la metà di una tessera spezzata in due che veniva presentata come segno di riconoscimento. Le due parti spezzate venivano messe insieme per verificare l’identità di chi le portava.
Il simbolo della fede è anche un segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti, una «parola d’ordine» (indicium) come lo definiva Ruffino d’Aquileia (IV sec.). È un elemento che rimanda a un altro destinato a completarlo per ritrovare l’unità.
Il simbolo della fede è dunque inscindibile dall’unità ecclesiale. «Ogni uomo possiede la fede solo come “simbolo”, come un pezzo incompleto e spezzato, che può trovare la sua unità e integrità solo unendosi agli altri», spiegava il teologo Joseph Ratzinger nel 1969.
«Per realizzare il symballein, l’unione con Dio, è necessario passare necessariamente attraverso il symballein, l’unione con gli altri uomini. La fede richiede l’unità, chiama i fratelli nella fede ed è essenzialmente orientata verso la Chiesa».
Abbiamo quindi bisogno gli uni degli altri per poter professare la nostra fede. Ecco perché il simbolo di Nicea, nella sua versione originale, usa il plurale «noi crediamo».
Dando a questa immagine del symballein un significato ecumenico, papa Francesco ha dichiarato in una delle sue ultime udienze che «i cristiani ancora divisi sono come dei “cocci” che devono ritrovare l’unità nella confessione dell’unica fede. Portiamo il Simbolo della nostra fede come un tesoro in vasi d’argilla (cfr. 2Cor 4,7)». In altre parole, si potrebbe dire che solo quando i cristiani saranno pienamente uniti tra loro potranno unirsi pienamente a Dio nella recita del simbolo della fede.
La proclamazione della fede comune richiede innanzitutto di amarci gli uni gli altri, come ci invita a fare la liturgia orientale, con il diacono che prima della recita del simbolo di Nicea dice: «Amiamoci gli uni gli altri, affinché in unità di spirito, professiamo la nostra fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo».
La professione del simbolo della fede è dunque, per sua natura, un atto che esprime la natura sinodale della Chiesa. Non è un caso che il simbolo di Nicea sia stato definito dalla prima assemblea sinodale della Chiesa universale. L’anniversario di questo primo concilio ecumenico – in senso «universale» – ci invita a riflettere su quella che potremmo chiamare una sinodalità ecumenica – nel senso moderno del dialogo tra cristiani. Infatti, sebbene la sinodalità sia una realtà interna alle Chiese, il concetto può essere applicato anche alle relazioni tra di esse, ogni volta che cristiani di diverse tradizioni si riuniscono nel nome di Cristo per pregare, discernere, agire e testimoniare insieme.
Questo tipo di sinodalità, che potrebbe essere avvicinata alla «sobornost’ aperta» (sobornicitate deschisă) proposta dal teologo rumeno Dumitru Stăniloae, o alla «comunione conciliare» (counciliar fellowship) del Consiglio Ecumenico delle Chiese, è stata definita «sinodalità ad extra» nel documento Il Vescovo di Roma pubblicato nel 2024 dal Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani.
Questa sinodalità ad extra è già una realtà tra le nostre Chiese. L’invito rivolto alle altre comunioni cristiane a partecipare ai processi sinodali cattolici – come testimoniato dalla partecipazione di numerosi delegati fraterni al recente Sinodo sulla sinodalità, – gli incontri inediti tra capi Chiesa – come quello sul Medio Oriente del 2018 a Bari o la veglia ecumenica di preghiera Together del 2023 a Roma – illustrano un nuovo modo di esercitare la sinodalità tra cristiani, una sinodalità concreta, intesa come mezzo privilegiato per esprimere e approfondire la comunione tra loro.
Sarebbe auspicabile rileggere teologicamente questa nuova pratica sinodale, seguendo l’invito avanzato dal patriarca Athenagoras alla vigilia del suo pellegrinaggio comune a Gerusalemme con papa Paolo VI nel 1964: «I capi Chiesa agiscono, i teologi spiegano».
Appare soprattutto essenziale sviluppare e promuovere con audacia questa sinodalità ad extra. Il Documento finale del Sinodo sulla sinodalità invita inoltre «a immaginare pratiche sinodali ecumeniche» e propone addirittura «la celebrazione di un sinodo ecumenico sull’evangelizzazione».
La commemorazione comune del 1700° anniversario del concilio di Nicea dovrebbe essere l’occasione, sottolinea il Sinodo, per «mettere in pratica forme di sinodalità tra cristiani di tutte le tradizioni».

S. Sofia di Iznik, la zona absidale. (Dosseman, wikipedia, CC BY-SA 4.0)
Dal sinodo alla synassi
Il prossimo incontro a Iznik, l’antica Nicea, tra papa Leone XIV, il patriarca ecumenico Bartolomeo [probabilmente il 30 novembre – ndr] e altri primati e rappresentanti delle Chiese e delle Comunioni cristiane sarà l’occasione per sperimentare questa sinodalità ad extra sotto la forma di quella che potremmo chiamare una «sinassi ecumenica».
Il termine synaxis indica solitamente un’assemblea liturgica, ed esiste uno stretto legame tra la synaxis e il synodos, come ha sottolineato il recente Sinodo sulla sinodalità: la promessa di Cristo di essere presente dove due o tre sono riuniti nel suo nome si realizza in entrambi i casi, anche se in forme diverse (cfr. Mt 18,20). Tuttavia, il patriarca Bartolomeo ha utilizzato il termine «sinassi» in senso più ampio, per indicare le assemblee di capi Chiesa.
Se l’incontro di Iznik fosse l’occasione per una tale «sinassi ecumenica», si potrebbe auspicare che all’ordine del giorno figuri la questione della data della Pasqua, che è la Sinassi per eccellenza. Il dibattito sulla data della Pasqua è antico quasi quanto il cristianesimo stesso. Fu uno dei temi principali del concilio di Nicea, insieme alla questione ariana. All’epoca, alcuni cristiani dell’Asia Minore celebravano la Pasqua contemporaneamente alla Pasqua ebraica, mentre altri, in Siria e Mesopotamia, la celebravano la domenica successiva. I padri del concilio concordarono di trovare una soluzione comune: la Pasqua sarebbe stata celebrata la prima domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di primavera. Questa decisione non è riportata nei decreti o nei canoni del concilio, ma in una lettera sinodale alla Chiesa d’Egitto. La difficoltà sta nel fatto che il concilio non forniva alcuna indicazione concreta per determinare il plenilunio o per calcolare l’equinozio.
Le Chiese hanno generalmente adottato una data fissa teorica per l’equinozio di primavera – il 21 marzo del calendario giuliano, in vigore all’epoca del concilio di Nicea – indipendentemente dai dati astronomici. L’adozione del calendario gregoriano da parte della maggior parte dei paesi occidentali a partire dal 1582 ha fatto sì che i cristiani d’Oriente e d’Occidente celebrassero la Pasqua in date diverse, in quanto si basano su differenti Paschalia (tabelle di calcolo astronomico per determinare la data della Pasqua).
Sebbene non si tratti di una questione di fede – all’interno della stessa Chiesa cattolica i cristiani celebrano la Pasqua in date diverse – è di primaria importanza, per ragioni pastorali e di testimonianza, che tutti i cristiani possano celebrare insieme il cuore della loro fede, la «Festa delle feste», come la chiama la liturgia bizantina. Sono state proposte diverse soluzioni.
Una delle più realistiche è quella avanzata dalla Commissione Fede e Costituzione durante la sua consultazione ad Aleppo nel 1997, che tra l’altro si ispirava alla soluzione proposta a Chambésy nel 1977 durante la preparazione del concilio panortodosso: seguire il principio di Nicea, ma utilizzare dati astronomici più precisi per determinare la luna piena successiva all’equinozio di primavera, prendendo come punto di riferimento il meridiano di Gerusalemme, luogo della morte e della risurrezione di Cristo. Oltre a essere più accurata dal punto di vista astronomico, questa soluzione avrebbe il vantaggio di non obbligare nessuno a seguire uno dei calendari esistenti: tutte le Chiese dovrebbero «fare un passo» per celebrare insieme la Pasqua.
A 1700 anni di distanza da Nicea, la «sinassi» di Iznik potrebbe essere un kairos affinché i capi Chiesa si impegnino, in modo «sinodale», proprio come ha fatto il concilio di Nicea, a risolvere la questione della data della Pasqua. Potrebbe essere istituita una commissione ecumenica con il mandato non solo di proporre soluzioni, ma anche di preparare il popolo di Dio.
La «sinassi ecumenica» di Iznik potrebbe così affrettare l’avvento del giorno benedetto in cui potremo celebrare non solo nello stesso giorno, ma anche nella stessa Sinassi eucaristica, con lo stesso pane e lo stesso calice, il Corpo e il Sangue dell’unico Signore delle nostre Chiese e delle nostre vite.
(Foto d’apertura: S. Sofia di Iznik – Dosseman, wikipedia, CC BY-SA 4.0)
Hyacinthe Destivelle
Rev.do P. Hyacinthe Destivelle, OP, officiale della Sezione orientale del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani.
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