La speranza contro la facile abitudine

21 Dicembre 2025

La speranza contro la facile abitudine

Svetlana Panič

Testimone degli sforzi di molti per resistere alla disperazione, Svetlana Panič condivide la sua riflessione su cosa significhi sperare oggi, riscoprendo la novità insita in ogni cosa. Pubblichiamo un estratto dell’incontro tenutosi a Varese il 3 novembre 2025.

«Benché prossimo alla tomba
Io credo, verrà il tempo in cui
La forza dell’astio e della viltà
Sarà vinta dallo spirito del bene»

(B. Pasternak, Premio Nobel, 1959)

È molto difficile e impegnativo dire in cosa consista per noi la speranza, intesa non come ideale ingenuo, né come virtù astratta, ma come la speranza ragionevole, sobria, lucida, «senza vergogna» di cui parla san Paolo, la sola a cui ora possiamo aggrapparci.

La prima difficoltà che si presenta è che non è chiaro come parlarne. È del tutto evidente che noi, generazione che vive i primi decenni del XXI secolo, eravamo convinti di aver imparato la lezione delle catastrofi del secolo precedente, pensavamo di essere tecnologicamente e psicologicamente più illuminati e per certi versi anche più umani, consapevoli della fragilità dell’uomo e del mondo.

Ma non eravamo affatto preparati né alla pandemia, né alla “svolta a destra”, né al fatto che ci saremmo trovati nel mezzo di due guerre che hanno sconvolto tutte le nostre convinzioni, apparentemente consolidate nella seconda metà del XX secolo. Si è scoperto che non abbiamo un linguaggio per descrivere tutto questo. Il linguaggio politico e sociologico forse si sta sviluppando, ma non esiste ancora un linguaggio teologico, una narrativa cristiana che riesca a dire qualcosa se non di profetico, quanto meno di consolatorio e rassicurante.

Anche la tradizionale narrativa cristiana sulla consolazione e sulla speranza, come si è visto, non funziona più, quel linguaggio non era pronto a descrivere ciò che sta accadendo ora a noi e al mondo.

Si potrebbe così cadere nella disperazione di un “nuovo mutismo”, ma, fortunatamente, abbiamo maestri di speranza che hanno vissuto in tempi non meno catastrofici, e Boris Pasternak è uno di loro. Il 14 agosto 1946 fu emanata la risoluzione contro le riviste Zvezda e Leningrad, dichiarate portavoce di «un’ideologia estranea allo spirito del partito» e iniziarono le persecuzioni contro Anna Achmatova, altri poeti e scrittori «privi di idee». Pasternak era ben consapevole che questa volta le persecuzioni avrebbero colpito anche lui, ed era ormai evidente che le aspettative di un miglioramento sociale con la fine della guerra non si sarebbero realizzate. Inoltre, apprese della morte dei suoi amici più cari, in guerra o per mano dei carnefici di Stalin. Di questo periodo Pasternak racconterà dieci anni dopo, in una poesia rivolta al principale protagonista delle sue liriche, l’anima, con cui instaura un dialogo, come nella tradizione salmodica:

Anima mia che trepidi
per quelli che mi attorniano,
sei divenuta il loculo
dei martoriati vivi.

[…]

nel nostro tempo egoistico
per scrupolo e paura,
come urna funeraria
tu ne ospiti le ceneri. (B. Pasternak, Anima, 1956).

Eppure, negli stessi anni scrive anche:

«Si potrà vincere la morte
Con lo sforzo della resurrezione» (B. Pasternak Nella settimana santa, 1948).

O, come recita la poesia Premio Nobel [citata in esergo] scritta nel pieno della persecuzione sovietica per essere stato insignito del prestigioso premio internazionale:

«La forza dell’astio e della viltà
Sarà vinta dallo spirito del bene» (B. Pasternak, Premio Nobel, 1959).

Ora, rileggendo questi versi nel mezzo dell’attuale «viltà e astio», che minacciano una catastrofe antropologica,

viene spontaneo chiedersi: da dove veniva la certezza che «lo spirito del bene» sicuramente prevarrà, quando la realtà sembra smentirlo completamente?

Qui viene in aiuto un altro «maestro di speranza», Charles Péguy, il quale scriveva che la speranza non si contrappone allo scoraggiamento, ma all’abitudine, al rifiuto della novità, perché «la cosa facile e la tendenza è disperare» (Charles Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, 1911).

Ricordiamo che per Péguy la speranza è una bambina «piccola» e «debole», per nulla vivace, positiva e ottimista nel senso inteso dalla cultura popolare e dalla psicologia di massa. È una creatura piuttosto vulnerabile, «vacillante al soffio del peccato, tremante a tutti i venti» e allo stesso tempo «stabile, fedele, dritta, pura, invincibile», ricorda la Sapienza biblica, ma allo stesso tempo, come ogni bambino incorrotto, è pronta ad aprirsi al nuovo e allo stupore.

«E la mia piccola speranza
ogni giorno si alza dal suo lettino e
ci dice: buongiorno!» (Charles Péguy, Il mistero dei santi innocenti, 1919).

Questa apertura al «buongiorno», cioè alla novità, è lo «sforzo della resurrezione» di cui parla Pasternak. Nella tradizione ebraica esiste una benedizione speciale per le novità, che inizia con un ringraziamento ad Hashem [il Nome di Dio] per averci protetto e averci permesso di arrivare al giorno in cui possiamo indossare un vestito nuovo o mangiare il primo arancio dell’anno, incontrare una persona nuova.

C’è anche una preghiera speciale in cui si chiede: «aiutaci a vivere la novità di ogni giorno». Questa novità può essere rischiosa, difficile, a volte sembra che sarebbe meglio se non ci fosse e tutto rimanesse com’è. Ma ogni mattina dico a me stessa che, pensandoci bene, questo è il primo giorno, che non c’è mai stato prima né ci sarà più, e in esso si compie la storia, come una domanda rivolta a me, sul mio coinvolgimento e la mia collaborazione in questa storia.

E ricordiamo ancora una volta Péguy:

«E la mia piccola speranza
Ogni sera si corica nel lettino
E, dopo aver recitato le preghiere della sera, dorme tranquilla,
Per accogliere il mattino che sorge
Con una nuova parola e una nuova preghiera».

Cos’altro si può definire «sforzo della resurrezione»? Lo sforzo ascetico, cioè che richiede il rigore e la costanza di raccogliere «i frammenti della propria mente sbriciolata a poco a poco dai macigni delle «ultime notizie», e di cercare di comprendere la realtà rifiutando le stigmatizzazioni e le generalizzazioni ideologiche come «tutti loro» («russi, ucraini, abitanti di Gaza, israeliani»), molto vantaggiose per la propaganda dei regimi totalitari. In altre parole, è lo sforzo di rifiutare le abitudini, questa volta intellettuali, lo sforzo di rinunciare alle illusioni di onniscienza e di onnicomprensione per lasciare spazio agli interrogativi.

È, infine, lo sforzo della compassione, dell’empatia e della solidarietà. E qui ci viene in aiuto un’altra maestra di speranza, madre Marija Skobcova, la santa di Parigi:

«Non pensare a cosa e a come, non puoi creare niente di più grande delle parole “amatevi gli uni gli altri”, ma fino in fondo e senza eccezioni, e allora tutto sarà perdonato e tutta la vita sarà santificata. Altrimenti sarà solo abominio e pesantezza».

(Sul nostro sito è possibile rivedere l’intervento dell’autrice a Seriate)


(Immagine d’apertura: Vincent Van Gogh, Primi Passi (dopo Millet); wikimedia/Anagoria).

Svetlana Panič

Filologa, è stata ricercatrice presso l’Istituto Solženicyn di Mosca fino al 2017, ora è traduttrice e ricercatrice indipendente.

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