28 Novembre 2025
Il pacifismo alla prova
L’avventura di 110 italiani che hanno celebrato il Giubileo della pace sul fronte. L’avventura di persone impegnate nel pacifismo che si sono lasciate impressionare dai fatti e dalle persone incontrate.
Agli inizi di ottobre c’è stata un’insolita visita in Ucraina da parte di una delegazione del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (MEAN), insolita perché non era né politica né umanitaria in senso stretto ma ha avuto le caratteristiche di un pellegrinaggio, nonostante molti partecipanti non fossero credenti. Dopo un breve passaggio sulla stampa italiana quando il treno su cui viaggiava la delegazione di 110 persone è stato bloccato dai bombardamenti a Leopoli, questa visita è stata rapidamente dimenticata.
Noi abbiamo voluto andare a fondo dell’iniziativa, per capirne le origini e gli scopi. Abbiamo perciò dialogato con Marcello Raimondi e Luis Vanella, che non sono stati dei semplici partecipanti ma sono all’origine dell’impresa.

Il nunzio Visvaldas Kulbokas per le strade di Kyiv con i partecipanti al Giubileo. (Facebook MEAN)
Marcello Raimondi Dal 2020 con un gruppo di amici avevamo iniziato a tenere delle interviste collettive online che poi abbiamo pubblicato sul sito Presente.info. Sull’onda del magistero di papa Francesco, ci eravamo interessati a quella forma originale di partecipazione politica che è l’attivismo. I venti di guerra ci avevano portato a conoscere e intervistare alcuni esponenti importanti del pacifismo italiano.
Quando il 24 febbraio 2022 iniziò l’invasione russa su larga scala dell’Ucraina, eravamo riuniti e discutevamo di quello che stava accadendo. L’amico Luis Vanella sbottò: «Se un milione di europei facessero una marcia disarmata in Ucraina la guerra finirebbe subito». In effetti c’è da chiedersi perché ciò non sia mai avvenuto, visto la vicinanza del conflitto ai nostri confini.
Pochi giorni dopo, Riccardo Bonacina, fondatore della rivista Vita, aveva proposto alle associazioni che sostengono Vita (una cinquantina) di organizzare gli «Abbracci della pace», ossia proporre nelle città italiane un incontro tra ucraini e russi; anch’io avevo tentato di farlo a Bergamo, ma non si è riusciti a farne neanche uno in tutta Italia, tale era l’ostilità che correva.
A quel punto Riccardo ha pensato che la chiave di lettura che aveva fosse sbagliata. Così ha cominciato ad andare in Ucraina
assieme a dei gruppi umanitari e a intessere dialoghi con le persone che poi sono diventate i punti di riferimento di questo gruppo, in particolare padre Igor’ Bojko di Leopoli.
È stato a quel punto che ho visto su Vita un articolo in cui Angelo Moretti, amico di Riccardo diceva: «Un milione di europei dovrebbe andare a Kiev». La stessa cosa che proponeva Luis.
Moretti sosteneva che bisognava andare, e quindi si è formato un piccolo gruppo con Bonacina, Marianella Sclavi (sociologa e attivista, un personaggio storico della sinistra italiana) e alcuni seguaci di Alex Langer, un altoatesino tra i fondatori dei Verdi d’Italia, poi eletto al Parlamento europeo. Durante la guerra nei Balcani andò più volte a Sarajevo e in seguito a questi viaggi fece un appello all’Europa chiedendo di inviare soldati per «fermare l’aggressione, proteggere le vittime, punire i colpevoli» e impedire che «la conquista etnica con la forza delle armi torni a essere legge in Europa». Da quel momento molti compagni di strada del pacifismo lo abbandonarono, pur essendo lui una figura iconica di quel mondo.
Fu proprio Langer, da parlamentare europeo, a lanciare l’idea di creare i «Corpi civili di pace europei».
Alcuni suoi seguaci, in particolare Marianella Sclavi, si sono trovati a dare un giudizio molto simile sull’Ucraina. Hanno capito subito che c’era una differenza tra aggredito e aggressore che in quel momento non era molto chiara al mondo pacifista. È nato così il MEAN, che è un progetto che raccoglie alcune decine di sigle dell’associazionismo italiano attorno all’idea di rilanciare la proposta dei Corpi civili di pace europei e di far sì che l’Unione europea li metta in pratica. Si sono fatte già 14 missioni non solo di tipo umanitario ma anche per andare a incontrare la società civile ucraina.
Io mi sono unito al MEAN nell’ottobre 2023, partecipando con Paolo Signorelli a un momento di preghiera interconfessionale nella Piazza di Santa Sofia a Kyiv, guidato dal nunzio apostolico Visvaldas Kulbokas, che è diventato da allora l’interlocutore principale del nostro gruppo.
Per la preghiera davanti a Santa Sofia, il nunzio è riuscito a mettere insieme tutti gli esponenti delle confessioni religiose, cristiane e non, cosa già di per sé insperata. La sua capacità di giudizio sulla realtà mi ha colpito subito (fra l’altro, è stato uno dei pochissimi diplomatici a rimanere sempre lì). Il suo è un giudizio profondo, libero. Era un anno che io mi informavo sull’Ucraina, seguivo i podcast militari per capire cosa effettivamente stesse accadendo sul terreno, però il nunzio mi ha fatto comprendere che le chiavi interpretative che potevo avere io, sia pure specialistiche, non mi permettevano di arrivare a un giudizio limpido e sintetico su quello che stavamo vedendo in quel momento.

Mons. Kulbokas durante un momento di preghiera. (Facebook MEAN)
A novembre del 2024 ci siamo chiesti se non potessimo cogliere l’occasione del Giubileo per un gesto in Ucraina. Alla fine, ha prevalso l’idea che doveva essere un pellegrinaggio e non una marcia. Il mondo pacifista ha l’icona della marcia, che è una buona cosa, però a noi non sembrava il caso di organizzare una marcia in questo momento, volevamo un gesto più profondo, che scavasse dentro di noi. E per fortuna è stato così, il fatto che fossimo 110 per Kharkiv (e abbiamo dovuto limitare il numero dei partecipanti) è stato un evento epocale, ha permesso a ciascuno di compiere un approfondimento personale.
Così ad ottobre si è svolto il nostro pellegrinaggio. Siamo arrivati a Kyiv la mattina del 2 ottobre. Ci ha accolto e guidati il nunzio Kulbokas, che per prima cosa ci ha fatto pregare al memoriale di Piazza dell’Indipendenza, poi siamo andati nella cattedrale cattolica latina di Sant’Alessandro, lì abbiamo attraversato la Porta Santa e partecipato alla messa con il vescovo di Kyiv, monsignor Vitalii Kryvytskyi.
Quindi siamo partiti per Kharkiv. Il giorno dopo abbiamo partecipato alla messa nella cattedrale dell’Assunzione, presieduta da mons. Hončaruk, quindi siamo andati alla cattedrale greco-cattolica di San Nicola, dove il titolare della cattedra, monsignor Vasyl Tuchapets, ha guidato una bellissima liturgia per la pace. La chiesa greco-cattolica è un punto di riferimento molto importante dal punto di vista umanitario. Ogni giovedì distribuiscono pacchi a 2000 persone di Kharkiv. Molti di questi pacchi arrivano dall’Italia, perché c’è un’associazione di Como, Frontiere di Pace, che ha aderito al Giubileo e ha fatto più di 40 missioni in Ucraina, moltissime a Kharkiv.
Poi siamo andati al cimitero. Forse è stata l’esperienza più tremenda, che ha colpito tutti. Il cimitero di Kharkiv è estesissimo, sarà circa 1 chilometro e mezzo per 1 chilometro, tutto a raso. E per i caduti in questa guerra hanno creato come delle isole, raggruppandoli. Ogni isola aveva 700-800 morti. Per ogni tomba c’è una bandiera. Da marzo, quando siamo andati noi, a ottobre, quando siamo tornati con gli altri, c’era un’isola in più solo di caduti di Kharkiv; in tutto circa 4000 morti. Lì abbiamo pregato.

I partecipanti al pellegrinaggio, presso il cimitero di Kharkiv. (Facebook MEAN)
Cosa avete visto e sentito in Ucraina, a proposito della pace?
Marcello Qualche esponente del pacifismo si era scandalizzato perché i preti ortodossi finivano le preghiere chiedendo la vittoria: «Ma no, si deve pregare per la pace!». Sia a Kyiv che a Buča, nella parrocchia ortodossa, tutti hanno pregato per la vittoria, per loro la parola pace voleva dire resa ed era intollerabile. Poi, ho ricordato le parole del filosofo Konstantin Sigov che parlando a Seriate aveva detto una cosa che mi ha folgorato, cito a memoria: voi occidentali, a differenza nostra, avete perso il senso di voi stessi. Non avete più un ideale per cui vale la pena morire. È verissimo, noi ci scandalizziamo perché pregano per la vittoria, ma loro dicono: e voi non siete disposti a sacrificarvi per niente al mondo.
Quello che ho capito in modo netto in Ucraina è che la parola «pace» porta con sé tanti equivoci. Durante l’incontro sulla pace organizzato da voi a Seriate, l’inviata Alessandra Buzzetti, in collegamento da Gerusalemme, aveva usato più volte la parola resistenza. Non puoi togliere la parola resistenza dalla parola pace, c’è la necessità di fare resistenza anche alla violenza che hai dentro di te. C’è una resistenza che devi fare ai condizionamenti esterni che ti portano alla violenza. C’è una resistenza che devi fare al male che viene perpetrato. Cioè, non è possibile la pace se non fai resistenza a chi viene ad ammazzarti. Se no non è pace. Insomma, «pace» non è una parola che puoi semplificare nel senso irenistico di tranquillità.
Una parte cospicua dell’educazione alla pace che si fa nel nostro paese lascia questa parola nell’equivoco. Da noi i percorsi di educazione alla pace sono per il 90% teoria (sia pure teoria nobile, con riferimenti e strumenti di conoscenza importanti); solo il 10% è rappresentato da testimonianze di qualcuno che era sul campo. Andando in Ucraina capisci nettamente che la pace la impari dalle vittime, sono loro che sono abilitate a dirti che cos’è, non la impari dagli esperti. Io questa impressione l’ho avuta chiarissima sin dalla prima volta, e tutte le volte che ci vado si rafforza.
Luis Anch’io, sin dal primo viaggio in Ucraina, mi sono reso conto che parlare di pace a questa gente in questo momento non è opportuno, sono ancora troppo feriti. Bisogna avere molto rispetto per loro, perché le loro città si sono svuotate. Oggi a Kharkiv, dove c’era una vita universitaria importante, gli universitari studiano sottoterra o via internet, e i bambini devono vivere la loro vita sociale nei bunker, allora capisci che per parlare di pace e di perdono bisogna essere prudenti e rispettosi del dolore altrui.
Così mi son detto che potevo dare qualcosa a questa gente con la mia vita, offrendo quello che avevo vissuto io. E continuo a pensare che possa essere utile e che, più che andare noi a parlare di perdono e di pace, loro hanno bisogno di una presenza, anche silenziosa.
Perdono, è possibile parlarne lì?
Marcello Da quel che ho visto in questi tre anni, mi pare che la Chiesa cattolica abbia fatto un cammino molto significativo sulla strada del perdono. Faccio l’esempio delle liturgie che i due vescovi di Kharkiv hanno scelto per il nostro giubileo. Il vescovo latino, monsignor Hončaruk, un uomo straordinario, profondissimo, veramente un uomo che dà la vita per Cristo, già a marzo lasciava intuire nei dialoghi che desiderava iniziare a lavorare sul perdono. Così le preghiere che lui e il vescovo greco-cattolico hanno scelto per il Giubileo insieme sono state molto coraggiose.
A marzo siamo arrivati la domenica che precede l’inizio della Quaresima, che nella liturgia orientale è detta Domenica del Perdono. Nella messa celebrata nella sua cappella privata, il nunzio Kulbokas ha fatto una predica incentrata sul perdono, poi ci ha fatto abbracciare l’un l’altro chiedendoci perdono, anche tra sconosciuti. Alla quinta volta che lo ripeti ti viene da pensare: «Questa è una dimensione della vita». È l’educazione a una dimensione della vita che istintivamente non ti appartiene. Il nunzio quella volta ci ha fatto capire in modo liturgico che dobbiamo andare in quella direzione.
Nell’ottobre del ’23, Bonacina e gli altri si erano fermati a Leopoli, dove avevano partecipato a una messa con padre Igor’ Bojko; avevano letto il Vangelo del «porgi l’altra guancia». Padre Igor’ in predica aveva detto: «Noi oggi non riusciamo a farlo, fallo Tu per noi, Signore». Che è un po’ come dire: forse anche Gesù non ce l’ha fatta a perdonare sulla croce e ha detto al Padre: «Perdonali tu, perché non sanno quello che fanno». Si vede che è una cosa durissima per loro fare il passo del perdono. Però, devo dire che questa volta in tutti gli ucraini che ho incontrato non ho notato cenni di rancore.

Mons. Hončaruk con due pellegrine. (Facebook MEAN)
Luis Credo che la situazione abbia sfrondato moltissimi atteggiamenti negli ucraini, a favore di una maggiore chiarezza. Ricordo che un giovane cappellano militare raccontava che dava l’estrema unzione ai ragazzi moribondi portati dalla prima linea e che volevano confessarsi perché avevano ucciso altri ragazzi. E lui ci diceva che l’articolo 2265 del catechismo della Chiesa cattolica parla della legittima difesa e della responsabilità dell’autorità nella difesa dei suoi cittadini. Sarebbe interessante da leggere questo articolo, perché è attuale come non mai. Credo che noi queste cose le guardiamo in modo intellettuale, perché una cosa è parlare di morire e un’altra cosa è morire. Noi rendiamo astratte queste cose, poi quando ti trovi nella dura realtà, questa te le semplifica, le rende immediate.
Marcello Si fa presto a parlare di perdono. Tra le tante definizioni di perdono che ho sentito, una di don Giussani è folgorante: «Il perdono è lasciare, dentro di te, spazio e libertà all’altro». Questo vale a maggior ragione quando senti la parola perdono giocata in un posto dove tutti i giorni ci sono massacri di una brutalità tremenda.
Qui usare la parola «perdono» è veramente un miracolo che può fare solo il Padre Eterno. Per questo dico che l’educazione alla pace si impara dalle vittime delle guerre, non da altri.
Tu pensi che il vostro pellegrinaggio sia stato un passo del genere?
Luis Al cento per cento. E non sono solo io a pensarlo, l’hanno detto anche gli altri, l’ha detto il nunzio, l’hanno detto gli ucraini che abbiamo incontrato. Non abbiamo portato niente, in realtà abbiamo portato noi stessi: la nostra presenza fisica lì, in mezzo al caos che è la loro realtà, con le sirene e le esplosioni, aveva un valore enorme. Ripeto quel che diceva anche il vescovo. «È come se tu ti trovassi in un ospedale e ti vengono a fare visita, anche se non sai chi è quella persona, anche se non ti porta i cioccolatini, l’affetto che ricevi in quell’incontro è un sussulto di bellezza. È quello che provano loro quando arriviamo noi anche se non portiamo niente. La manifestazione d’affetto da parte nostra, la testimonianza di speranza che portiamo quando siamo lì è enorme. Te ne rendi conto quando sei con loro.
E questa coscienza era condivisa da tutti nel gruppo?
Luis Pur in diversa misura, direi di sì. Alcuni non avevano alcun legame con il mondo cattolico, ad esempio Marianella Sclavi. Eppure anche lei, durante una chiacchierata, ha riconosciuto che gli ucraini si entusiasmavano per la sola nostra presenza. Magari lei la definiva con una terminologia diversa, ma il sussulto del cuore è lo stesso. Secondo me, la maggior parte dei centodieci che eravamo, almeno tutti coloro con i quali ho parlato, hanno vissuto l’esperienza con riconoscenza.
Del resto, non puoi non renderti conto di essere in un paese in guerra, che questa gente di notte non dorme, perché anche se non scendi nel rifugio comunque la sirena la senti, l’angoscia ce l’hai, la paura di morire ce l’hai; il bagno di realtà ti cambia. Non puoi non avere la percezione che ti può toccare da un momento all’altro. Il vescovo ci scherzava sopra, diceva: «Saremo tutti santi, diventeremo tutti martiri». Si vive con questa apparente leggerezza, ma non è leggerezza. Credo che ci sia una profonda convinzione che può succedere così.
Marcello Moltissimi del gruppo non erano mai venuti in Ucraina, né sono credenti. Eppure, ho visto che tutti, laddove eravamo colpiti noi, lo erano a loro volta. Tutti sono rimasti colpiti dalla dimensione religiosa, perfino i non credenti. Ho visto uomini aperti e trasformati da questa esperienza.
Luis Questo aspetto è la cosa che più mi ha colpito. Sulla situazione in Ucraina ci siamo trovati tutti d’accordo, anche le persone di sinistra. Ognuno aveva le proprie definizioni, ma c’è stata una disponibilità reale, lì tutti avevamo lo stesso sguardo.
Come cambia la gente quando non c’è più un’ideologia che spinge a prendere posizione ma c’è la realtà in cui ci si imbatte. Là siamo stati tutti travolti nella stessa maniera dall’impatto con la realtà.
Non è scontato, perché a suo tempo, isolarono totalmente Alex Langer dopo la sua presa di posizione su Sarajevo. Langer alla fine si suicidò, forse anche per questo motivo. In molto pacifismo c’è una possibilità latente di violenza, di ostracismo. Perché è violento tacere così di fronte alla realtà di quello che sta succedendo in Ucraina.
Marcello Il mondo religioso che ho incontrato in Ucraina ha un atteggiamento diretto verso la realtà, non usa metafore. Come invece facciamo spesso qui da noi. Pochi hanno la capacità di star davanti alla realtà per quello che è, e ancora meno riconoscono che stare davanti alla realtà coincide con lo stare davanti a Dio. Perché Dio ti parla nella realtà. In Ucraina questo è chiarissimo. E coincide con la preghiera. Durante il Giubileo, ci hanno offerto un concerto d’organo nella Filarmonica di Kyiv; la presentatrice, una cantante d’opera il cui marito era appena tornato dal fronte, ha detto: «In Ucraina, oggi, tutti pregano, la guerra ci ha insegnato a pregare». Nessuno le aveva chiesto di fare un intervento del genere. «Preghiamo dappertutto: al lavoro, accompagnando i bambini, andando in chiesa. Preghiamo abbracciandoci». Non so se tutti quelli che sono vittime della guerra facciano questa esperienza, però loro la fanno. Il loro atteggiamento di fronte alla realtà è assolutamente diretto. A me questo è servito tantissimo, perché oggi, anche nella cultura politica italiana, si privilegia la narrazione perdendo di vista la realtà.

Il gruppo dei pellegrini. (Facebook MEAN)
Farete un nuovo viaggio?
Luis Sì, sicuramente. Non so se di altre cento persone o di gruppetti. Ci sono tante idee. Non c’è nulla di pianificato ancora, ma il mio pensiero è che prima dobbiamo fare qualcosa di concreto.
Qui più che lavorare soltanto a livello di grandi strutture, bisogna farlo a livello di base. Ci sono tre ambiti in cui gli ucraini ci hanno chiesto di intervenire: uno è quello dei bambini, magari ospitandoli d’estate o anche solo facendogli arrivare delle letterine dai nostri ragazzi; un altro è quello della salute mentale, che è totalmente in crisi perché i traumi bellici sono enormi. E, terzo punto, la comunicazione: come fare per comunicare con maggiore capillarità in Italia quello che accade in Ucraina.
(Immagine d’apertura: Piero Vitti, pagina Facebook MEAN).
Marcello Raimondi
Marcello Raimondi è co-portavoce del Movimento europeo di azione nonviolenta (Mean). Laureato in filosofia, giornalista professionista, è stato caporedattore della Sesaab, editrice de L’Eco di Bergamo, La Provincia di Como, Bergamo tv, Radio Alta e numerose testate online. Dal 2000 al 2013 è stato consigliere, poi assessore della Regione Lombardia.
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Luis Vanella, nato a Córdoba (Argentina). Da anni vive in Italia, in provincia di Bergamo. È sposato da 46 anni e ha 4 figli.
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