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20 Novembre 2025
Ritrovare la persona dietro l’etichetta
L’esperienza di convivenza e di conflitti nazionali vissuta in Cecoslovacchia nel ‘900 e i passi di riconciliazione fatti ci ricordano una possibile via d’uscita dalle chiusure ideologiche mentre aumentano le narrazioni nazionaliste.
Nel cuore dell’Europa centrale, all’inizio del ‘900, esisteva una realtà che oggi faticherebbe a trovare posto nelle narrazioni nazionaliste: famiglie miste in cui padre e madre parlavano lingue diverse, città trilingui come Bratislava, in cui convivevano tedeschi, cechi, slovacchi, ungheresi ed ebrei. Il testimone Otto Sobek si chiede «non ci rendevamo conto di cambiare lingua, era normale rispondere in base a quella in cui ti interpellavano».
La percezione di questa complessità quotidiana era estremamente soggettiva, e forse solo una narrazione polifonica può restituire la realtà autentica e non una visione parziale dettata da una narrazione ideologica monolitica: questo l’obiettivo del volume Memorie divise curato da Georg Traska, frutto di un progetto di Oral History congiunto tra Austria, Repubbliche ceca e slovacca, che attraverso le testimonianze di 37 persone raccolte nei tre paesi propone una narrazione transnazionale della storia del periodo nazista e dell’espulsione dei germanofoni dalla Cecoslovacchia.
Se ci si affidasse unicamente al racconto di Dorothea Blaha, sostenitrice del pangermanesimo, si avrebbe l’immagine di Reichenberg (oggi Liberec) come una «città completamente tedesca», dove i cechi non erano visti come nemici, ma semplicemente «non piacevano». Il suo concittadino Erwin Scholz, nipote di un boemo che parlava solo ceco e di una originaria ceca che parlava solo tedesco, dimostra che la questione non era affatto così lineare. Sono quindi le storie concrete delle persone a rendere bene la realtà variegata e irriducibile di quegli anni, difficilmente semplificabile attraverso generalizzazioni.

L’astrazione burocratica contro la realtà umana
In questo complesso panorama la questione della nazionalità non fu un problema fino a che non fu esplicitamente posta come tale nel 1918, quando la repubblica Cecoslovacca appena nata introdusse per la prima volta nel censimento la richiesta di indicare la nazionalità. Per alcuni la scelta era chiara, ma per la maggior parte della popolazione, appartenente a famiglie ceco-tedesche o comunque bilingui, costituiva un dilemma. L’intento era favorire l’autodeterminazione nazionale, ma l’effetto collaterale fu il progressivo aumento delle tensioni interne, in particolare con la minoranza tedescofona stanziata storicamente nelle regioni di confine, che da quel momento dovette battersi per ottenere pari diritti. Alle elezioni del 1935 il Partito dei Tedeschi dei Sudeti, di orientamento filonazista, emerse come forza politica dominante; tre anni dopo, con gli Accordi di Monaco, la Cecoslovacchia fu costretta a cedere al Reich un terzo del proprio territorio, e nel marzo 1939 venne istituito il protettorato di Boemia e Moravia, sotto il controllo tedesco.
L’appartenenza etnica dichiarata, che fino a quel momento non aveva avuto grandi ripercussioni sulla vita pratica, si trasformò in un marchio che decideva la vita delle persone. Per i gruppi che già in precedenza subivano discriminazioni razziali fu come una condanna a morte: circa 70.000 ebrei e 6.000 rom furono assassinati. A questi si aggiunsero le vittime ceche del nazismo (circa 40-45.000) e le altre migliaia di cechi, come la famiglia di Milada Vorlová, che furono costretti ad abbandonare le loro città e spostarsi verso l’interno del paese.
Le famiglie miste, testimonianze viventi di una convivenza pacifica tra diversi gruppi etnici e linguistici, si ritrovarono spaccate in due da una domanda su un modulo.
Lo dimostra la storia di Erwin Scholz, i cui zii nel 1938 si divisero tra chi scelse la cittadinanza ceca e chi quella tedesca: alcuni si ritrovarono così nell’esercito tedesco, mentre il padre, socialista, per evitare l’arruolamento nelle file della Wehrmacht, seppur di madrelingua tedesca, scelse la cittadinanza ceca. «Prima non sapevo nemmeno che fossero tedeschi – testimonia Oldřich Krejčí ricordando l’ottima convivenza tra tedeschi e cechi a Brno fino al 1939 – poi improvvisamente ci furono le manifestazioni dei tedeschi e i blocchi delle SA [Sturmabteilungen, squadre paramilitari naziste che presidiavano le strade e intimidivano la popolazione – ndr], alimentati dalla propaganda che diffondeva notizie false su presunti soprusi dei cechi. Lì è cambiato tutto».
La radicalizzazione e le sue conseguenze
Questa radicalizzazione diede inizio ad una spirale di disumanità e sete di vendetta che non si limitò ad una singola fazione, né terminò con la sconfitta del nazismo. Jozef Roth, slovacco figlio di un minatore tedesco, con un fratello che combatteva nella Wehrmacht e uno zio partigiano, testimonia la brutalità dei partigiani che torturavano e uccidevano innocenti per gettarli, a loro volta, in fosse comuni. La sua famiglia subì infatti persecuzioni sia dai partigiani in quanto tedeschi, sia dai nazisti in quanto antifascisti.
Dopo la liberazione, la reazione ceca fu, infatti, altrettanto violenta e lo stesso sistema di categorizzazione si rovesciò contro gli stessi tedeschi, secondo il principio di colpa collettiva: 800.000 persone furono cacciate in modo disordinato prima della Conferenza di Potsdam, con uccisioni di massa soprattutto di bambini e anziani. Il 30 maggio 1945, 26.000 persone – metà della popolazione tedesca di Brno – furono espulse in quella che diventò la «marcia della morte», con 2000-5000 vittime.
I decreti Beneš del 1945 ratificarono l’esproprio dei beni e l’espulsione dei tedeschi: da quel momento il fatto di aver dichiarato nazionalità tedesca nel censimento del 1930 significò avere poche possibilità di ottenere il permesso di rimanere, anche se quella scelta non aveva significato nulla in termini di lealtà allo stato cecoslovacco. Persino chi aveva rifiutato il nazismo, come Eleonore Schönborn, di famiglia aristocratica tedesca ma antinazista e con un marito disertore della Wehrmacht, fu cacciata perché le autorità ceche si fermarono solamente alle sue origini tedesche, nonostante avesse ospitato in casa generali della resistenza come Ludvík Svoboda e disponesse di documenti e testimoni che dichiaravano la sua fedeltà alla repubblica. Così, dei 3 milioni di tedeschi che abitavano in Boemia e Moravia alla fine della guerra, solo 240.000 non furono espulsi. Molti di loro rimasero per molto tempo apolidi, dato che non furono accettati nemmeno dall’Austria che in quanto «prima vittima della Germania nazista» si dichiarava impreparata ad accogliere alcun profugo «tedesco», e furono costretti a vivere in condizioni di miseria e al limite della disumanità.
Robert Kudlicska racconta che per nove anni visse con i suoi in una baracca militare insieme ad altre 60 famiglie, usando pannelli e carta da pacchi per delimitare il proprio spazio, con solo alcuni letti, un armadio con un forno e un tavolo in pochissimi metri quadrati. Felicitas Prchla, di padre ceco e madre ebrea viennese – entrambi perseguitati dai nazisti durante la guerra – si ritrovò apolide perché, avendo indicato la nazionalità tedesca nel censimento del 1930, con i decreti Beneš fu privata della cittadinanza ceca, senza che di fatto avesse mai avuto quella tedesca.
«Le persone allora sembravano non voler capire che una persona durante la guerra potesse saper parlare tedesco ed essere contemporaneamente antinazista». Questa condizione impediva l’accesso al lavoro e ad altri servizi essenziali e paralizzava la vita in una situazione di precarietà, tanto che lei stessa esclamò, una volta ottenuta la cittadinanza provvisoria («Béčko»): «siamo di nuovo persone!».

Spiragli di umanità
In questo vortice di disumanità, in cui vittima e colpevole si scambiano ripetutamente i ruoli e la realtà sembra contraddire continuamente sé stessa,
emerge dalle testimonianze un’esperienza comune: l’umanità riaffiora quando lasciamo da parte le etichette astratte e guardiamo negli occhi la persona concreta, che porta in sé una storia ben più complessa di una semplice appartenenza etnica.
Fu un fortunato incontro, per esempio, a salvare la vita a Leo Zahel e sua madre, tedeschi socialisti e antinazisti: durante la «marcia della morte» da Brno, proprio nel momento in cui pensavano che fosse giunta la loro ora perché avevano osato sedersi stremati dalla fatica, furono riconosciuti dal soldato di turno, vecchio collega di lei, che decise di risparmiarli.
Anche Eleonore Schartelmüller ricorda che nonostante i frequenti maltrattamenti subiti al termine della guerra, non è giusto fare di tutta l’erba un fascio, perché lei e la madre erano sopravvissute grazie a un georgiano dell’Armata Rossa che durante la reclusione portava loro da mangiare.
E particolarmente significativa è la storia di Waltraud Kriegischová, boema di origini tedesche, la cui famiglia aveva salvato dalla deportazione una donna russa di origine ebraica e i suoi figli. Dopo la liberazione, questa donna si batté a sua volta duramente per far rientrare i giovani tedeschi dal campo di lavoro e, interrogata da un militare sul perché si adoperasse con tanto zelo «per dei tedeschi, con tutto ciò che era successo agli ebrei», lei rispose, ponendo fine al dibattito astratto: «non racconti a me cose che io stessa ho subito! Ma queste persone mi hanno aiutata, e ora io aiuto loro».
Questi episodi non cancellano la tragedia, ma dimostrano che essa non fu l’inevitabile conseguenza di differenze etniche inconciliabili, bensì il risultato di scelte politiche che ridussero gli individui a etichette semplificate. Si delinea così una via d’uscita: ritornare alla persona laddove questa è stata sostituita da un pregiudizio ideologico.
Il padre di Milada Vorlová, ceco cacciato dalla sua città dai sudeti nel 1938 e ritornato nel 1945, soffrì per l’espulsione violenta dei tedeschi, riconoscendo che «molti di loro erano persone semplici senza nessuna colpa».
Allo stesso modo Božena Korbelová, testimone delle violenze arbitrarie dei cechi contro i tedeschi, concluse che «se anche qualcuno di loro aveva fatto qualcosa, la vendetta non dovrebbe avvenire in questo modo». Il caso di Horst Kaller, uno dei pochi espulsi che dopo la caduta della cortina di ferro è tornato nella sua città di origine, mostra come la riconciliazione passa per questa stessa strada: quando torna a vedere la casa dove un tempo viveva, la famiglia ceca ora residente gli dà un orologio da parete che aveva conservato «nel caso in cui passasse qualcuno»: è diventato l’oggetto più prezioso del suo arredamento.

Gli echi nell’oggi
A 80 anni da questi avvenimenti, le ferite segnano ancora la società di oggi: l’espulsione dei tedeschi dalla Boemia settentrionale ha comportato la perdita della sua secolare tradizione contadina, e quindi un impoverimento economico e culturale. Anche Lothar Knessl, di famiglia ceca originaria della Slesia tedescofona, nota con dolore che le terre un tempo fiorenti, curate dai tedeschi che ci vivevano da sempre, furono trascurate dai cechi trapiantati, che non si trovavano bene in quelle zone estranee e non sapevano come gestirle. Questa trascuratezza è ancora estremamente dolorosa per gli espulsi sopravvissuti.
Dorothea Blaha, raccontando le recenti visite alla sua città natale Reichenberg (Liberec), si dice contenta di sapere che dal suo appartamento sono stati ricavati uffici: non avrebbe sopportato di vedere altra gente vivere nella sua vecchia casa con i suoi mobili. La storia riemerge da ogni parte: Milada Vorlová si preoccupa per il patrimonio architettonico boemo che rischia di essere distrutto perché «tedesco» o con la scusa che andrebbe modernizzato.
L’impegno per la memoria rimane quindi faticoso, ma quanto mai necessario per un futuro comune, e non può essere solo un esercizio accademico. Per questo dal 2015, sfidando le resistenze degli stereotipi ancora esistenti, le autorità comunali di Brno organizzano insieme all’Associazione dei Tedeschi Sudeti un «pellegrinaggio della riconciliazione», che va in senso contrario rispetto alla «marcia della morte» del 1945: dalla fossa comune di Pohořelice al confine con l’Austria, fino al dormitorio di Kaunic nel centro di Brno, dove i tedeschi durante la guerra torturarono e giustiziarono i cechi e dove, quattro mesi dopo la fine del conflitto, i cechi a loro volta giustiziarono i tedeschi; qui oggi cechi e tedeschi pregano insieme e depongono corone di fiori in commemorazione delle vittime di entrambe le ingiustizie. Non si tratta di negare la crudeltà dei tedeschi nei confronti dei cechi o la brutalità della reazione vendicativa, ma di affrontarle lavorando insieme, riconoscendosi persone desiderose della stessa umanità.
(immagini generate con IA)
Miriam Zanoletti
Nata nel 1999, ha studiato all’Università Ca’ Foscari di Venezia e Albert-Ludwig di Friburgo, conseguendo la laurea magistrale in Lingue e Letterature tedesca e russa.
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