«Mi sento colpevole per il mio paese»

20 Agosto 2025

«Mi sento colpevole per il mio paese»

Viktorija Ivleva

Una giornalista impavida che non si limita a raccontare ma che si implica direttamente in ciò che vede. Aiutare gli sfollati, testimoniare i drammi delle popolazioni fanno parte del suo lavoro. Per placare il senso di colpa in quella cosa più grande che è la solidarietà. Nostra intervista esclusiva.

Questa intervista alla fotografa russa che ha preferito vivere in Ucraina piuttosto che a casa sua, esprime un dolore che non trova pace. Illumina lo strazio interiore di una persona che si sente tradita nella sua appartenenza più profonda, e nega ogni fiducia ai suoi compatrioti russi. Ma c’è qualcosa che, nonostante tutto il suo estremo pessimismo, ne contraddice radicalmente la disperazione e apre spiragli di speranza: vivendo all’insegna di un senso di colpa assoluto aiuta gli altri, e noi stessi, a vincerlo, proprio con la testimonianza del proprio dolore e con la testimonianza che offre quando parla dei tanti suoi compatrioti che «stringendo i denti» aiutano di nascosto gli ucraini. Nostra intervista esclusiva.

Viktorija, ci dica in breve di sé.
Mi chiamo Viktorija Ivleva e sono una giornalista, fotografa e volontaria russa. In Russia sono stata catalogata come «agente straniero». L’Ucraina è entrata nella mia vita solo con il Majdan, fino a quel momento questo paese per me era semplicemente un cagnolino che scodinzolava accanto alla Russia. Non mi interessava affatto.

Ma d’un tratto questo cagnolino si è trasformato in uno splendido leopardo, e in Ucraina è successo qualcosa d’incredibile: il Majdan, la rivoluzione della Dignità. Seguivo gli avvenimenti in streaming, completamente ipnotizzata perché capivo che stava accadendo qualcosa di fuori dell’ordinario. Ancora oggi considero il Majdan un evento eccezionale. Ricordo quelle piccole figure umane che si arrampicavano circondate dal fumo, tra gli pneumatici in fiamme, e non arretravano. Questa determinazione a sacrificare tutto ciò che avevano per cambiare vita, per il proprio paese, mi ha scosso nel profondo.

Poi è venuta la Crimea. Ricordo molto bene il giorno in cui sono apparsi gli «omini verdi», come si diceva allora, che in realtà erano agenti dei Servizi russi sul territorio della penisola. Ricordo come l’hanno presa, come i più coraggiosi erano stati i ragazzi dell’Accademia navale, che probabilmente in quel momento avevano già prestato giuramento all’Ucraina e si erano schierati a cantare l’inno mentre tutti gli altri non sapevano che fare. Ricordo la sensazione schiacciante d’impotenza: capivi che stava succedendo una cosa terribile, assolutamente illegale… e capivi di non poter fare nulla. Eppure, qualcosa bisognava pur fare, perché non si può capitolare e basta quando succedono certe cose…

Avevo la sensazione che mi fosse crollata addosso una montagna di mattoni e che potevo muovere solo un mignolo. Ma comunque avrei continuato a muovere quel mignolo fino all’ultimo respiro. Almeno per dire che ero contraria. In quel momento non potevo far altro; del resto, penso che nessuno in quel momento avrebbe potuto fare qualcosa. È stato allora che qualcosa è cambiato profondamente dentro di me. Ho incominciato a seguire gli avvenimenti e alla fine di marzo [l’occupazione era del 20 febbraio 2014] sono partita per l’Ucraina.

Sono partita da Doneck e ho iniziato il viaggio verso occidente: Doneck, Zaporižžia, Kyiv, Žitomir, L’viv, Ivano-Frankivsk e Kolomyi. Sono tornata a Doneck l’11 aprile e di lì a Mosca; il giorno dopo Girkin ha occupato Slovjansk ed è iniziata la guerra vera e propria1.

Io abitavo presso gente conosciuta su facebook. Quel viaggio è stato reso possibile da tante persone, perché allora non conoscevo nessuno in Ucraina, così mi sono rivolta ai miei follower di facebook: i russi hanno raccolto un po’ di soldi per il viaggio, mentre gli ucraini mi scrivevano: «Soldi non ne abbiamo, ma la possiamo ospitare. Venga che parleremo, noi non capiamo niente di cosa sta succedendo».

Una volta rientrata a Mosca, ho visto in internet una scritta in lettere di fuoco: «Slovjansk come Stalingrado». E ho pensato: ma siamo pazzi?! Tutti capiranno che è una panzana bella e buona… Così ho deciso di tornare a Slovjansk, dove ho collaborato col pastore protestante Petr Dubnik; un tipo incredibile che si è assunto il compito di evacuare la gente. Lì a Slovjansk non ho fatto molto, ho portato fuori solo 45 persone. Ma meglio 45 che niente. Ricordo che metà degli evacuati voleva andare in Russia, l’altra metà in Ucraina o in Crimea. Di solito andavano dove avevano parenti.

Poi per un mese ho aiutato a rimettere i vetri alle finestre delle case. Allora mi sembrava una cosa terribile. Ora capisco che eravamo ancora all’asilo, rispetto a quel che è successo dopo. Mi colpiva il fatto che potevo tranquillamente superare tutti i posti di blocco in un senso e nell’altro; mostravo il mio passaporto russo e nessuno mi ha mai detto niente.

In seguito, ho aiutato ad evacuare la gente dai territori ucraini occupati; non ricordo quanti ne abbiamo portati fuori, mi sembra circa 200. Poi sono stata fermata e ho dovuto interrompere i miei viaggi.

«Mi sento colpevole per il mio paese»

Izjum, 2022. (© V. Ivleva)

Nel 2019 mi sono data da fare per i 24 marinai ucraini catturati dai russi nello stretto di Kerč. Quando sono stati trasferiti a Mosca, io e alcuni amici abbiamo incominciato a visitarli e a portare loro dei pacchi. Siamo riusciti a paralizzare l’intero carcere giudiziario perché ogni volta portavamo qualcosa come 300 kg di prodotti alimentari (per 24 persone!), che venivano confezionati e imballati a casa mia, poi bisognava allegare l’inventario compilato in un certo modo. Nel carcere di Lefortovo non avevano un sistema di registrazione elettronico, scrivevano tutto a mano, perciò diventava un’operazione incredibile, ma è andata sempre a buon fine.

E poi… poi è arrivato il 24 febbraio. Il giorno prima avevo scritto un lungo post su facebook che iniziava con queste parole: «Oggi che siamo alle soglie di una grande guerra…». Penso ancora di aver scritto giustamente che bisognava darsi da fare, aiutare, essere onesti. E alla fine concludevo: «E poi… poi bisogna amare la Russia, perché se non l’amiamo rimarrà uno spazio devastato, pieno di volgarità e cattiveria». Ma qui sbagliavo.

In che senso?
Io non posso più amare la Russia. Direi che non si può amarla ora. Se ho una mamma alcolizzata all’ultimo stadio che ruba la roba in casa, le voglio bene lo stesso. Ma a un certo punto le dico: «Basta mamma, non ce la faccio più perché tu hai rovinato te stessa e stai rovinando me». Dopo tutto quello che la Russia ha fatto qui non penso di poterla amare più.

La mattina del 24 verso le 9, quando c’è stato il primo bombardamento di Kyiv, mi ha telefonato una mia follower per dirmi che aveva paura, perché avevano preso in pieno una casa vicino. Piangeva. Io ho cercato di calmarla, ma non sapevo bene cosa dire. Quel giorno la guerra è entrata anche in casa mia.

Quel giorno stesso, o il seguente, ho preso la decisione di lasciare la Russia. Non solo di lasciare la Russia, ma di andare in Ucraina. Se l’Ucraina non mi avesse accolto, sarei rimasta in Russia. Penso spesso che se fossi rimasta avrei potuto aiutare di più l’Ucraina. Una grossa parte degli aiuti che ricevono i prigionieri di guerra o anche i civili condannati proviene da cittadini che abitano in Russia. Non posso fare i loro nomi perché, anche se finora nessuno è stato toccato, sappiamo bene che potrebbe esserlo in qualsiasi momento

Aveva la sensazione di partire per sempre?
Non ci pensavo, vivevo momento per momento e ritenevo di dover stare in Ucraina perché il mio paese aveva compiuto un crimine. L’unica cosa che potevo fare era aiutare le persone che soffrivano per quel crimine. Volevo stare con l’Ucraina, non con la Russia. Così il 7 marzo, con mio figlio minore Ignat ci siamo trasferiti. Da quel 7 marzo 2022 vivo in Ucraina.

Come sono stati i primi tempi in Ucraina?
Stavo a Kyiv. Una Kyiv deserta, senza gente. Ho percorso la Salita di sant’Andrea su e giù, più volte, senza incontrare nessuno. Provi a immaginarsi questa via centralissima senza un’anima. Era una sensazione molto spiacevole, come se fossi da sola in una città enorme. Ricordo dei manifesti, che oggi sembrano ridicoli nella loro ingenuità, ma allora si nutriva qualche speranza: «Soldato russo, come potrai guardare negli occhi i tuoi figli quando tornerai a casa?». Poi, dopo Buča, gli appelli al soldato russo sono spariti.

Non mi spostavo molto in città perché avevo solo il passaporto russo e nient’altro, e una donna sola con passaporto russo era meglio che non girasse troppo. Una volta, stavamo traslocando da un appartamento a un altro ma il tassista ha sbagliato strada e siamo finiti davanti alla sede della SBU [i Servizi di Sicurezza ucraini]. La strada era tutta bloccata. Gli agenti ci hanno invitato a scendere dall’auto con molta calma e gentilezza, senza arroganza e prepotenza come fanno in Russia. Poi hanno chiamato un superiore, che è arrivato e ci ha chiesto dove andavamo. Quindi ci ha accompagnati al nostro indirizzo, è entrato in casa con noi e ha preso nota dei nostri passaporti. D’un tratto ha notato una macchia rossa sul pavimento e mi ha guardato, come a dire: cos’è, sangue? Invece era la barbabietola che avevo nella sporta. Anche questo piccolo episodio è significativo: ero una persona proveniente da un paese ostile. Ero entrata in modo regolare ma comunque avrebbero potuto fermarmi, interrogarmi, portarmi nei loro uffici. E invece niente di tutto questo, è stato tutto molto civile. Questo mi ha confermato una volta di più che l’Ucraina è un paese cordiale e gentile. Davvero. La Russia cerca di renderla brutale ma per adesso non ci riesce molto. Penso che non ci riuscirà.

Poi ho avuto l’accreditamento delle Forze Armate ucraine come giornalista, mentre Ignat lavorava per la televisione francese come fixer. È stato tra i primi giornalisti a entrare a Buča e a vedere i cadaveri. È entrato nel cortile di una casa, dove giaceva una donna morta. Poco distante c’era un uomo con le braccia spalancate come Cristo. Ignat ha fotografato la mano di questa donna. Era semiaperta e lì accanto c’era il suo portachiavi con le stelle dell’Unione Europea. In seguito, Ignat ha cercato di identificare i morti chiedendo ai vicini. E ha saputo che erano i genitori di Ivan Čeredničenko, direttore dell’Opera nazionale di L’viv.

Anch’io, appena ho potuto, il 7 o l’8 aprile, sono andata a Buča. E sono capitata per caso nel momento dell’esumazione dei corpi nel cortile della chiesa di Sant’Andrea Primo chiamato. È stata una delle esperienze più terribili di questa guerra. Non so come spiegare, era come il fascino oscuro della morte. Stavo lì instupidita, guardavo e non potevo andarmene. Tirano fuori un corpo. Poi un altro, avvolto in stracci. Un terzo. E avanti così, ancora e ancora. Nessuna di quelle persone avrebbe più vissuto. Non c’era la cassa del tesoro, solo cadaveri. E tu sei come catturato da questo. Non saprei come chiamarlo, forse la magia della morte.

Tutto questo mi ha ricordato spaventosamente la Cecenia, le fosse comuni. Anche se poi qui c’è stato di peggio, e ancora prosegue.

Buča, esumazione dalle fosse comuni, 2022. (© V. Ivleva)

Ci racconti ancora di come vive il paese in guerra.
A Kyiv mi ha stupito vedere che tutti i servizi pubblici continuano a funzionare. Funziona la raccolta dei rifiuti, lavorano i custodi. La capitale era sempre pulita. Subito dopo che un razzo colpiva una casa arrivava il servizio di rimozione detriti, i vetri venivano sostituiti con pannelli di compensato. Ero sorpresa. Gli uomini che se ne occupavano erano semplici portinai o addetti dei servizi comunali che non manifestavano rabbia, non erano maleducati con nessuno, parlavano normalmente, quando ti rivolgevi loro ti rispondevano. Da una prospettiva umana, tutto questo è sorprendente: c’è una guerra in corso, ma tutto intorno è umano.

È così anche ora?
Sì, solo che ormai sono abituata a questa normalità.
Un altro episodio di questo tipo: stavo tornando in Ucraina dalla Polonia. Tutti i cittadini russi che lasciano l’Ucraina al ritorno devono per legge essere controllati in base ai registri dei Servizi di sicurezza. Per me era la prima volta e non lo sapevo. La guardia di frontiera mi dice di scendere dal treno perché i controlli richiederanno molto tempo. Ancora una volta con tranquillità, in modo civile. Era una stazioncina piccolissima, che offriva solo due panche, starci seduta o distesa a lungo era scomodo, ma in qualche modo mi sono sistemata. A un certo punto, esce da una porta una donna, un’impiegata dello scalo merci, e mi dice: «Venga che le faccio un caffè». Avevo molte ore fino al treno successivo, così ci siamo messe a chiacchierare. Mi ha raccontato che era del paese vicino, che molti ragazzi dei loro erano andati al fronte. «Quattro li abbiamo già seppelliti, abbiamo quattro tombe», ed era un paese piccolo. La quinta tomba non c’è. Le dico: «Troveranno il corpo prima o poi». E lei: «No, è bruciato col carro armato». E d’un tratto ho capito.

Fino a un attimo prima stavo seduta sulla panca e pensavo: «Insomma! Devo starmene qui, ho freddo, sono disgustata, ho sonno, non ho niente da mangiare. Perché tutto questo disagio a me che sono una russa buona, che ama l’Ucraina?!». Ma quella frase «è bruciato col carro armato» mi ha rimesso al mio posto. Ho capito che non ho diritto di lamentarmi di alcunché. Perché le sofferenze che sopportano gli ucraini io non me le sogno neanche. A me non è successo niente di vagamente simile. Questo mi ha riportato coi piedi per terra; ho smesso di credermi chissà chi. Una volta per tutte. E ho capito che nella situazione attuale non ci possono essere dei russi bravi perché tutti noi abbiamo lasciato che la guerra scoppiasse. Si può discutere di storia e di molto altro. Che non si poteva evitare, che l’elezione di Putin era inevitabile. Che la Russia è così: autoritaria, totalitaria. Si può dire questo e altro, e tuttavia la guerra l’ha lasciata scoppiare anche la mia generazione.

Questo episodio ha influito tantissimo sul mio successivo mestiere di giornalista in Ucraina. Di solito un giornalista è insistente per professione: fa pressioni sulle persone perché lo lascino andare dove vuole. Se lo cacciano dalla porta rientra dalla finestra, eccetera. Ma io ho capito che non posso più permettermelo in Ucraina. Se mi dicono di no, me ne vado. Capisco che alla gente, qua, posso dare fastidio per il semplice fatto che vengo dalla Russia. Come si fa a non capire che l’unica cosa che oggi si può e si deve fare è aiutare l’Ucraina?

Aiutare per patriottismo o per senso di colpa?
Ma quale patriottismo! Bisogna semplicemente capire che l’Ucraina deve vincere, anche per il bene della Russia. E tuttavia non capisco come mai non ci sia in Russia un qualche movimento di persone che vengono qua a difendere l’Ucraina. Conosco un gran numero di persone che aiutano l’Ucraina ma solo sul piano umanitario. Danno soldi, anche tanti, ma ai progetti umanitari, aiutano a far uscire i profughi, aiutano gli ospedali. Ma non l’esercito ucraino, tranne pochi. Almeno tra quelli che conosco io.

Le storie che ci ha raccontato sono tutte testimonianze di una vita, del desiderio di una vita per cui valga la pena difendere il paese e la propria dignità. Secondo lei, perché questo non si vede in Russia? Sembra che l’interesse primario sia la pura sopravvivenza e l’odio per l’altro da sé.
Non so perché sia così, ma in Ucraina le persone non si umiliano a vicenda. Non si vive in uno stato di umiliazione; anche se c’è molta povertà la gente si parla in modo corretto, non dall’alto in basso, mentre in Russia ci si sente perennemente umiliati.

Se devi andare in qualche ufficio pubblico sai già prima che devi indossare la corazza, che qualcosa andrà storto, che non ti aiuteranno, che non ti spiegheranno niente, che dovrai strappare le informazioni e lottare per qualsiasi pezzo di carta. Insomma, che sarà tutto molto incivile. E penso che se per tutta la vita ti hanno umiliato e picchiato sulla testa, appena ti capita la minima occasione di umiliare a tua volta qualcun altro lo farai in modo praticamente inconscio.

Da dove viene questo continuo stato di umiliazione? Come si può uscire da questo circolo vizioso?
Una via d’uscita c’è stata diverse volte. L’ultima è stata nell’agosto del 1991. Ma tutte queste occasioni sono andate perdute perché hanno sempre avuto la meglio i cavernicoli. Così mia mamma chiamava gli abitanti del nostro paese. «Non vincerete mai, questi sono uomini delle caverne», mi ha detto. Era convinta che quello che faccio fosse inutile, non perché non abbia senso portare aiuto concreto, ma perché non ha senso andare alle manifestazioni, cercare di dimostrare qualcosa al potere. Non ha senso perché contro di noi ci sono i cavernicoli. Abbiamo davanti uomini armati di clava che menano colpi a destra e a manca, anche contro se stessi. Questo in Russia va avanti da secoli. Non si è riusciti a fare mai nulla. E ogni sconfitta nella lotta per la libertà, per la democrazia fa sì che lo Stato riesca a soggiogare sempre più il singolo, ad assimilarlo. Tu te ne stai seduto e zitto, e lo Stato può darti un appartamento o un viaggio alle terme. Può dartelo ma anche non dartelo…

Lei ritiene che il suo paese sia diventato totalitario?
Altroché! Oltre mille detenuti politici. E di molti neanche sappiamo niente, non tutti sono stati resi noti, purtroppo. Questo a considerare solo i cittadini russi. Ma quanti detenuti politici ucraini sono stati costretti a prendere la cittadinanza russa per poter sopravvivere e dopo pochi giorni sono stati fermati e accusati di tradimento della patria… Sono moltissimi.
E non si sa come tirarli fuori perché la Russia li considera suoi; non è come portar fuori un qualsiasi straniero. Trasferire questi ucraini in territorio ucraino è quasi impossibile, tranne rari casi…

Prigioniero russo, 2024. (© V. Ivleva)

Come vede il futuro positivo per la Russia?
Solo il suo crollo. Non si può andare avanti per un secolo a distruggere sistematicamente tutto ciò che c’è di vivo nel paese. Ad un certo punto questo processo di distruzione diventa irreversibile e non resta che la mandria, o i servi del potere, mentre i personaggi al potere sono tutti ipocriti, bugiardi e mascalzoni. Allo stesso tempo, possono anche essere manager in gamba, finanzieri coi fiocchi, businessmen capaci. Ma sul piano umano sono tutti delle nullità. E lo si vede.

In più, penso che questo coltivare il peggio dell’umano sia peggiorato con Putin, che ha tirato fuori la merda che c’è in ciascuno di noi. Dico sempre che quelli che ora combattono al fronte, che ammazzano gli ucraini, sotto un regime diverso avrebbero potuto piantare le rose. Se il potere gli avesse detto: ragazzi, piantate le rose e noi vi paghiamo un milione, tutti sarebbero andati a piantare le rose. Invece il potere gli ha detto: andate ad ammazzare e noi vi paghiamo un milione. E tutti sono andati.

Ha avuto occasione di entrare in contatto con i prigionieri di guerra russi?
L’ho fatto in un campo di prigionia dove sono stata diverse volte, l’ultima nel 2024. Ho visto, da una parte, che queste persone non si rendono conto di nulla. Sin dall’inizio non capivano che li mandavano ad ammazzare. Tutti pensavano di andare per guadagnare del denaro. Questo attaccamento ai soldi tra il popolo è cominciato con Putin. Ho osservato che la gente in Ucraina non parla di soldi, per lo meno i soldi non sono il punto di partenza di ogni discorso e di ogni giudizio. Mentre questo è molto comodo al regime. Tutti sono andati in guerra per guadagnare. Non penso che quei prigionieri mentissero spudoratamente; molti di loro avevano un quoziente intellettuale talmente basso che avrebbero fatto fatica a ingannarmi.

Di solito i soldati mi dicevano: io non ho ammazzato nessuno. Poi scoprivo che erano tiratori scelti, o carristi… eppure non avevano ammazzato nessuno! Non pensavano che se hanno trasformato la ridente cittadina di Bachmut in uno spazio senza vita, assolutamente sfigurato, qualcuno lo avranno pure ammazzato.

Questa è la sensazione principale che mi è rimasta dopo aver parlato con loro. Non voglio dire che fossero tutti intellettualmente sottosviluppati, c’erano anche persone del tutto normali. Ma anche queste arrivavano al massimo a dire: ho visto quelle povere donne, quei poveri bambini; che stupido sono stato a lasciare la moglie e il figlio per andare a combattere. Mi aspettavo che chiedessero perdono… Invece niente, anche se avevano le lacrime agli occhi. Come se non capissero che la guerra è innanzitutto l’orrore della morte.

In Ucraina tutti ripetono che bisogna resistere, continuare a vivere, loro invece continuano a dire che bisogna morire per la patria, che è una grande fortuna. Una colossale idiozia questa idealizzazione della morte; trattare come una cosa normale che un ventenne muoia senza aver concluso niente nella vita. Sul territorio di un altro paese che non ti ha mai fatto niente di male. A che scopo?

Lei una volta ha detto che la cosa più interessante è vedere cosa fa la gente lontano dal fronte. Ci può dire qual è la cosa più preziosa che l’ha colpita in questi anni di guerra?
Conosco una gran numero di persone, in Russia, che resistono a denti stretti e svolgono in silenzio il loro lavoro: presenziano ai processi, scrivono lettere, recapitano pacchi, raccolgono denaro per i pacchi, spediscono questi pacchi, aiutano le persone a lasciare i territori occupati, li portano fuori fisicamente. Salvano gli animali feriti di quei territori. Di fronte a questo, raccontare le buone azioni che faccio io qui sarebbe ridicolo, perché io non rischio niente.

Cosa resta della cultura russa, per lei?
Io non dico, né dirò mai che bisogna smettere di leggere Bulgakov. Leggiamolo pure. Ma, ad esempio, sui mezzi pubblici non leggo mai un libro russo non perché abbia paura che mi aggrediscano ma perché mi mette a disagio. Ho sempre dentro di me la coscienza di appartenere a un paese che porta distruzione. In Ucraina non fa altro che questo: opprime e distrugge. Ho visto Bachmut, so quel che dico.

Nel 2015-2016 Bachmut era una bellissima città con giardini pieni di rose; una vecchia città con bei palazzi, non un villaggio di minatori. Era un posto interessante, una città cosacca famosa, dov’era piacevole stare. Adesso non c’è più. Tutto è distrutto. Impossibile viverci e si capisce che non potrà mai più risorgere. L’ultima volta ci sono stata nel febbraio del 2023, per evacuare la popolazione.
Io vivo qua in Ucraina con questo senso di colpa.


(foto d’apertura: © V. Ivleva)

Viktorija Ivleva

Nata nel 1956 a Leningrado, è fotografa e giornalista. Nella sua lunga esperienza è stata nelle aree più critiche del pianeta, dall’Africa al Caucaso, partecipando a diverse missioni umanitarie internazionali. Ha lavorato per numerose testate russe e internazionali. Attualmente vive in Ucraina e dal dicembre 2024 è stata inserita nell’elenco degli «agenti stranieri» del Ministero della giustizia russo.

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