
17 Maggio 2025
Ho sperimentato l’odio e il perdono
Un gruppo di volontari italiani in visita fraterna in Ucraina. Uno dei partecipanti ci racconta quello che ha visto, le riflessioni che l’esperienza gli ha provocato. E offre la sua personale esperienza di rifugiato politico come dono di pace.
A marzo è stato in Ucraina con il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (MEAN): quali erano il motivo e l’obiettivo del vostro viaggio?
Siamo stati invitati da monsignor Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico in Ucraina, dopo che ci eravamo conosciuti nel luglio 2024 a una preghiera ecumenica per la pace e da quell’incontro era nata un’amicizia. Mi ha colpito molto quello che ci ha detto: «Non importa se non siete tanti, potete venire anche solo in 10; a me interessa che siate miei amici, perché siete tra i pochissimi con i quali riesco a parlare e farmi capire», intendendo una comprensione profonda, che va al di là delle barriere linguistiche.
Abbiamo pensato insieme come concretizzare questo desiderio, per non rischiare di imporre noi dall’esterno le nostre soluzioni come se la gente locale non sapesse cosa vuole e di cosa ha bisogno: non c’è cosa più inutile che rispondere a una richiesta che non è mai stata fatta. Così è nata l’idea di organizzare un grande evento religioso per il Giubileo, centrato proprio sull’essere portatori di speranza, coinvolgendo la società civile a più livelli: dall’ambiente universitario e accademico, a quello artistico, sportivo, religioso e, se riusciremo, anche imprenditoriale.
Tutto questo si inserisce perfettamente negli obiettivi del MEAN, un progetto condiviso da associazioni di diversa natura, che mira a promuovere la «diplomazia tra i popoli» come nuova via verso la pace. Dobbiamo riconoscere che gli strumenti usati fino ad oggi per risolvere le incomprensioni internazionali non sono bastati: la forza del diritto non ha funzionato e nemmeno il diritto alla forza, cioè la violenza, che non fa altro che approfondire i problemi già esistenti.
La strada perseguita da questi corpi civili di pace europei è quella dell’ascolto dei bisogni concreti di un popolo attraverso l’incontro innanzitutto con i civili e, se possibile, anche con il livello istituzionale. Il punto infatti è che la pace non si fa solo parlando di pace, ma la si fa costruendo. Una frase che è stata a lungo il motto dell’AVSI diceva: «Condividere i bisogni per condividere la vita»: è proprio così che si può essere veramente portatori di pace.

I membri del MEAN con il nunzio mons. Visvaldas Kulbokas.
Poi c’è un aspetto successivo del nostro lavoro, ovvero la giustizia riparativa, cercare cioè di riavvicinare (ovviamente se lo desiderano) la vittima e il colpevole, che magari si è pentito di ciò che ha fatto. Quante volte noi ci pentiamo delle stupidaggini e delle cattiverie che facciamo, è un’esperienza che ho fatto personalmente.
Com’è stato trovarsi faccia a faccia con la distruzione e il dolore che ci sono oggi in Ucraina?
È stato toccante vedere come molti si emozionavano anche solo a vederci, prima ancora di sapere il motivo della nostra visita: già il fatto che fossimo andati lì, dove nessuno vuole andare perché sparano e bombardano, è stato percepito come un gesto di solidarietà enorme, sconvolgente. È attraverso questo incontro che noi corpi civili vogliamo portare la pace.
Poi mi ha colpito molto la cura per l’ordine e la bellezza che gli ucraini dimostrano anche in mezzo alla distruzione: mentre eravamo lì alcuni edifici sono stati colpiti, ma le macerie non rimanevano a lungo perché subito la gente si attivava per sgomberare, riparare, ricostruire. Questa è speranza: l’università che prepara i suoi allievi per il giorno in cui la guerra finirà, una enorme cattedrale greco-cattolica piena di vestiti, medicine, sussidi. È un popolo veramente in azione e la sua forza mi ha colpito tantissimo. Viaggiando in treno abbiamo incontrato un soldato in congedo, prima muratore, che ha un figlio autistico e quindi avrebbe potuto essere esonerato dal servizio militare. Invece lui, a 50 anni, ha deciso di andare comunque a combattere, «perché – ci ha detto – io sono già vecchio ma i giovani non devono morire in questa guerra. Se no come può esserci un domani?». Nonostante sia consapevole del prezzo che può pagare per questa scelta, ha deciso di farlo per i suoi figli e per il domani.
Questo pensiero costante al domani, la speranza sempre presente, mi ha molto colpito. Non sto idealizzando, perché nessuno è perfetto, né ucraini, né americani, né russi, né cinesi, però esiste davvero la tensione alla bellezza e la predisposizione alla dignità, e gli ucraini ce l’hanno.
Lei nella sua vita ha sperimentato personalmente la conversione dalla violenza al pentimento: come è avvenuto questo cambiamento di prospettiva?
Io sono nato in Argentina in una famiglia cattolica, ma già dai 13 anni il cristianesimo non mi era più sufficiente come risposta a una realtà che era molto violenta, fatta di continui colpi di Stato e dittature. A quell’età, non trovando altre vie d’uscita, la cosa più giusta per me era unirmi a chi con le armi si opponeva a queste dittature. Così fino ai 18 anni ho fatto parte di un’organizzazione guerrigliera, arrivando a rendermi conto che non solamente gli altri sono cattivi, ma tu stesso lo diventi.
Quando entri nella logica della violenza non ne può nascere niente di buono: l’unica cosa che può nascere dalla violenza è ulteriore violenza, ulteriore odio, e la storia continua all’infinito. I miei compagni sono stati quasi tutti uccisi e, per moltissimi anni, anche dopo aver lasciato l’Argentina, perdonare per me significava tradire i miei ideali e le persone care che erano morte.

Non solo bombardamenti, uno squarcio di bellezza a Charkiv.
La mia fortuna è stata incontrare mia moglie e i miei suoceri, gente di una semplicità incredibile ma veramente cristiane, senza doppiezze. Io allora ero rifugiato politico in Francia, pulivo i pavimenti e non avevo niente se non uno zaino: loro non si sono fermati ai miei errori ma mi hanno voluto bene davvero e mi hanno mostrato cos’è la bellezza. Quindi bisogna sempre fare attenzione a condannare subito una persona per ciò che fa, anche se ha sbagliato, perché magari dietro all’errore c’è un essere umano che sta male. Non significa giustificare gli sbagli, è bene che si faccia giustizia in ogni ambito e paese, dico semplicemente che bisogna sempre amare l’altro.
L’amore che i miei suoceri mi hanno donato ancora mi commuove perché, quando conosci veramente l’amore, che è molto più del rispetto, è il donarsi totalmente per te e l’augurarti il vero bene, capisci che è qualcosa di incredibilmente profondo e che al tempo stesso raggiunge l’infinito.
Dopo quell’incontro, il suo processo di conversione è stato graduale oppure ci sono stati dei momenti precisi che hanno segnato una svolta decisiva?
Ricordo un momento nella mia vita che è stato uno spartiacque. Era il 1990 e dopo aver tentato più volte di riprendere la mia battaglia politica in Argentina, senza successo e rischiando anche la vita, avevo deciso di rientrare in Italia, dato che la situazione stava diventando troppo pericolosa soprattutto per i miei bambini e mia moglie. Ero esausto, convinto che sbagliavo sempre qualcosa e stanco dei miei fallimenti. Stavo male, non volevo più vivere. Quando la forza è tutta tua, prima o poi ti scoppia il fegato, non ce la fai; quando la tua forza è solo la tua volontà, prima o poi vuoi farla finita, perché la capacità di sopportare il dolore si esaurisce. La tua capacità di sopportare le sconfitte può essere enorme, ma arriva a un punto in cui se non hai qualcos’altro che ti sostiene, la tua energia si consuma e sei finito.
In quel periodo, sono andato con mia moglie in Francia, da mio fratello. Eravamo in spiaggia e nel silenzio mi domandavo cosa fare della mia vita, se ricominciare da capo. Improvvisamente ho sentito dentro di me una voce che diceva: «Ce la farai, ma non devi odiare. Ce la farai, ma non devi cercare vendetta». Ho pensato di essere impazzito, malato. Sulla via del ritorno, mentre percorrevamo l’autostrada che passa nei pressi di Lourdes, ho sentito un forte richiamo, un’attrazione simile a quella che mi chiama oggi ad andare in Ucraina. Ho proposto a mia moglie di fermarci: arrivati a Lourdes, mi sembrava di camminare su qualcosa di morbido che non era asfalto, non sentivo il pavimento: temevo sempre più di essere impazzito. Ci siamo inginocchiati e io già percepivo fisicamente una presenza in modo talmente forte da non poterla negare. Ma, testardo come sono, ho chiesto: «Se esisti, se veramente esisti, dammi una prova, e io crederò per sempre».
La prova era incontrare mio fratello proprio lì a Lourdes, cosa quasi impossibile visto l’affollamento e soprattutto visto che lui era totalmente estraneo a quei luoghi e pensavo che non si sarebbe mai fermato lì in vita sua. Ma nell’uscire l’abbiamo incontrato veramente, con sua moglie e i miei nipotini: da quel momento per me non c’è stato più nulla da discutere. Non era solo una storiella, una favola inventata dagli esseri umani per dominare la popolazione incolta, come avevo pensato per tanto tempo: questa presenza mi si è mostrata, e non posso più tornare indietro.
Avevo vissuto moltissimi anni convinto che la religione fosse uno strumento di potere – e in alcuni casi di fatto lo è – ma la fede è un’altra cosa. La presenza di Dio, riconoscere di essere fatti costantemente da Dio è un’altra cosa. Da lì è cominciato il mio vero incontro. Anche se la voglia di vendetta non mi è passata subito.
Come ha affrontato poi l’odio e desiderio di vendetta? Diceva che all’inizio vedeva il perdono come un tradimento, ma alla fine ci è arrivato a perdonare?
Non ci sono arrivato per una mia ricerca. Ho avuto una vera grazia – adesso me ne rendo conto – sono stato fortunato, graziato. La parte più difficile della vita di chi desidera la vendetta è l’odio che ti fa vivere tutto male. Puoi avere una moglie, dei figli che ti vogliono bene ma non ne hai consapevolezza, non riconosci la profondità e il valore che questo ha per te. C’è qualcosa di molto sottile che ti sfugge nell’amicizia, nel rapporto con i tuoi genitori, in tutto, perché tutto gira intorno all’odio.
C’è una frase molto bella di Jorge Luis Borges, che dice: «No nos une el amor, sino el espanto» (Non siamo uniti dall’amore, ma dalla paura), cioè la paura mischiata con l’odio, con il ribrezzo: questo fa vivere tutto male sia a te che a chi ti sta intorno. Io ho iniziato a vedere più in profondità da grande, quando ero stanco di odiare e non riuscivo più a vivere con questo peso dentro di me. Io non auguro a nessuno la disperazione, ma per me è stata un bene, è stata come la spina nel fianco di cui parla san Paolo:
c’è sempre un momento nella vita di tutti in cui ti guardi allo specchio e ti rendi conto che da solo non ce la puoi fare, anche se sei un uomo d’azione, uno che non si tira mai indietro, o una donna forte, in verità tu non sei proprio nulla, sei solo un mendicante, in ginocchio, che chiede che qualcuno ti aiuti sul serio.
E lì ho sentito di essere amato veramente da Gesù. È stato un click, non un processo logico, un ragionamento, è stata un’esperienza a cambiarmi, quella di riconoscermi amato da Lui. Questo a me è capitato con Cristo ed è il cammino che mi ha portato a riconoscere che anche l’altro è un poveraccio come me e che anche lui è amato da Gesù.
Pensa che questa sua esperienza di violenza e di superamento dell’odio legati alla dittatura possa servire anche agli ucraini oggi, soprattutto a coloro che piangono le vittime della guerra? Oppure trattandosi di un’aggressione esterna è una situazione troppo diversa?
Io credo che possa servire, pur in un contesto geopolitico molto diverso, perché la violenza è sempre violenza, la persecuzione sempre persecuzione. Qualcuno sarà aiutato dall’esperienza che racconto, altri penseranno che io sia un traditore, che avrei dovuto continuare a combattere e vendicarmi.
Anche molti argentini ancora non capiscono come io, che ho sofferto in prima persona l’uccisione dei miei cari, possa ora dire che bisogna perdonare perché altrimenti non possiamo vivere. Per tanti di loro, bravissime persone a cui voglio bene, sono una specie di traditore. Questo però non significa che si debba dire a chi sta difendendo il proprio paese che deve perdonare, perché sarebbe una forzatura. Se uno fosse venuto da me quando avevo 18, 30, 40, e pure 50 anni, a dirmi che dovevo perdonare, l’avrei cacciato via a pedate.
Allo stesso modo non si può dire agli ucraini oggi che devono perdonare mentre sono in piena battaglia, sta suonando l’allarme antiaereo e muoiono i loro cari. Quello che dobbiamo fare è essere portatori di pace.
Io non ho seguito il consiglio di qualcun altro, ho seguito un incontro, un fatto concreto. Preoccupiamoci di essere portavoce di questo fatto concreto, portatori di Gesù, chiediamo a Lui che ci usi come intermediari per arrivare fino a loro.

Cimitero di Charkiv, una sconfinata distesa che accoglie le vittime della guerra.
Secondo lei alla fine della guerra come si potrà stare di fronte all’ingiustizia che la Russia ha commesso, sia da parte degli ucraini che saranno accesi dal desiderio di vendetta di cui abbiamo parlato, sia da parte dei russi che dovranno rendersi conto del male che hanno fatto? Se la pace si fa in due, come si potrà arrivare davvero alla pace tra i due popoli?
Potrebbe essere che i russi non se ne renderanno mai conto.
La pace non si fa in due: per non disturbarsi e non aggredirsi più occorre mettersi d’accordo in due. Ma la pace, quella del cuore, non la si fa in due, la puoi fare tu.
È come quando discuti con tuo marito, con la fidanzata, con tua madre: se continui a rispondere e a urlare contro l’altro, finisce in una bomba atomica. Tu lavori molto più per la pace tra due persone se dici «ok, sto zitto» mentre l’altro magari continua a saltarti addosso e a dirti cose ingiuste, sciocchezze una dietro l’altra, ma tu hai capito che sta sbagliando.
E così la pace la fai tu, la vivi tu, la pace è la libertà, e la libertà della pace è tua, non è dell’altro. Non c’è bisogno di reciprocità: quante volte si aspetta una mossa dall’altro e si battibecca per niente? Se tu cerchi la reciprocità nella pace, vai dritto alla guerra.
Quando sono tornato in Argentina dopo la conversione, mia moglie preparava le lasagne e io le facevo arrivare a quelli che avevano perseguitato la mia famiglia. Uno di loro un giorno mi ha regalato un rosario: poi lui ha capito chi ero e tra noi è nata un’amicizia. Non nel senso che ci frequentiamo come amici, ma che ci auguriamo il bene l’un l’altro. Lui è in carcere perché ha ammazzato diverse persone, ma io gli auguro il meglio perché può capitare a chiunque: è un istante, come la conversione.
Anche per ammazzare non serve per forza la cattiveria, basta perdere il controllo. Quando il male ti prende le viscere e ti stringe dentro, aumentano l’odio, la rabbia, e il desiderio di male per l’altro. Però alla fine quello che non vive felice sei tu. Pensa al tuo bene: se anche l’altro non cambiasse mai, l’odio che provi è male per te, è terreno che tu concedi al demonio. E con il passare degli anni, quanto tempo sei disposto a concedere ancora al nemico vero?
Luis Vanella
Luis Vanella, nato a Córdoba (Argentina). Da anni vive in Italia, in provincia di Bergamo. È sposato da 46 anni e ha 4 figli.
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