21 Novembre 2016
Viaggio in Ucraina – 1
Un paese difficile, in piena crisi economica, soffocato dalla corruzione, piagato dalla guerra, dimenticato da tutti. Ma anche un paese che non si dà per vinto, dal forte tessuto sociale, incredibilmente creativo. Viaggio nell’Ucraina che resiste.
Da un anno e mezzo a questa parte il mondo sa di quel che succede in Ucraina quel tanto che fanno vedere la televisione e i giornali, cioè assolutamente niente.
Molti credono che la guerra tra ucraini e separatisti filorussi sia finita dopo il secondo cessate il fuoco del febbraio 2015, così ci siamo dimenticati dell’Ucraina in buona coscienza, sicuri che ormai il peggio fosse passato. Invece la guerra continua, con le vittime, le divisioni, le distruzioni che ogni guerra produce. Proprio per questo il 24 aprile di quest’anno papa Francesco ha voluto scuotere le coscienze indicendo una colletta tra i cattolici d’Europa «per mantenere desta l’attenzione su questo paese e la sua situazione». E il segretario di Stato vaticano, cardinale Parolin, c’è andato in visita ufficiale, nel giugno di quest’anno. In quell’occasione ha definito la guerra «infame, spesso nascosta, apparentemente poco visibile e quindi ingiustamente dimenticata anche dai media mondiali», richiamando l’Europa a farsi carico del destino di questo paese poiché «non si tratta semplicemente di un conflitto che si prolunga, ma di un pericolo permanente, è il segno di una ferita della civiltà, della storia, e dei popoli che va ben oltre le frontiere ucraine».
Arrivando all’aeroporto di Kiev, nonostante la guerra, si ha subito l’impressione di una città vivace, moderna, senza troppe tracce sovietiche. Le auto di grossa cilindrata, i negozi moderni, la pulizia nelle strade, anche l’assenza di detriti e ferri contorti sui terreni abbandonati rispecchiano un livello di vita europeo, almeno all’apparenza. Si sente anche tra la gente un certo pacato orgoglio per il recente passato, per le grandi speranze suscitate dal Majdan, per la forte autodeterminazione mostrata. Allora vorremmo cercar di capire come si compongono questi segni positivi, che vedremo confermati all’interno delle difficoltà attuali, con la dura realtà politica e sociale di oggi.
Infatti il quadro generale che l’Ucraina presenta attualmente è abbastanza fosco: crisi economica, la piaga della corruzione, lo strapotere degli oligarchi, la debolezza della politica. L’economia ucraina non si risolleva, e molti vivono ben al di sotto della soglia di povertà, con 2000 o 3000 grivni al mese (attorno ai 100 €), ma la pensione minima è 800 grivni (circa 30 €) per cui molti anziani per sopravvivere sono costretti a rivolgersi alle mense di beneficenza organizzate dal volontariato, che è molto ben presente (è il caso ad esempio della collaborazione tra la Comunità di Sant’Egidio e gli studenti dell’Accademia Mohiliana).
Le riforme economiche tanto attese non sono state decisive come sarebbe stato necessario, per questo motivo il presidente Porošenko, che era stato eletto col 54% dei suffragi, ha deluso le aspettative ed oggi i sondaggi gli danno solo il 14% dei consensi; gli si rimprovera lo strapotere degli oligarchi che lo circondano e ne dettano la politica; lo si accusa di non aver portato a termine l’epurazione dei fiancheggiatori di Janukovič, e infine di non essere stato capace di risolvere il conflitto nel Donbass.
Tutti questi elementi, comprese le mancate riforme, girano attorno a un nodo centrale che è la corruzione, che continua a soffocare ogni tentativo di rinnovamento. La politica ucraina è corrotta, come ben sottolinea la campagna anticorruzione presente ovunque, dall’aeroporto ai mezzi di trasporto. Nella graduatoria mondiale del livello di onestà delle amministrazioni statali pubblicata all’inizio del 2016, l’Ucraina si colloca al poco onorevole 130° posto, assieme a Iran, Nicaragua e Camerun; in compenso nel 2014 si trovava al 144°, quindi un lieve miglioramento c’è stato. Ma soltanto lieve, infatti negli ultimi due anni si sono susseguiti scandali economici che hanno coinvolto giudici, deputati, il figlio del ministro degli Interni, il presidente delle Linee aeree di Stato. Il fatto che i casi più macroscopici di corruzione vengano alla luce è positivo, ma purtroppo solo in alcuni casi si arriva all’inchiesta, e ancor più raramente al processo; mai, finora, a una condanna.
Un tentativo di riforma è stato fatto nel 2014-2015, quando il governo ha reclutato dei «tecnici» esterni, persone note per le loro capacità imprenditoriali e finanziarie, scelte nel mondo del business o addirittura all’estero, che non fossero mai state coinvolte in casi di corruzione. Tra di loro c’era il manager lituano Aivaras Abromavičius che, nominato ministro per lo sviluppo economico e il commercio, a partire dal dicembre 2014 ha cercato di rendere più trasparente la politica economica, introducendo inoltre riforme abbastanza radicali, istituendo tra l’altro una politica di austerità e forti tagli alla spesa per stabilizzare l’economia. Ma nel febbraio 2016 Abromavičius ha gettato la spugna, dopo aver subito per l’ennesima volta delle forti pressioni riguardo alle nomine dei direttori delle maggiori compagnie statali. Ad aprile ha dato le dimissioni anche il premier Jacenjuk (per sospetta corruzione) ed è stato sostituito da Vladimir Grojsman, un giovane della cerchia di Porošenko. Ai primi di novembre ha lasciato anche Mikheil Saakashvili, ex presidente della Georgia, nominato governatore della città portuale di Odessa per combattere la corruzione. In conclusione, alla fine del 2016 quasi tutti i tecnici invitati dall’esterno hanno dato le dimissioni. A questo punto sembrano giustificati i dati forniti da «The Economist» secondo cui l’Ucraina occupa il quinto posto nella classifica dei paesi a «capitalismo oligarchico», nei quali, cioè, il business condiziona la politica del governo.
La guerra
Inoltre l’Ucraina è in guerra, e probabilmente lo sarà ancora per molto, visto l’intrecciarsi degli interessi economici che la alimentano. Infatti, col passare dei mesi si è messo in luce uno dei meccanismi viziosi che, oltre all’intervento russo, alimentano il conflitto, ed è il ruolo che vi hanno i potentati ucraini. Alcuni oligarchi del Donbass, in collaborazione con i Servizi russi e appoggiandosi alle forze dell’ordine locali, coinvolte nella rete della criminalità organizzata, intendono fare della regione orientale una sorta di zona franca, dove mantenere il controllo totale di ogni attività. Per questo ancora oggi il governo ucraino non si decide a parlare di guerra ma solo di ATO, cioè di Anti Terrorističeskaja Operacija (Operazione anti terroristica), cosa che gli permette di non interrompere i rapporti diplomatici con lo Stato aggressore; per questo, ancora, fioriscono indisturbati i legami economici attraverso il fronte, contrabbando compreso.
Persino il cardinale Pietro Parolin, durante la visita nell’Ucraina meridionale, ha velatamente denunciato questo terribile legame con gli interessi economici: «la guerra è una minaccia costante alla vita, destabilizza il processo di ripresa, ed è fonte di illeciti guadagni per qualcuno».
Dal punto di vista territoriale, dallo scoppio della guerra nel 2014 all’ottobre 2016 la situazione è cambiata, ma in assenza di grandi operazioni belliche si ha uno stillicidio quotidiano di colpi d’artiglieria che cadono sulle case civili, portando distruzioni e vittime.
Le vicende belliche hanno coinvolto direttamente milioni di persone; secondo i dati dell’Alto Commissariato dell’ONU per i diritti umani le vittime sono oltre 10.000, di cui almeno un quarto civili colpiti dai bombardamenti d’artiglieria nelle aree urbane; i feriti sono oltre 21mila. Quanto ai combattenti ucraini, sono più di 180.000 i soldati regolari e volontari cui è stato riconosciuto lo status di «combattenti dell’ATO», anche se non tutti i partecipanti agli scontri nel Donbass hanno ottenuto tale riconoscimento. Oltre l’80% dei soldati ha riportato traumi psicologici, oltre il 50% delle loro famiglie si è disfatto. Ma anche per il resto della popolazione ucraina la situazione non è semplice perché la guerra è una presenza incombente per tutti, sempre terribile, una ferita aperta. Ed è tremendo vedere nel centro di una città che vive la sua normale vita quotidiana, le lunghe teorie di foto dei caduti: ventenni, trentenni, quarantenni che a questa vita non parteciperanno più.
La popolazione civile del Donbass ha sofferto molto duramente non solo come tributo di vite, ma come menomazioni e shock, come perdita del lavoro, della casa, di qualsiasi bene. Due milioni e mezzo di persone, un terzo della popolazione originaria della regione, hanno abbandonato le proprie case rifugiandosi chi in Russia, chi in Ucraina. Gli sfollati rifluiti all’interno del paese sono oltre 1 milione e 700mila, il che colloca l’Ucraina all’ottavo posto mondiale per numero di persone costrette ad abbandonare la propria casa. Eppure, nonostante questo, la crisi ucraina rimane al momento quella che riceve meno sussidi dai governi internazionali. I bombardamenti ed i colpi di mortaio hanno distrutto tutte le infrastrutture essenziali in decine di villaggi nella zona Est del paese. Mancano così i servizi di base come l’acqua corrente, l’elettricità, il riscaldamento centrale, mancano l’assistenza medica e strutture scolastiche accettabili. Oltre il 20 per cento degli ospedali del Donbass è stato distrutto dagli attacchi militari, così come almeno 100mila abitazioni e 1.500 chilometri di collegamenti stradali e ferroviari. Il governo finora non ha preso misure per i veterani né per i profughi; a detta di Barbara Manzi, capo dell’ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari in Ucraina: «Oggi 3 milioni di persone hanno bisogno di aiuto in Ucraina. Il problema, qui, è che si tratta di una crisi invisibile. Non ci sono campi profughi, come in altri paesi, e forse proprio per questo la situazione è ancora più grave e difficile da gestire».
Che la crisi sia invisibile e manchino le strutture d’accoglienza vuol dire innanzitutto che lo Stato fa (o può fare) molto poco per aiutare i profughi, ma d’altro canto vuol dire anche che la società ha risposto in modo molto responsabile alla situazione, facendosi in qualche modo direttamente carico di alloggiare e aiutare questa massa di senza tetto. Non è una cosa da poco, se si considera che siamo in un paese segnato dalla crisi economica. In base ai sussidi statali, oggi il 65% dei profughi del Donbass vive con una disponibilità mensile di poco superiore ai 1300 grivni (47 €).
Il quadro che si disegna è desolante. Se poi si aggiunge la geopolitica, l’orizzonte si fa ancora più buio: l’Ucraina, secondo il giornalista Vitalij Portnikov, è condannata a barcamenarsi tra la minaccia russa e le paure dell’Europa, cui ora si aggiunge l’incognita della presidenza Trump. Insomma, la condizione in cui versa il paese dopo tre anni di conflitto non dichiarato è catastrofica. Da tutti i punti di vista.
Eppure, da nessun’altra parte più di qui vale quello che ha detto il giornalista russo Nikolaj Epple: «Gli analisti e gli autori di pronostici hanno fatto fiasco per l’ennesima volta. I tentativi di studiare le leggi che regolano i processi politici, sociali e pure economici come uno spazio in cui funzionano leggi rigide e prevedibili, senza tenere conto dell’uomo con le sue debolezze, paure, nevrosi ed emozioni, falliscono miseramente. In questo senso geopolitica, sociologia ed economia mi hanno sempre lasciato perplesso. Viva la filologia, la scienza più esatta nel descrivere il cuore umano! Magari con la teologia».
In effetti quello che ci viene detto dalla geopolitica, dall’economia e dalla guerra non dà totalmente ragione di quel che si vede, cioè un’Ucraina non prostrata, non in ginocchio. C’è un fattore misterioso ma molto potente, che sfugge alle misurazioni socio-politiche ma che incide sulla vita della gente. Il nostro viaggio tra Kiev e Charkiv ci ha lasciato l’impressione di un paese che non muore, che ha ancora speranza.
(1- Continua)
• parte seconda
• parte terza
Marta Dell'Asta
Marta Carletti Dell’Asta, è ricercatrice presso la Fondazione Russia Cristiana, dove si è specializzata sulle tematiche del dissenso e della politica religiosa dello Stato sovietico. Pubblicista dal 1985, è direttore responsabile della rivista «La Nuova Europa».
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